Opera Omnia Luigi Einaudi

Libertà e licenza

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 25/05/1946

Libertà e licenza

«Libertà economica», 25 maggio 1946

 

 

 

Alla parola libertà economica si attribuiscono significati assai diversi. I critici della scienza economica usano di solito fabbricarsi una testa di turco che essi chiamano liberismo e che essi identificano con la celebre frase laissez faire, laissez passer, alla qual frase danno per giunta la significazione grossolana di licenza data ad industriali, a commercianti, ad agricoltori, a banchieri di fare tutto ciò che ad essi piace, senza nessun vincolo o limite, né di leggi, né di consuetudini, né di norme sindacali e né di legami di qualsiasi altra sorta. Non mi illudo di riuscire a disperdere il grottesco travestimento che così si fa dell’idea della libertà economica.

 

 

Gli economisti hanno replicato e dimostrato infinite volte che nessuno mai pensò, neppure coloro che risposero con quella celebre frase a Colbert, il quale li interrogava per sapere che cosa lo Stato poteva fare a loro favore, a dare al principio del lasciar fare, lasciar passare il significato di piena licenza di fare tutto ciò che ai privati piacesse. Le repliche e le dimostrazioni non sono tuttavia mai riuscite a nulla dinnanzi alla ostinazione dello sterminato esercito di pappagalli, i quali seguitano ad additare in Adamo Smith il capostipite di una malvagia genia di pennivendoli al servizio di capitalisti sfruttatori del popolo; proprio lui, Adamo Smith, che scrisse parole di fuoco contro i privilegi dei capitalisti e dei proprietari volti soltanto a godere delle loro rendite. Coi pappagalli non c’è nulla da fare; sicché invece di preoccuparci dei travestimenti grotteschi della idea della libertà economica, è opportuno tentare di ricostruire noi il contenuto di quella idea.

 

 

Uno dei modi di spiegare che cosa sia la libertà economica è di dire che cosa essa non tollera. Chi è fautore della libertà economica non tollera che lo Stato, direttamente od indirettamente, controlli, regoli, disciplini «tutta» l’attività economica del paese. Non ha senso dire ad un industriale: «tu devi lavorare, tu devi occupare tanti impiegati e tanti operai, tu devi pagar tali o tali salari, tu non devi vendere le merci prodotte ad un prezzo superiore a tale o tale livello; tu devi guadagnare almeno un tanto per cento su ciò che venderai, perché su quel guadagno devi pagare tali e tante imposte a me Stato». Non ha senso perché non si possono sempre costringere i consumatori ad acquistare le merci prodotte al prezzo che sarebbe remunerativo, tenuto conto di tutti i vincoli posti: e perché l’industriale, costretto a seguire le regole poste da altri per l’esercizio della sua industria, finisce per perdere invece di guadagnare e conduce l’impresa alla rovina.

 

 

Chi è fautore della libertà economica non ammette che solo perché in un dato punto della macchina economica nasce un inconveniente, lo Stato debba subito intervenire per ridurre od eliminare quell’inconveniente. Il prezzo del vino in una od in molte città è arrivato ad un punto giudicato inaccessibile alla maggior parte dei consumatori? Costa 100 lire al litro e ci si decide di emanare un bel decreto che ne riduca il prezzo a 50 lire? Ma, se davvero il vino è scarso, a 50 lire nelle botteghe non se ne trova più. Occorre requisire il vino presso i produttori, ammassarlo, distribuirlo d’autorità, ossia tesserarlo. Nasce un nugolo di impiegati parassiti, i quali vivono sul vino, infastidendo produttori e consumatori. Alla lunga, il risultato sarà che i produttori riceveranno 30 lire o meno, ed i consumatori pagheranno 50, 60 e poi sempre più, a mano a mano che cresceranno il numero e le esigenze dei controllori statali. In giro ci sarà solo vino cattivo ed allungato; a che pro i produttori produrrebbero invero vino pregiato, costoso a produrre ed a conservare, per vederselo pagato male come quello cattivo?

 

 

Se talvolta il controllo è necessario, giova però non prolungarlo oltre il momento dovuto. Fu sempre necessario nelle piazze assediate e nei paesi in guerra calmierare e tesserare il pane; perché di pane esiste allora una quantità limitata; e se ne fosse libero il commercio, lo potrebbero acquistare solo i consumatori dalle borse meglio fornite. Occorre perciò distribuirlo d’autorità affinché tutti, anche i meno fortunati, ne possano acquistare un minimo a prezzo di calmiere.

 

 

Ma il controllo sul pane dovrà aver termine al più presto possibile, non appena si possa nuovamente importare frumento dall’estero a prezzi di mercato. Non dimentichiamo invero che, innanzi alla prima guerra mondiale, il prezzo del frumento stava fra i 25 ed i 27 centesimi al chilogramma e il prezzo del pane ordinario bianco e di ottimo gusto oscillava tra i 35 ed i 40 centesimi; ossia l’aumento del prezzo, nel passaggio dal frumento al pane, era del 40 per cento circa.

 

 

Oggi, gli agricoltori ricevettero nel 1945, quando lo ebbero, 9 lire al Kg. ed il prezzo di calmiere del cattivo pane scuro oscillò fra le 18 e le 20 lire, con un aumento di più del 100 per cento del prezzo del pane su quello del grano. Ammassi, trasporti, macinazione e panificazione controllati sono stati necessari; ma il malanno, per essere necessario, non cessa di essere costosissimo. Un infinito numero di impiegati ci vive sopra. Se non possiamo farne a meno, sopportiamo il malanno. Non appena possibile, sarà tuttavia preferibile ritornare a pagare il 40 per cento ad industriali o negozianti in cerca di profitto, piuttostochè il 100 e più per cento ad impiegati in cerca di salari e stipendi.

 

 

Quando perciò ci si dichiara fautori della libertà economica, si vuole fra l’altro dire che si è avversari del controllo dello Stato in «tutti» i campi dell’attività economica, che si è avversari di quel controllo in tutti i casi nei quali esso non sia «necessario» e che si è avversari ancora del controllo medesimo non appena la necessità di esso sia venuta meno.

 

 

Naturalmente, la libertà economica ha anche un contenuto positivo. Essa dice che devono essere delimitati nettamente il territorio entro il quale lo Stato interviene nazionalizzando, ossia esercitando esso stesso o per mezzo di enti concessionari talune industrie, ed il territorio nel quale si riconosce conveniente lasciare libero campo all’iniziativa privata. Nulla più dell’incertezza repugna alla libertà economica. Meglio essere nazionalizzati o controllati con regole sicure, che vivere sotto la spada di Damocle dell’incertezza della propria sorte.

 

 

Chi è sicuro lavora e produce. Chi è incerto di sé, intriga per salvarsi; è costretto a piatire concessioni invece di diritti. La incertezza favorisce la corruzione reciproca del controllore e del controllato e corrompe tutta la vita pubblica. Fummo testimoni di corruzione dilagante e di plutocrazia dominante nel ventennio scorso; e vogliamo che l’Italia sia salva da siffatta lebbra.

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