Perché non si produce abbastanza
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 17/05/1945
Perché non si produce abbastanza
«La Città libera», 17 maggio 1945, pp. 3-4
Il problema dell’ottima produzione e distribuzione non è, se non in piccola parte, tecnico. Se bastasse la tecnica, se bastassero i piani di produzione, dovremmo essere assai più avanzati di quel che siamo. Un vago sospetto intorno alla bastevolezza dei piani nasce dal vedere che i paesi nei quali il reddito medio ossia la produzione media individuale è massima – paesi anglosassoni, scandinavi, Svizzera, Belgio, Olanda – sono quelli nei quali è meno accentuata la pianificazione dall’alto, a mezzo di periti tecnici tecnocrati ed in genere uomini sapienti incaricati dallo stato di regolare le faccende della produzione e della distribuzione secondo un programma organico generale, concepito ed attuato logicamente e sistematicamente.
Sinora, l’esperienza ha provato che là dove quella che i sansimoniani ed i loro seguaci si divertono a chiamare «anarchia» della concorrenza ha potuto od è stata lasciata funzionare meno imperfettamente, ivi la produzione cresce, la torta da ripartire aumenta, cresce la parte delle moltitudini – tutto porta a credere che alla fine della guerra salari e stipendi dei lavoratori saranno nei paesi anglosassoni cresciuti non solo assolutamente ma anche relativamente ai redditi di capitale in confronto a quello che erano nell’anteguerra, – migliora il tenor di vita, si allargano i servizi pubblici gratuiti. Al contrario tutto fa ritenere che, là dove i tecnici ed i periti celebrano i trionfi maggiori del sistema programmista, minori siano stati gli avanzamenti del tenor di vita dei lavoratori: in Russia perché lo sforzo fu concentrato nel produrre impianti e beni strumentali di guerra, in Germania perché i piani, manco a farlo apposta, arricchirono e diedero potenza a coloro che si erano impadroniti delle leve di comando dei piani. Non parlo di qualche altro paese dove il far piani si concretò nell’arraffa arraffa dei filibustieri. Il che sempre accade e sempre accadrà dove siano distrutti o ridotti al silenzio i ceti indipendenti dallo stato.
Le ragioni per le quali la produzione reale non tenne dietro alle promesse della tecnica sono parecchie. Accennerò stavolta a due sole: il crescente irrigidimento della struttura economica ed il favore conseguito dall’idea dell’autogoverno economico.
Il problema economico consiste nel distribuire le risorse esistenti (terre acque strumenti impianti ed in genere mezzi produttivi) in modo da soddisfare meglio le esigenze, i bisogni degli uomini, quali si manifestano con una domanda effettiva. Le risorse esistenti hanno, salvo pochissime (l’aria e l’acqua e neppur queste sempre), la caratteristica di essere «scarse», ossia tali che gli uomini non ne hanno a loro disposizione senza fatica quante vorrebbero. È necessario perciò che quelle risorse «scarse» siano utilizzate economicamente. Quella terra produrrebbe ottimo fieno; ma se gli uomini pagano (domandano con moneta) il frumento ad un prezzo tale che sia più conveniente coltivare quelle terre a frumento che a prato, conviene dedicare quella risorsa (terra coltivabile) a produrre frumento piuttosto che fieno. A quell’operaio piacerebbe fare il compositore a macchina per giornali; ma se gli uomini domandano più radio che giornali, e cioè se pagano le radio ricevitrici proporzionatamente meglio dei giornali, saliranno i salari degli operai addetti alle fabbriche di radio e scemeranno quelli dei compositori; ed il nostro operaio avrà convenienza a rinunciare al suo mestiere ideale per imparare quello del fabbricar valvole per radio.
Ora, la domanda che gli uomini fanno dei diversi beni e servigi, se è costante per il grosso dei beni e servigi fondamentali ed usuali, è mobile, anzi mobilissima al margine per quel di più o di meno che basta a rendere profittevole od a mettere in perdita una produzione; per i beni vecchi, i quali vanno giù di moda e per i beni nuovi i quali si affermano ed accaparrano il gusto del pubblico. Possiamo rimpiangere i bei tempi andati, nei quali Berta filava e tesseva sempre lo stesso panno solido e durevole; ma poiché di rimpianti non si vive, dobbiamo rassegnarci alla mobilità, alla variabilità, alla novità ed anche alla capricciosità della domanda.
Fatta la qual premessa è logicamente decisiva la conseguenza che il meccanismo economico moderno non funziona od almeno non funziona bene, se non è agile duttile elastico mobile adattabile alle esigenze della domanda. Ma agilità duttilità elasticità mobilità adattabilità vogliono dire rompimento di testa e dolore per produttori e lavoratori. È umano che i produttori i quali hanno cominciato a produrre, e bene, una data merce, desiderino di non essere disturbati da novità fastidiose, da surrogati, da concorrenze di altri prodotti, che attirano e deviano l’attenzione della domanda dei consumatori. Perciò i produttori ed i lavoratori hanno cercato di scavare attorno a sé trincee per difendersi contro le novità, contro il flusso ed il riflusso delle maree della domanda. Ah! quei benedetti consumatori! Come sono volubili, come non conoscono il loro vero interesse, che è di comprare sempre la stessa buona nostra merce! L’ideale dei produttori sarebbe un bel paese, dove in permanenza esistesse un ancor più bello sistema di carte alimentari, di carte di vestiaria, di carte per camere di affitto, di tessera di viaggio, di teatro e di ogni altra cosa necessaria od utile alla vita, con prescritti i prezzi di acquisto, e, last but not least, con l’obbligo di acquistare ogni giorno tanto pane, tanta carne, tanto burro, tanti biglietti di teatro, ecc. ecc. Tutto regolato, tutto fissato, tutto programmato e regolato e previsto. Non siamo ancora arrivati alla meta ideale dei produttori; ma più o meno da per tutto si sono fatti gran passi sulla via della pianificazione. Che vuol dire irrigidimento, mummificazione del meccanismo economico. I produttori ottengono sia limitata la concorrenza perturbatrice dell’estero. Entrino ogni anno centomila buoi e vitelli grassi e non più. Se manca frumento, lo stato acquisti il saldo e fissi il prezzo remuneratore a cui il frumento nazionale e straniero deve essere venduto. I sindacati operai vogliono che i salari siano fissati al tale livello, conforme al tenor di vita ritenuto decoroso. Nella tale industria dove la domanda scema e ci sono troppi operai, il salario dovrebbe ribassare, per allontanare i tirocinanti e persuadere qualcuno ad andarsene? Nella tale altra industria, dove la domanda aumenta ed occorrerebbe attivare nuovi operai, i salari dovrebbero potere rapidamente aumentare? Non si può. Si oppongono alla variazione i contratti collettivi, i quali possono essere modificati solo con estrema lentezza. Per un pò il meccanismo economico resiste, sebbene con assai stridori e forti attriti. Alla fine, sottoposto a pressione eccessiva, il meccanismo salta; ed i salti si chiamano crisi e disoccupazione. Invece di ricercare la causa del malanno, produttori e lavoratori chiedono ed ottengono dai politici nuovi giri di vite; nuovi piani, nuovi programmi, più duro irrigidimento. Antiche civiltà, come quella persiana ed egiziana e più vicina a noi quella romana, perirono per irrigidimento di tal fatta.
Quando arrivarono i greci, i romani ed i barbari non occorse grande sforzo per buttare a terra il colosso. Era indurito e non poteva più alzare il braccio per difendersi. Vogliamo noi che la civiltà moderna muoia per quella specie nuovissima di mummificazione che ha nome programmismo?
L’altra cagione di incapacità della produzione a tener dietro alle possibilità additate dalla tecnica è l’idea dell’autogoverno economico.
Come il nazionalismo è la degenerazione dell’idea della nazionalità, come il socialismo ed il comunismo sono le degenerazione dell’idea dell’interdipendenza reciproca di tutti gli umani in una società a lavoro diviso, così l’autogoverno economico è la degenerazione, forse la più dannosa di tutte per la imponenza del male, dell’idea della necessità della esistenza, in una società libera di numerose forze sociali indipendenti dallo stato, interdipendenti tra loro, viventi di vita autonoma, entro un quadro di norme dettate dall’interesse generale.
È necessario, è vantaggioso alla cosa comune che accanto al campo lasciato all’iniziativa privata vi sia un campo riservato all’iniziativa pubblica: da quelli tradizionali della difesa, della giustizia, della sicurezza e delle poste a quelli nuovi delle industrie monopolistiche e dei beni gratuiti, fra cui primissima la scuola in tutti i suoi ordini. Ma è dannoso che il limite fra i due campi sia spostato oltre il punto critico al di là del quale lo stato si muta nel leviatano distruttore della libertà degli uomini.
È necessario, è vantaggioso alla cosa comune che esistano, insieme ed accanto alle chiese, alle università, ai corpi scientifici, alle associazioni di cultura, di divertimento, di mutuo soccorso, anche associazioni di imprenditori e di lavoratori, intese alla difesa dei propri interessi materiali, alla consecuzione di fini sociali e spirituali, alla raccolta di informazioni, alla discussione di idee e di propositi.
Ma non è affatto necessario, anzi è dannoso, che a codeste associazioni di gruppi sociali si affidino legalmente i compiti i quali spettano ai parlamenti ed alle rappresentanze degli interessi generali. Abbiamo veduto, in qualche paese di questo mondo, attribuire ai sindacati padronali ed operai il compito di fissare, con efficacia di norma obbligatoria per soci e non soci, i salari da pagare agli operai. Ma fissazione dei salari vuol dire determinazione dei costi di produzione. Ma se i costi variano debbono variare in corrispondenza i prezzi. Come fare a variare i prezzi, se i consumatori si rifiutano di acquistare al nuovo prezzo e se la concorrenza, interna ed estera, impedisce di imporre il prezzo desiderato? Ecco venir fuori l’idea dell’«autogoverno economico», della industria la quale legifera, coll’intervento degli interessati, datori di lavoro e lavoratori, sulle cose proprie, ossia detta, a proprio favore, leggi all’universale.
Ecco venir fuori – qui anche e sovrattutto a fini di dittatura; ma l’autogoverno economico è sempre prodromo e strumento di dittatura – il sistema immondo delle Camere italiane, le quali legiferavano negli ultimi anni per commissioni di competenti, invece che in assemblea plenaria.
Se sul serio quelle commissioni fossero state, e non erano, composte di competenti, il danno sarebbe stato massimo, ché gli agricoltori avrebbero dettato legge alla nazione per quanto li riguardava; gli industriali, datori di lavoro e lavoratori, avrebbero imposto il loro dettato, rispetto a salari prezzi quantità, ai consumatori. Ogni gruppo sociale, nel sistema di autogoverno, fa leggi per sé e le impone alla collettività. Dove è questa? dove sono i consumatori che sono poi gli stessi produttori, considerati nel loro complesso e non più per gruppi? Nessuno li vede e li ode, in questo trionfo del particolarismo. L’autogoverno economico è una lue la quale non ha infettato solo l’Italia, ma un po’ si è diffusa in tutte le nazioni del mondo, ed è, insieme all’irrigidimento, una delle cause più potenti della scarsa produzione attuale della ricchezza e, quindi, della sua cattiva distribuzione.
Il produttore ha interesse, per spuntare prezzi alti, a produrre poco. La sola forza la quale lo costringe a produrre molto e quindi a ribassare costi e prezzi, è la concorrenza. Purtroppo i legislatori, talvolta in buona fede, invece di dare opera ad abbattere trincee, a sopprimere le cause artificiali dei monopoli naturali, ad allargare il campo dei beni pubblici gratuiti (ossia pagati con le imposte), in quei casi nei quali l’iniziativa individuale non opera, hanno favorito con i loro piani e con i loro interventi l’irrigidimento del meccanismo economico ed hanno dato ai produttori, datori di lavoro e lavoratori, la facoltà di autogovernarsi, ossia di opprimere e sfruttare la collettività. Dopo avere compiuto le quali belle prodezze, il pubblico dei politici e degli agiati conclude, con la consueta logica curiosa: guarda guarda, quanti guai sta combinando la concorrenza che noi avevamo uccisa o non avevamo difesa! E giù altri piani, altri irrigidimenti, altri autogoverni di mummie destinate a cadere a terra al primo urto del barbaro. Sinora, non si vede spuntare, né ad oriente né ad occidente, sull’orizzonte il barbaro vendicatore del buon senso; ma, come è sempre accaduto, verrà. Forse, e qui sta il guaio, noi non arriveremo in tempo a vederlo.