Le minori imposte sui profittatori della guerra
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1927
Le minori imposte sui profittatori della guerra
La guerra e il sistema tributario italiano, Laterza Bari e Yale University Press, New Haven 1927, pp. 107-128
57. Le imposte sulle persone le quali traevano profitti dalla guerra. – 58. L’imposta sulle esenzioni dal servizio militare. Suo fondamento. – 59. I soggetti dell’imposta e gli esenti. – 60. Le due parti dell’imposta. Suo ordinamento tecnico. – 61. Critiche. Difficoltà amministrativa della sua attuazione. Grande sua complicazione. – 62. Il crescente numero degli esonerati. – 63. La decrescente severità negli accertamenti e nella riscossione. – 64. Gettito meschino del tributo e sua abolizione. – 65. Il contributo personale straordinario di guerra. Soggetti ed esenti. – 66. L’ordinamento tecnico e l’aliquota. – 67. La parzialità e la sperequazione del contributo. – 68. Il problema della cessazione dei redditi. – 69. Gettito, numero crescente di esenzioni ed abolizione del contributo. – 70. L’imposta sui militari non combattenti. – 71. L’imposta sui proventi degli amministratori delle società per azioni e sui compensi dei dirigenti e procuratori di società commerciali. Suo fondamento permanente ed occasionale. – 72. Soggetti ed oggetti dell’imposta. – 73. Ordinamento tecnico, aliquote e sue variazioni. – 74. Divieto di rivalsa sulle società. Interessanti modalità create per attuare il divieto. – 75. Abolizione dell’imposta.
57. – Ammaestrato dalla vanità dei tentativi, fin qui descritti, di costringere il sistema vigente di imposte sui redditi ad adeguarsi alle crescenti necessità del pubblico erario in tempo di guerra, il legislatore italiano ben presto volse il suo sguardo ad altra meta: colpire coloro che la guerra poneva in condizione singolare di privilegio in confronto a quelli che della guerra sopportavano il rischio. In questo capitolo si dirà delle minori imposte indirizzate a questo fine.
58. – L’imposta sulla esenzione dal servizio militare istituita con regio decreto 12 ottobre 1915, n. 1510, rispondeva ad un’antica aspirazione di taluni cultori di scienza finanziaria[1]. Sembrava a costoro ingiusto che i soldati tributassero allo Stato il sacrificio del tempo e della vita, laddove i riformati ed in genere gli esenti dal sacrificio altrui ricavavano il vantaggio di più facili guadagni.
Purtroppo l’esperimento compiuto durante la guerra non giovò alle fortune avvenire all’imposta militare. Insuccesso paragonabile a questo, nel campo così fecondo delle imposte di guerra, forse non esiste. La storia dell’istituzione e del funzionamento di essa da senz’altro le ragioni dell’insuccesso.
59. – Soggetti dell’imposta furono considerati i cittadini italiani aventi un’età compresa nei limiti di obbligo del servizio militare di terra e di mare e che per riforma, dispensa, esonero o per altri motivi non siano soggetti o si sottraggano al servizio militare ordinario. Sono soggetti altresì all’imposta militare gli assegnati a qualunque categoria, che al primo gennaio 1916, e per tutta la durata della guerra non si trovino sotto le armi per il non avvenuto richiamo della rispettiva classe, categoria o specialità, che siano dispensati o esonerati, a meno che noti disimpegnino un servizio di Stato militarizzato o siano stati dispensati perché addetti a uno dei servizi di Stato il quale da diritto alla dispensa dal servizio militare. I contribuenti all’imposta diventano di pieno diritto esonerati per tutta la durata del servizio quando passino in seguito a prestare effettivo servizio militare o militarizzato o a un servizio di Stato per cui abbiano conseguito la dispensa dal servizio militare.
Esenti dall’imposta erano coloro che non avrebbero dovuto prestare servizio militare e cioè, i ciechi, i sordomuti, i sordi, gli idioti, i riformati per infermità e deformità congenite od acquisite permanenti ed insanabili, tali da renderli assolutamente incapaci a qualsiasi lavoro proficuo ed i quali non siano provveduti di un reddito patrimoniale proprio superiore a lire 2.000; i militari riformati per cause dipendenti dal servizio gli addetti a corpi armati dello Stato; gli indigenti e i condannati, durante l’espiazione della pena.
60. – L’imposta è costituita da due parti: una quota fissa annuale di lire 6 comune a tutti i contribuenti qualunque fosse il loro reddito; ed un’altra complementare, pagabile da coloro che abbiano redditi propri e degli ascendenti il cui importo sia superiore a 1.000 lire annuali.
Questa seconda parte dell’imposta è del tipo delle imposte per classi ed è del seguente ammontare:
da lire 1.000 a lire 2.000 | lire 6 |
da lire 2.001 a lire 3.000 | lire 12 |
da lire 3.001 a lire 6.000 | lire 25 |
da lire 6.001 a lire 10.000 | lire 50 |
da lire 10.001 a lire 15.000 | lire 80 |
da lire 15.001 a lire 20.000 | lire 120 |
da lire 20.001 a lire 30.000 | lire 200 |
da lire 30.001 a lire 40.000 | lire 300 |
da lire 40.001 a lire 50.000 | lire 420 |
da lire 50.001 a lire 75.000 | lire 700 |
da lire 75.001 a lire 100.000 | lire 1050 |
da lire 100.001 a lire 125.000 | lire 1450 |
da lire 125.001 a lire 150.000 | lire 1900 |
da lire 150.001 a lire 200.000 | lire 2400 |
oltre le lire 200.000 | lire 3000 |
Caratteristica dell’imposta è che non si tiene soltanto conto dei redditi personali dell’esentato dall’imposta militare; ma anche, in aggiunta, della metà dei redditi dei genitori legittimi, naturali od adottivi, salvo quando il contribuente esonerato non conviva con essi, abbia famiglia propria e sia soggetto in nome proprio alle imposte dirette per un reddito di almeno 3.000 lire. Tuttavia, quando in una stessa famiglia vi siano due o più figli esonerati conviventi con gli ascendenti e sprovvisti di redditi propri il contributo complementare è ridotto di un quarto per il secondo figlio e di un terzo per gli altri figli. I genitori legittimi, naturali o adottivi dell’obbligato e, se nessuno di questi viva, gli avi sono solidalmente responsabili del pagamento dell’imposta, salvo che i figli o i nipoti si siano costituita una propria famiglia legittima e vivano completamente separati di dimora e di interessi. Tuttavia se i figli o nipoti sono dichiarati renitenti o disertori i genitori e gli avi sono sempre responsabili del pagamento dell’imposta.
61. – Si potrebbe all’ordinamento, ora esposto, dell’imposta militare muovere qualche critica di ordine tecnico: perché, ad esempio, creare un’imposta classificata quando esistevano già contemporaneamente le imposte sui redditi, il centesimo di guerra, la complementare sui redditi superiori alle lire 10.000 e già si dovevano fare accertamenti di redditi, e calcoli d’imposta per tutti questi altri tributi? La creazione di un’imposta nuova il cui importo diventava fisso per i redditi superiori alle 200.000 lire era un’altra manifestazione di quella strana mentalità, la quale portava a moltiplicare il nome e le modalità di applicazione delle imposte per evitare che l’aliquota loro apparisse troppo forte, come sarebbe accaduto se il tributo fosse stato chiesto tutto assieme.
Così facendo, si moltiplicava il lavoro dell’amministrazione e la si faceva soccombere sotto il peso della molteplicità degli accertamenti e delle scritturazioni amministrative e contabili.
Ma v’era di più. La nuova imposta richiedeva la collaborazione di organi poco adatti a funzioni fiscali. A norma del regio decreto 23 dicembre 1915, n. 1894, l’iniziativa della designazione delle persone assoggettate all’imposta avrebbe dovuto essere presa dai distretti militari, dalle capitanerie di porto, dagli uffici di leva e dai ministeri della guerra e della marina. Il distretto avrebbe dovuto compilare una schedina di tutti gli arruolati, soggetti all’imposta o che vi diventavano di mano in mano assoggettabili ed avrebbe dovuto trasmetterla alla agenzia delle imposte. Dal canto loro il prefetto ed il sottoprefetto avrebbero dovuto far compilar dagli uffici di leva schedine per i riformati, renitenti ed esclusi per condanna penale e per altri motivi, trasmettendole pure all’agenzia. Analoghe operazioni avrebbero dovuto essere compiute dalle capitanerie di porto per gli inscritti alla leva marittima e dai ministeri della guerra e della marina per gli ufficiali.
L’agenzia delle imposte, ricevute le schedine, le avrebbe dovuto smistare per comuni trasmettendone poi una lista al sindaco di ogni comune. Il sindaco avrebbe dovuto cancellare i morti e pubblicare la lista per otto giorni, così da dare modo agli interessati di produrre entro 15 giorni i reclami alle commissioni. Il sindaco stesso avrebbe dovuto dalla lista pubblicata cancellare gli indigenti, iscritti nella lista dei poveri, ed indicare quali tra gli iscritti da soli o con i genitori raggiungevano il minimo imponibile.
Per la parte complementare dell’imposta, gli obbligati avrebbero inoltre dovuto denunziare le loro attività alla agenzia delle imposte o al comune.
Per l’omissione della denunzia era comminata una penale pari alla metà dell’imposta dovuta per un anno; per omessa o infedele denunzia dei dati necessari all’accertamento del reddito imponibile, la penalità era pari all’ammontare della maggiore imposta a cui l’obbligato si sarebbe sottratto.
Ogni anno gli obbligati avrebbero dovuto denunziare le variazioni in più o in meno del proprio reddito; ogni variazione operando i suoi effetti soltanto a partire dall’anno, successivo.
Ad ogni chiamata di classe i ministeri militari ed i distretti avrebbero dovuto inviare alla finanza l’elenco dei militari chiamati alle armi onde dare luogo ai relativi sgravi di imposta.
A tali sgravi si sarebbe dovuto altresì provvedere in, occasione della morte dell’interessato o del suo venire a trovarsi in condizioni tali da renderlo esente.
Basta enunciare queste condizioni per persuadersi della assoluta impossibilità che l’opera di autorità così diverse non abituate alle esigenze dei servizi finanziari potesse dar luogo ad una equa ed economica applicazione dell’imposta.
Il lavoro enorme richiesto dalla compilazione delle schedine, dalla loro pubblicazione e da quella dei ruoli non era giustificata dal tenue provento di 6 lire che, per la maggior parte dei contribuenti, costituiva l’intero ammontare dell’imposta. Il lavoro indefesso di cancellazione dei contribuenti primi iscritti per la continua chiamata di nuove classi aggravava grandemente il lavoro amministrativo e rendeva quasi risibile il meschino provento che dall’imposta si poteva trarre.
62. – Noi assistiamo perciò al moltiplicarsi di provvedimenti i quali tendono a risparmiare agli uffici finanziari un’inane fatica, aumentando il numero degli esoneri e diminuendo la severità della riscossione. Il decreto 4 febbraio 1917, n. 231 eccettua dall’obbligo dell’imposta i militari in servizio della marina mercantile, il personale di ruolo mobile della Croce Rossa e dell’ordine di malta e tutti coloro che, adibiti a stabilimenti ed officine, sono tenuti a pagare l’imposta sui militari non combattenti. E poiché spesso l’esattore si rivolgeva per la riscossione del tributo alla famiglia dell’obbligato, e questa rispondeva che egli o era stato chiamato alle armi o era morto per ferite o malattie o era degente all’ospedale militare, si stabilì che la semplice chiamata in effettivo servizio militare dovesse portare all’esonero dell’imposta per tutto l’anno.
Ad evitare il continuo e stragrande moltiplicarsi delle quote di 6 lire inesigibili, lo stesso decreto esentò dall’imposta, oltre gli individui ricoverati negli ospedali di carità e abitualmente a carico degli istituti pubblici di beneficenza, anche tutte le persone povere del Regno che usufruissero delle cure mediche e della fornitura gratuita dei medicinali.
Una semplice circolare 5 febbraio 1917 riflettendo che l’imposta dovesse applicarsi soltanto ai cittadini aventi un’età compresa nei limiti dell’obbligo del servizio militare di terra e di mare, ne esonerò gli iscritti di leva della classe del 1874 e del 1875.
63. – Poiché gli esattori delle imposte non erano assolutamente in grado di dare la prova della infruttuosa od insufficiente esecuzione mobiliare entro quattro mesi dalla scadenza della prima rata dell’imposta non pagata, una circolare del 23 agosto 1916, n. 6850 consentì loro di aspettare a procedere all’esecuzione alla scadenza dell’ultima rata. Ma ben presto una circolare del 2 marzo 1917, n. 2474, per evitare all’amministrazione finanziaria il gravissimo dispendio di inutili procedure esecutorie per piccole quote inesigibili, dispone che gli atti esecutivi in confronto degli iscritti per la sola quota di lire 6 fossero sospesi e la sospensione è estesa anche alle partite comprendenti il contributo complementare ove l’obbligato diretto fosse morto o mutilato; ed una circolare 18 giugno 1917, n. 5331 ordina agli esattori di scrivere sulle cartelle di pagamento o sugli avvisi di mora la preghiera di informare, anche verbalmente, gli esattori stessi ove il contribuente si trovasse sotto le armi, e vi aggiunge il comando di compilare elenchi dei contribuenti chiamati alle armi, quando la chiamata stessa fosse venuta a sua conoscenza e dopo assunte informazioni al distretto militare, procedere alla cancellazione d’ufficio del ruolo od alla ripresa della procedura coattiva.
64. – La benignità inconsueta della finanza, la quale prende l’iniziativa della cancellazione dei contribuenti dai ruoli dell’imposta, derivava dall’impossibilità di far funzionare l’imposta stessa e dal numero grandissimo di errori che nei ruoli si erano infiltrati per omonimia e per altre cause. Il gettito meschino del tributo era la dimostrazione più chiara del suo cattivo funzionamento; appena 8.537.532 lire nell’esercizio. 1915-16, 20.517.635 nel 1916-17 e 8.340.481 nel 1917-18.
A questo punto la finanza disperata abbandona il tentativo e con decreto luogotenenziale 9 giugno 1918, n. 857, all. C (art. 15) sopprime l’imposta con effetto dall’1 gennaio 1918.
65. – Era, nella previsione della sua ineluttabile abolizione, già pronto il nuovo tributo destinato a prenderne il posto col nome di contributo personale straordinario di guerra.
Lo istituì un decreto luogotenenziale dell’1 ottobre 1917, n. 1563. Le persone soggette al nuovo tributo si possono meglio definire per esclusione. Sono esclusi coloro i quali, durante il periodo dell’applicazione dell’imposta, si trovino sotto le armi o che, posteriormente al 23 maggio 1915, abbiano prestato servizio effettivo militare per un periodo non inferiore a 12 mesi, ovvero abbiano, prima del dodicesimo mese, cessato dal servizio in seguito a riforma per cause dipendenti dal servizio stesso. Sono pure esenti coloro che, nello stesso periodo, abbiano avuto uno o più figli, il coniuge o il padre sotto le armi o che, dopo il 23 maggio 1915, abbiano avuto uno dei detti congiunti in servizio effettivo militare per un periodo non inferiore a dodici mesi a meno che l’anticipata cessazione dal servizio non sia dipesa da morte o da infermità per causa dipendente dal servizio stesso.
Gli esenti dall’imposta nuova non erano dunque tutti gli esonerati dal servizio militare; criterio accolto per la imposta militare, ma qui abbandonato per la impossibilità di poter conoscere e seguire la numerosissima schiera degli esonerati. Il nuovo tributo perseguiva invero uno scopo tutto diverso. Esso era una vera e propria imposta addizionale sui redditi dei contribuenti non appartenenti alla categoria degli esenti dalla imposta.
Era facile conoscere i contribuenti, perché erano gli stessi che già erano inscritti per redditi propri nei ruoli dell’imposta sui terreni e fabbricati e sulla ricchezza mobile e quegli iscritti direttamente o per rivalsa nei ruoli dell’imposta sui proventi degli amministratori delle società per azioni, e, in virtù del testo unico 9 giugno 1918, n. 857 allegato C, anche gli inscritti nei ruoli della imposta sui proventi dei dirigenti e procuratori delle società commerciali.
66. – L’amministrazione finanziaria non doveva perciò andare faticosamente alla ricerca degli esonerati ma dai ruoli già compilati delle tre imposte dirette sui redditi e delle due straordinarie ora citate desumeva l’elenco di coloro che fossero inscritti per una somma annua d’imposta erariale superiore a lire 300 per i terreni, a lire 500 per i fabbricati, a lire 400 per le categorie A, B, e C dell’imposta di ricchezza mobile ed a lire 275 per le imposte straordinarie sui proventi degli amministratori e dei dirigenti delle società commerciali, e li assoggettava al pagamento di un supplemento chiamato contributo straordinario di guerra uguale alla quarta parte delle imposte ora dette.
Quando però taluno, pur non essendo inscritto nei ruoli anzi detti per somme superiori a lire 300, 500, 400 e 275 rispettivamente per i quattro tributi, fosse inscritto in qualche comune del regno per un’imposta di famiglia o sul valor locativo superiore a lire 150 nei comuni aventi più di 100.000 abitanti o di lire 80 nei comuni aventi meno di 100.000 abitanti, egli era chiamato ugualmente a pagare un contributo uguale alla quarta parte dell’imposta di famiglia o di quella sul valor locativo.
67. – Al contributo si possono muovere alcune obiezioni simili a quelle che furono elencate contro l’imposta complementare sui redditi superiori a lire 10.000. Anche qui non tutti i redditi e non tutti i contribuenti erano assoggettati a questa che arieggiava a una vera e propria imposta complementare progressiva sul reddito totale di una certa categoria di contribuenti. Erano esenti tutti coloro che non erano tassati direttamente a mezzo di ruoli, e cioè la gran massa dei portatori di titoli del debito pubblico, dei possessori di azioni di società per azioni, di cartelle di credito fondiario e di debito comunale e provinciale tutti coloro i cui redditi erano tassati per rivalsa al nome dei datori di lavoro, e finalmente tutti gli impiegati dello Stato.
Con peggioramento singolare sulla contemporanea imposta complementare sui redditi superiori a lire 10.000, e con ritorno agli errori della progressività nelle imposte fondiarie (cfr. sopra par. 45), era obbligato al pagamento del contributo non colui i cui redditi superavano le cifre sopraindicate nel territorio dello Stato, ma colui che le superava nel distretto di agenzia; cosicché, se un reddito superiore al minimo imponibile era frazionato tra parecchi distretti di agenzia, esso sfuggiva al tributo. Erasi cercato di riparare all’inconveniente obbligando al contributo coloro che, pur non giungendo al minimo in ciascuna delle imposte statali, pagavano tuttavia l’imposta personale comunale di famiglia, ma poiché i metodi e le aliquote dell’imposta di famiglia e di quella sul valor locativo variavano moltissimo da comune a comune, la distribuzione del contributo riusciva oltremodo sperequata.
Il contributo non aveva il vizio rimproverato alla imposta complementare sui redditi di essere stabilito in ragione di ditta. L’agente delle imposte, quando sui ruoli delle imposte dirette figurava una ditta collettiva, aveva l’obbligo di effettuare il riparto dei redditi tra i componenti la ditta in proporzione alle quote di interessenza dei contribuenti. A temperare le incongruenze del decreto originario fu ammesso, con decreto luogotenenziale 9 dicembre 1917, n. 2058, che si tenesse conto degli interessi e debiti gravanti sull’immobile, purché i crediti corrispondenti fossero garantiti da ipoteca regolarmente inscritta sull’immobile stesso prima del 30 settembre 1917 e purché il reddito risultante dai crediti suddetti risultasse accertato per la imposta di ricchezza mobile.
Il contribuente doveva farsi parte diligente e dare la prova della esistenza degli interessi e della loro tassazione a carico del creditore.
Ove il mutuo fosse stato contratto con istituti di credito fondiario o con casse di risparmio la detrazione fu ammessa purché l’esistenza del debito risultasse da un certificato dell’istituto mutuante. Non era però ammessa la detrazione di mutui non ipotecari e neppure di altre passività come canoni enfiteutici, censi, e decime.
68. – La natura singolare del tributo misto di realità e personalità appare dalle norme relative alla cessazione dei redditi che davano origine al debito d’imposta del contribuente. Il punto ha dato luogo a discussioni vivissime nel campo dell’imposta straordinaria sul patrimonio qui basti accennare. Se il contributo fosse stata un’imposta prettamente reale, non avrebbe avuto importanza il passaggio di un immobile, assoggettato all’imposta, da un contribuente all’altro, poiché nelle imposte reali il tributo segue la cosa e non la persona.
Qui l’imposta essendo personale nel senso che non il semplice possesso di un reddito dà origine all’obbligo tributario, ma il possesso a profitto di una persona non esonerata, la vendita di un immobile da parte di un contribuente assoggettato ad imposta non avrebbe dovuto influire sulla somma del reddito imponibile, essendo presumibile, salvo prova in contrario, che il contribuente conservasse lo stesso reddito sotto altra forma di investimento. Ma poiché non tutti i redditi si erano voluti o potuti assoggettare all’imposta, ma soltanto quelli i quali erano inscritti a ruolo nelle tre imposte dirette, la vendita di un immobile richiedeva invece la detrazione del reddito relativo dall’ammontare complessivo del reddito accertato a nome del contribuente.
Ad evitare difficoltà amministrative fu disposto dapprima che la cancellazione avvenisse soltanto con effetto a partire dall’anno successivo; in seguito con circolare 19 marzo 1918, n. 1791, il principio rigido fu temperato nel senso che le variazioni in meno o in più verificatesi durante l’anno nei riguardi delle imposte dirette principali fossero tenute in conto quando avessero avuto effetto dall’1 gennaio dell’anno medesimo. E finalmente fu ordinato che se ne tenesse conto anche quando all’atto pubblico di vendita non avesse potuto ancora far seguito la voltura catastale, per la lentezza delle operazioni censuarie, prima dell’1 gennaio dell’anno successivo.
69. Sebbene di più facile applicazione dell’imposta sul servizio militare, non si può affermare che il contributo personale straordinario di guerra abbia avuto notevole successo. Il suo gettito si aggira sui 21.000.000 e mezzo nel 1918-19 e sui 26.000.000 e mezzo nell’esercizio 1921-22.
A poco a poco erano cresciute le esenzioni dall’imposta; al servizio militare fu equiparato, con decreto luogotenenziale 21 ottobre 1917, n. 1740, il diritto conseguito a fregiarsi della medaglia al valor militare o del distintivo di una ferita; e, con circolare 20 marzo 1918, anche il servizio presso la Croce Rossa ed il Sovrano Ordine militare di Malta. Gli stranieri sudditi di un paese alleato poterono, se inscritti nei ruoli delle imposte dirette in Italia, essere dichiarati esenti quando dimostrassero che essi medesimi od i loro congiunti erano sotto le armi nelle rispettive nazioni. Un certificato del console della nazione alleata era richiesto all’uopo.
Ad evitare contestazioni fu stabilito che le esenzioni a favore del figlio, del coniuge o del padre sotto le armi si riferissero esclusivamente ai figli legittimi, legittimati o adottivi, ed al padre legittimo od adottivo, esclusi i figliastri ed il patrigno. Al servizio militare attivo fu assimilato il periodo trascorso in licenza di convalescenza. La esenzione concessa ai medici militari non fu estesa a quelli assimilati. Gli allievi dei collegi militari furono considerati militari se appartenendo a classi chiamate sotto le armi compissero il corso speciale per conseguire il grado di ufficiale. Agli inscritti volontari della Croce Rossa e del Sovrano Ordine di Malta non furono tuttavia equiparate le donne appartenenti alle due istituzioni.
Si sono voluti ricordare sommariamente questi particolari di applicazione del contributo per dimostrare come fosse difficile inserire su tributi reali, riscuotibili oggettivamente, astrazione fatta dalle vicende personali dei possessori dei redditi, un tributo che, essendo in sostanza nient’altro se non un’aggiunta del 25% alle imposte dirette sui redditi, richiedeva tuttavia, per la sua applicazione, lo scrutinio di minute circostanze personali, relative ai nipoti, ai figli, ai genitori, agli avi e coniugi dei contribuenti inscritti nei ruoli delle imposte dirette. Alla semplicità, propria di queste, si sostituivano complicazioni maggiori persino di quelle che si incontrano in una vera imposta personale complessiva sui redditi; ma non si verificava quella condizione, che rende tollerabile la complicazione amministrativa maggiore e la delicatezza grande nell’assetto di una imposta personale, ed il gettito cospicuo dell’imposta stessa.
Il contributo personale fruttava così scarsamente, che nessuno si meravigliò se esso quasi inavvertentemente, dopo essere stato prorogato per alcuni anni, sia stato per il 1923 applicato soltanto per metà e finalmente sia stato abolito, con regio decreto 25 gennaio 1923, n. 164, a partire dall’1 gennaio 1924.
70. – L’imposta sui militari non combattenti istituita con lo allegato B al decreto luogotenenziale 9 novembre 1916, n. 1525, aveva una occasione che si può chiamare temporanea ma già arieggiava a una estensione permanente degli istituti tributari normali.
L’occasione determinata dalla guerra fu il gran numero di militari richiamati alle armi, ma esonerati dal prestar servizio propriamente detto perché destinati a lavori di aziende, officine, e stabilimenti di Stato e di altre pubbliche amministrazioni o di industriali privati ausiliari o produttori di cose utili alla guerra.
Costoro si trovavano in condizioni particolarmente favorevoli in confronto degli altri militari i quali subivano i pericoli della guerra e furono perciò considerati capaci di una speciale contribuzione allo scopo di equipararne parzialmente le condizioni ai militari combattenti.
Ma il nuovo istituto poteva altresì essere considerato un’estensione normale delle imposte permanenti perché soltanto di fatto e non di diritto i salari degli operai erano prima della guerra e sono tuttora per lo più esentati dal pagare l’imposta di ricchezza mobile, nella categoria C dei redditi di lavoro, a cui sono assoggettati tutti coloro che ottengono un reddito dalla prestazione del proprio lavoro. Per attuare in parte una norma la quale avrebbe dovuto essere permanente, gli operai esonerati o comandati a lavorare negli stabilimenti sovra indicati, furono chiamati a pagare, ogni mese a partire dall’1 dicembre 1916, un’imposta particolare in ragione delle condizioni speciali di favore in cui essi si trovavano di fronte a quelli che in conseguenza della chiamata sotto le armi perdevano lavoro, reddito e qualche volta anche la vita.
Non i soli dispensati e gli esonerati furono obbligati al pagamento dell’imposta; ma anche i militari comandati o destinati alle aziende medesime purché rimanessero nella località dove precedentemente lavoravano; non i soli operai ma anche gli impiegati ed i direttori degli stabilimenti. Ove il direttore ne fosse il proprietario, l’imposta doveva essere commisurata al suo presunto stipendio. L’imposta cadeva sulla mercede o stipendio effettivamente riscosso dall’operaio nell’officina. Non importava che il salario fosse calcolato in ragione del tempo, ché anche il salario pagato a cottimo era assoggettato all’imposta.
Il salario tassato era quello netto, depurato, perciò, dei contributi obbligatori per multe, malattie, sospensione. Nel salario netto era compreso il valore del vitto ed alloggio pagato in natura.
L’imposta era a tipo progressivo: dell’1% per i salari non superiori a lire 60 quindicinali e gli stipendi non superiori a lire 120 mensili; del 2% per i salari settimanali da 61 a 120 lire e per gli stipendi mensili da 121 a 240 lire rispettivamente, e del 3% per i salari degli operai superiori alle 120 lire quindicinali e per gli stipendi degli impiegati superiori alle 240 lire mensili.
L’imposta doveva essere trattenuta dalla pubblica amministrazione o dall’imprenditore o datore di lavoro all’atto del pagamento del salario o stipendio e doveva essere versata ogni mese all’ufficio del registro.
Responsabili personalmente della trattenuta erano i datori di lavoro e gli imprenditori; una multa del 5 % dell’ammontare della tassa dovuta li colpiva in caso di inadempienza.
Il tributo fu riscosso dall’1 dicembre 1916 a tutto il 1918; fruttò
- milioni 4,6 nel 1916-17
- milioni 15,4 nel 1917-18
- milioni 12,6 nel 1918-19
- milioni 0,116 di residuo nel 1919-20.
Un decreto luogotenenziale 5 gennaio 1919, n. 25, lo aboliva. Il tentativo di attuare permanentemente l’imposta sui salari operai, cominciando da quelli non combattenti, veniva così meno appena era cessato lo stato di guerra.
71. – Caratteristico tributo della legislazione bellica italiana, di cui non si riscontrano traccie nella legislazione degli altri paesi, fu quello sui proventi degli amministratori delle società per azioni e sui compensi ai dirigenti e procuratori di società commerciali.
Il tributo fu istituito a due riprese. L’allegato D del regio decreto 12 ottobre 1915, n. 1510, istituì l’imposta straordinaria sui proventi degli amministratori delle società per azioni; il decreto luogotenenziale 28 febbraio 1918, n. 237, istituì la seconda imposta detta sui compensi dei dirigenti e procuratori delle società commerciali. Il testo unico 9 giugno 1918, n. 857, fuse in uno solo i due tributi. Occasione ai due tributi fu lo stato di guerra che aumentò notevolmente i guadagni dei contribuenti da essi colpiti, ma l’imposta rispondeva ad uno stato d’animo anteriore alla guerra, il quale si può riassumere così fra tutti i redditi di lavoro assoggettati alla imposta ordinaria sui redditi (tra di noi, quella di ricchezza mobile) alcuni redditi si distinguono per la facilità con cui sono guadagnati e per la eccezionale dimensione in proporzione al merito dell’opera prestata. Essi partecipano alla natura delle quasi rendite e si potrebbero anche chiamare redditi di congiuntura.
Segnalati tra essi sono i redditi degli amministratori delle società per azioni i quali, col puro intervento ad alcune non frequenti adunanze dei consigli di amministrazione, lucrano somme vistose; fuori di proporzione colla importanza del servizio reso e della fatica durata. Tali redditi meritano per la loro quasi gratuità di essere tassati in modo particolare e tanto più lo meritano in tempo di guerra quando per il crescere dei prezzi e dei profitti le partecipazioni degli amministratori ai proventi delle società per azioni crescono a dismisura.
In proporzioni minori può dirsi lo stesso per le partecipazioni ed interessenze dei dirigenti delle società commerciali.
In condizioni normali era ripugnante ad un’esatta visione del meccanismo economico la concezione della gratuità dei redditi degli amministratori e dei dirigenti. Scopo dell’imposta non pare sia quello di dare dei giudizi intorno alla fatica ed al merito del lavoro prestato dai contribuenti. Se le imposte dovessero essere distribuite secondo tale criterio potrebbe dubitarsi a ragione se il lavoro degli amministratori e dirigenti sia davvero, in media, meno meritorio di quello prestato da altre persone in altri campi della operosità umana. L’opinione pubblica può essere facilmente commossa dall’esempio di taluni amministratori i quali, occupandosi di gran numero di società, col passare dall’una all’altra riscuotono fortissime propine. Esistono però specie di lavoro assai meno produttive socialmente, le quali danno luogo a rimunerazioni non minori di quelle degli amministratori. Specialmente per i dirigenti le società commerciali, l’importanza dell’opera prestata e la necessità di un’alta sua rimunerazione non possono essere negate se non ponendosi da un punto di vista puramente demagogico.
Non occorreva tuttavia ricorrere ad argomentazioni di questa specie per spiegare l’esistenza dei due tributi in un momento nel quale, come si vedrà in seguito, si istituiva una fortissima imposta, ben presto diventata confiscatrice, sui profitti provenienti dalla guerra. Poteva sembrare opera semplice di perequazione tributaria estendere sotto altro nome l’imposta sui profitti di guerra dagli imprenditori e negozianti privati e dalle società commerciali e per azioni, agli amministratori ed ai dirigenti delle società stesse. Non si esauriva con ciò ancora il campo dei redditi aumentati in conseguenza della guerra; poiché talune categorie di professionisti, di proprietari e di lavoratori ottenevano pur esse vantaggi non lievi dallo stato di guerra. Ma si evitava che la tassazione dei profitti di guerra si restringesse, troppo, ai soli industriali e commercianti.
72. – Soggetti dell’imposta furono da un lato i consiglieri di amministrazione delle società anonime ed i soci accomandatari di quelle in accomandita per azioni, sia cittadini che stranieri; e dall’altra gli amministratori delegati, i gerenti, i direttori generali, tecnici ed amministrativi ed i procuratori, sia cittadini italiani o stranieri delle società commerciali. Fu giudicato che non solo dovessero essere assoggettati alla seconda imposta i dirigenti delle società per azioni ma anche quelli delle società per accomandita ed in nome collettivo. Fra i dirigenti tecnici ed amministrativi delle società commerciali a cui il tributo si applica non devono tuttavia essere annoverati i capi riparto di uno stabilimento industriale ai quali sia affidata la sorveglianza e l’esecuzione di speciali lavori. Ai dirigenti delle società furono assimilati invece i procuratori delle banche quando di queste per norma statutaria abbiano la rappresentanza e la firma sociale, il che si ritenne attribuisse loro funzioni direttive; invece i liquidatori delle società commerciali furono esenti in quanto si ritenne che il liquidatore della società compia opera professionale e non ottenga quegli utili speculativi o di congiuntura che furono reputati fondamento del tributo.
Oggetto dell’imposta fu per gli amministratori delle società ogni compenso da essi percepito sotto qualsiasi forma, di partecipazione agli utili, assegni, medaglie di presenza, diarie. Caratteristica del compenso soggetto all’imposta straordinaria è che esso sia percepito in ragione della qualità di amministratori e come corrispettivo della opera prestata in tale qualità. Per conseguenza ove taluno dei consiglieri di amministrazione faccia parte di un comitato direttivo a cui sia affidato un particolare compito, non considerata come parte di compenso tassabile la somma ad essi pagata a titolo di rimborso di spesa.
Oggetto della seconda imposta sui dirigenti delle società commerciali sono parimenti le partecipazioni e le interessenze, le provvigioni comunque loro assegnate, in aggiunta allo stipendio fisso. Sono comprese nel compenso tassabile le provvigioni sulle vendite, le percentuali ragguagliate al numero o al peso dei prodotti; sono escluse soltanto le indennità pagate a titolo di rimborso di spesa, quando la spesa sia effettivamente sostenuta o dimostrata. Sono escluse del pari le somme trattenute a favore dei fondi pensioni e di previdenza, per gli impiegati delle società commerciali; sono escluse altresì le gratifiche o doppi stipendi che in alcune epoche dell’anno sono corrisposti ai dirigenti e procuratori delle società quando essi siano comuni a tutti gli altri impiegati delle società stesse. Sono escluse anche le somme liquidate a favore dei direttori tecnici a titolo di buona uscita ed indennità per la cessazione dal vincolo contrattuale se la indennità stessa sia dovuta dalla società indipendentemente dagli utili di esercizio.
73. – Dal quadro ora delineato dei soggetti e dell’oggetto dell’imposta appare manifesto che questa volle innanzi tutto colpire i sovraredditi di guerra degli amministratori e dirigenti delle società per azioni ed in seguito assimilò a questi altresì i compensi dei dirigenti le società commerciali in quanto i compensi stessi assumessero importanza particolare ed eccedessero i redditi normali del lavoro da essi prestato. Da questo concetto informatore discende che l’imposta sugli amministratori intese colpire l’intero loro reddito mentre quella sui dirigenti intese tassare soltanto l’eccedenza di quel reddito sul compenso normale. Da ciò la diversa struttura tecnica delle due imposte.
Quella sugli amministratori fu dapprima stabilita dal regio decreto 12 ottobre 1915, fu aumentata dall’art. 9 del decreto luogotenenziale 9 settembre 1917, n. 1546, per i compensi maturati posteriormente al 31 dicembre 1917; fu raddoppiata dall’art. 7 della legge 27 febbraio 1921, n. 145, attuato con regio decreto 21 agosto 1921, n. 1260, a partire dai compensi maturati nel 1921; e successivamente ridotta con i decreti citati nel seguente riassunto:
R. decr. 12-10-15 | Decr. L. 9-9-917 | R.decr. 21-8-21 | R.decr. 24-11-21 | R. decr. 25-1-923 | |
Prima | Seconda | ||||
fino a Lire 2.500 | 5% | 5% | 10% | 5% | 2,50% |
da L. 2.501 a L. 5.000 | 8% | 10% | 20% | 10% | 5% |
Da L. 5.001 a L. 10.000 | 10% | 12% | 24% | 12% | 6% |
Da L. 100.01 a L:20.000 | 12% | 15% | 30% | 15% | 7,50% |
Da L. 20.001 a L. 40.000 | 15% | 20% | 40% | 20% | 10% |
Da L. 40.001 in più | 20% | 25% | 50% | 25% | 12,50% |
Le aliquote sopra riassunte si applicano non all’intero reddito ma frazionatamente ad ogni scaglione della somma annuale complessivamente assegnata ad ogni singolo partecipante di tutte le società a cui egli appartiene.
L’aliquota della seconda imposta fu per la prima volta regolata dal decreto luogotenenziale 28 febbraio 1918, n. 237, e fu raddoppiata colla citata legge del 27 febbraio 1921, attuata col regio decreto 21 agosto 1921, n. 1260. Quando, tuttavia, l’amministrazione si trovò di fronte al dettame del legislatore dovette riflettere che il raddoppiamento sarebbe stato incomportabile per i contribuenti, i quali non si distinguevano in sostanza da molti professionisti e lavoratori il cui reddito andava assoggettato soltanto alla normale imposta di ricchezza mobile. Direttori generali, direttori tecnici ed amministrativi, procuratori di società non sono nient’altro che lavoratori intellettuali i quali ricevono uno stipendio fisso o variabile a secondo della convenienza dell’intrapresa che li impiega. Laddove tutti gli altri contribuenti pagavano soltanto l’imposta normale, per quale ragione il tributo supplettivo, già fortissimo nell’aliquota dal 5 al 20 % doveva essere raddoppiato per scaglioni di reddito, i quali, cominciando dalle lire 5.000, non potevano essere considerati come redditi eccezionali?
È vero che il decreto istitutivo dell’imposta sui dirigenti affermava che oggetto della tassazione dovevano essere soltanto le partecipazioni ed interessenze assegnate in aggiunta allo stipendio fisso; ed è vero altresì che, quando lo stipendio fisso non fosse esistito o fosse stato inferiore a lire 10.000 annue, dovevano essere esenti dalla imposta speciale le prime 10.000 d’interessenza, ovvero quella somma che, unitamente allo stipendio, occorresse per raggiungere le 10.000 lire; ma trattavasi in sostanza pure sempre di redditi modesti ai quali non poteva essere artificiosamente attribuito carattere di reddito di congiuntura o di sovraprofitto di guerra.
Perciò l’amministrazione finanziaria, giustamente impensierita della disparità di trattamento che si creava fra questa e le altre categorie di contribuenti percettori di redditi di lavoro, assai saviamente osò andare contro la tendenza demagogica del tempo ed ordinò che le interessenze fino alle lire 30.000 continuassero a pagare l’antica imposta, mentre soltanto le interessenze superiori a questa cifra dovessero pagare l’imposta raddoppiata.
Così possiamo ora riassumere nella seguente maniera la vicenda dell’aliquota dell’imposta:
R.decr. 21-8-21 | R.decr. 24-11-21 | R. decr. 25-1-923 | ||
Prima | Seconda | Terza | ||
fino a Lire 5.000 | 5% | 5% | 2,50% | |
da L. 5.001 a L. 10.000 | 10% | 10% | 5,–% | |
Da L. 10.001 a L. 15.000 | 12% | 12% | 6,–% | |
Da L. 15.001 a L:20.000 | 15% | 15% | 7,50% | |
Da L. 20.000 in più | 40% | 20% | 10,–% | |
Da L. 40.001 in più | 20% | 20% | 10,–% | |
da L. 30.001 a L. 50.000 | – | 25% | – | |
Da L. 50.001 a L. 80.000 | – | 30% | – | |
Da L. 80.001 a L. 120.000 | – | 35% | – | |
Da 120.000 in più | – | 40% | – |
74.- Una curiosa preoccupazione del legislatore, a proposito delle società commerciali, fu quella di impedire che le società si assumessero l’onere del pagamento del tributo, il quale, secondo la sua intenzione, doveva gravare sugli amministratori e sui dirigenti.
Un decreto luogotenenziale 9 maggio 1918, n. 650, consentì bensì alle società il diritto di chiedere che l’imposta dovuta dai propri dirigenti e procuratori fosse inscritta a ruolo al nome della società stessa.
Desideravano le società di potere ciò fare perché non diventasse di pubblica ragione l’ammontare dei compensi corrisposti ad ogni dirigente; troppo importando alle società talvolta che i diversi dirigenti non conoscessero l’ammontare del compenso assegnato agli altri. Ma per garantire che, nonostante la tassazione fatta al nome delle società, il tributo fosse riversato sui dirigenti si volle che le società in tal caso dovessero corrispondere l’imposta in ragione della somma complessiva dei compensi e del non ammontare dei compensi singoli. Fu ordinato altresì che quando dalle ispezioni dei registri sociali constasse che la società non aveva esercitato la rivalsa della imposta sui dirigenti, l’imposta stessa dovesse essere nuovamente inscritta a ruolo a carico dei singoli assegnatari. Obbligate ancora le società, quando preferissero pagare esse l’imposta, di pagarla in una sola invece che in tre soluzioni.
Il decreto luogotenenziale 12 settembre 1918, n. 1503, estese all’imposta sugli amministratori il diritto della finanza di reiscrivere a carico degli amministratori medesimi l’imposta dovuta, quando la società non avesse esercitata la rivalsa a loro carico. Fu fatto anzi obbligo, con la comminatoria di una penalità di 500 lire, ai sindaci delle società per azioni di presentare all’agenzia dell’imposte una dichiarazione attestante l’esercitato diritto di rivalsa da parte delle società. Qualora le società avessero concesso dopo la pubblicazione del decreto un aumento di compenso ai propri amministratori, tale aumento fu considerato come in frode della legge e fu assoggettato a un tributo particolare del 70 % gravante in proprio la società.
Null’altro di interessante è da ricordare a proposito di queste due imposte salvo il singolare spirito di sospetto anche per quello che riguarda l’applicazione delle penalità. Una circolare 18 aprile 1918, n. 4144, suggeriva ai funzionari di graduare la penalità in ragione della maggiore o minore remissività delle società stesse ad accettare la giusta imposizione del tributo, della maggiore o minore tendenza ad avvalersi di tutti i mezzi per sfuggire all’imposta, di tutti quei fatti insomma che valessero a caratterizzare il contegno della società di fronte al dovere pubblico di soddisfare le imposte.
75. – All’abolizione delle due imposte provvide il regio decreto 25 gennaio 1923, n. 164, il quale dichiarò che l’imposta stessa dovesse ancora esigersi una volta sui proventi risultanti dai bilanci chiusi dopo il 31 dicembre 1922 con un’aliquota uguale alla metà di quelle che fino allora erano in vigore.
Un successivo decreto del 30 dicembre 1923, n. 3027, ricordando che, per i proventi risultanti da bilanci chiusi dopo il 31 dicembre 1923, l’imposta era abolita, notava che poteva sorgere dubbio riguardo alla permanenza in vigore dell’imposta speciale del 70%, di cui sopra si disse, sugli aumenti di assegni concessi agli amministratori, allo scopo di eludere l’obbligo della rivalsa. Fin da prima con decreto 25 gennaio 1923, n. 164, l’obbligo della rivalsa sugli amministratori era stato abolito, come con decreto legge 26 gennaio 1922, n. 63, era stato tolto l’obbligo analogo per l’imposta sui dirigenti delle società. Mancava adunque la ragione di colpire con una sovratassa del 70 % un aumento che più non potevasi considerare in frode alla legge; ed il decreto citato esplicitamente aboliva il singolarissimo tributo istituito per il vano tentativo di impedire che avesse luogo un processo economico di traslazione della imposta; il quale, se imposto dai rapporti tra le parti, era quasi impossibile non si verificasse.
[1] Il saggio più importante comparso in argomento è quello di Carlo F. Ferraris: L’imposta militare nel sistema delle imposte speciali, società, Editrice libraria, Milano, 1915.