Capitolo IV – Il dopoguerra
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1933
Capitolo IV – Il dopoguerra
La Condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana, Laterza, Bari – Yale University Press, New Haven, 1933, pp. 233-336
1- La rivolta contro il collettivismo bellico
110. Al momento dell’armistizio il desiderio dell’abolizione della bardatura di guerra si diffonde rapidamente. – 111. Le critiche dei produttori contro i vincoli, la commissioni, gli istituti, i padreterni ministeriali. – 112. L’insurrezione contro i ritardatari che propongono enti nazionali per il vino, contro l’istituto dei cambi e la giunta degli approvvigionamenti che ritardano il formarsi di un nuovo equilibrio.
110. – Gli uomini al momento dell’armistizio, ebbero la sensazione del ritorno alla vita. Tolto l’assedio, che costringeva tutti i popoli, vincitori e vinti, a distribuire parsimoniosamente la limitata quantità di beni disponibili, parve riconquistata la libertà di muoversi, di operare, di comperare, di vendere, di contrattare senza i vincoli del tempo bellico, senza il beneplacito delle autorità, delle commissioni, dei calmieri, delle requisizioni, dei tesseramenti. Gli uomini politici, sensibili ai mutamenti della pubblica opinione, non tardarono a farsi eco del grido popolare contro le bardature di guerra. Al proclama del presidente degli Stati Uniti al momento di imbarcarsi per l’Europa, dove era atteso messaggero di pace e di vita, risponde in Italia il ministro del tesoro, on. Nitti, affermando la necessità «che lo stato tolga tutte le barriere inutili interne e svincoli la produzione, dia all’industria sicurezza e stabilità; quanto fu creato per necessità di guerra, deve scomparire con la guerra; tutti gli uffici devono essere ridotti in breve tempo a ciò che erano prima della guerra; presto e coraggiosamente bisogna sopprimere tutto ciò che è superfluo come dannoso; eliminare il più sollecitamente è possibile quanto è stato prodotto da un’economia transitoria e perturbatrice». Un commentatore parafrasava ed integrava: «Sì, ciò di cui l’Italia economica sopratutto ha urgente bisogno nel momento presente, è di potersi liberamente muovere, di non sentirsi più addosso la cappa di piombo dei vincoli, dei divieti, dei permessi, delle autorizzazioni, delle commissioni. Bisogna abolire uffici e commissioni; mandare a casa impiegati e commissari … Non basta esser più larghi di permessi di fare, di trasportare, di importare, di esportare. Bisogna rinunciare a dare i permessi; bisogna lasciare che ognuno faccia, trasporti, importi ed esporti senza permessi, senza visti, senza bolli, senza inchinarsi a destra o a sinistra, senza fare viaggi a Roma … A nulla vale il desiderio di fare, quando con le sue ingerenze il governo rende terribilmente costoso fare qualunque cosa. Non solo è necessario sopprimere uffici, controlli e permessi, rispetto alle cose che si devono produrre. Bisogna fare lo stesso rispetto agli uomini i quali devono produrre ricchezza. La pretesa che i ministeri romani, che il commissariato dell’emigrazione hanno di regolare a loro beneplacito, secondo i dettami della loro prudenza e sapienza, l’emigrazione degli italiani all’estero, è inammissibile. Se aspettiamo che i ministeri o i commissariati si siano decisi a vendere in blocco la nostra mano d’opera al più alto offerente, attenderemo mesi ed anni, e frattanto le occasioni di lavoro all’estero saranno venute meno. Il posto vacante nei paesi, Francia e Belgio, dove l’opera di ricostruzione è già incominciata febbrile, sarà stato preso da altri. Col mantenere in paese il sistema dei visti o permessi di emigrazione, la burocrazia produce la disoccupazione all’interno, provoca il malcontento, cagiona un ribasso artificiale di salari, con danno dei lavoratori e con vantaggio di altre classi sociali, le quali non hanno alcun diritto al favore. Come si deve dare alle industrie sicurezza e stabilità con l’abolire la loro sudditanza al funzionarismo, e col chiarire il loro obbligo di imposte per l’avvenire, così bisogna dare ai lavoratori sicurezza di potersi recare liberamente, senza impacci, senza permessi e senza ritardi nei luoghi dove il loro lavoro è maggiormente richiesto e pagato. Finché durava la guerra, era bene, era necessario, che lo stato requisisse cose e uomini, impianti industriali e lavoro umano; oggi si devono riprendere le leggi umane della vita umana. Non abolire i vincoli vorrebbe dire ridurre industriali ed operai a uno stato servile, vorrebbe dire immiserire la produzione della ricchezza, quando è più vivo il bisogno di accrescerla» (C.d.S., n. 15 del 15 gennaio 1919).
111. – Tardando la smobilitazione economica, cresceva l’inquietudine dei produttori. Verso la fine di quel gennaio del 1919, gli industriali italiani tengono a Bergamo, in un teatro, un loro congresso. «Erano in molti, rappresentavano miliardi di capitale investito, milioni di operai occupati. I loro oratori usarono un linguaggio acceso e severo. Contro chi? Contro il governo il quale non mantiene le promesse, impedisce con i suoi vincoli il movimento a coloro che avrebbero voglia di agire, fa perdere quei mercati che gli industriali italiani erano riusciti a conquistare, prepara disastri al paese, accolla sempre nuovi oneri alle industrie, mentre le riduce all’insolvenza non pagando i debiti, fa arrivare i telegrammi per posta, fa ribassare i cambi e poi non li vende a coloro che ne avrebbero bisogno per fare all’estero i pagamenti di roba, la quale potrebbe essere rivenduta a prezzi tripli o quadrupli dopo avere incorporato in sé il valore del lavoro di milioni di operai che si vogliono costringere invece alla disoccupazione… Invece di dare libertà alle industrie, immagina monopoli che poi non sa come amministrare, e mentre esso a nulla provvede, impedisce provvedano i privati sicché tra qualche mese corriamo rischio di trovarci senza petrolio e col carbone inafferrabile, quasi come nel 1917 e nel 1918. Le intendenze e le commissioni militari rimangono padrone del servizio ferroviario; e mentre in certe stazioni centinaia di carri aspettano, come ai tempi delle offensive dell’Isonzo e sugli altipiani, il momento di servire ai fini della guerra, che è finita, migliaia di tonnellate di merci marciscono lungo le calate dei porti ed il servizio dei viaggiatori e delle merci solleva le recriminazioni generali. Il governo inculca la necessità di produrre e frattanto non consente gli approvvigionamenti dei cotoni, delle lane, del ferro, senza di cui non si può produrre o si rifiuta di comunicare prezzi precisi di costo, senza i quali nessun industriale sensato si azzarda a comprare … Si consiglia agli agricoltori di intensificare la produzione, ma come vuolsi che il consiglio sia seguito se mancano i trasporti, fanno difetto i concimi chimici e calmieri e divieti ancora vietano di vendere la propria merce al più alto prezzo possibile? Gli impiegati ed i pensionati si lamentano della insufficienza degli stipendi e delle pensioni; e si risponde inventando istituti dei consumi, grazie a cui magistrati, professori, segretari di prefettura perderanno il proprio tempo ad annusare formaggi ed a negoziare merluzzi, facendo perdere, per la propria incompetenza invincibile, denaro al tesoro, creando una nuova guardia del corpo ai ministri inventori del bel congegno e distogliendo forze dai servizi pubblici, che sarebbe esclusivo dovere di quegli impiegati far procedere con zelo e con efficacia. Impiegati e persone sprovviste di reddito fisso si spaventano di un possibile rincaro dei fitti? La sapienza governativa non trova miglior rimedio che sopracaricare i proprietari di case di nuovi balzelli sperequati e impedir loro un parziale adattamento delle pigioni al diminuito valor della moneta; sicché l’industria edilizia la quale oggi potrebbe dare lavoro, dopo quattro anni di arresto, a falangi di lavoratori, non osa investire capitali e si provoca la rarefazione delle case. Sarebbero desiderabili la formazione di nuovo risparmio e il suo impiego giudizioso? Si tarda invece ad abolire inconsulti decreti sulla limitazione dei dividendi e sulla autorizzazione di nuove emissioni di azioni che sono la principale causa per cui le società si sforzano ad aumentare il capitale oltre il bisogno, sì da potere legalmente ripartire gli utili conseguiti… Tutto ciò accade perché a Roma spadroneggia un piccolo gruppo di padreterni, i quali si sono persuasi, insieme con qualche ministro, di avere la sapienza infusa nel vasto cervello. Poco sanno, ed ignorano in special modo la verità fondamentale; che ognuno di noi deve confessarsi ignorante di fronte al più umile produttore, il quale rischia lavoro e risparmio nelle sue intraprese. Bisogna licenziare i padreterni orgogliosi, i quali sono persuasi di possedere il dono divino di guidare i popoli nel procacciarsi il pane quotidiano. Troppo a lungo li abbiamo sopportati. I professori ritornino ad insegnare, i consiglieri di stato ai loro pareri, i militari ai reggimenti …, gli avvocati non si impaccino di fare miscele di caffé e di comprare pelli e tonni. Ognuno ritorni al suo mestiere. Si sciolgano commissioni; si disfino commissariati e ministeri. Nessun decreto luogotenenziale sia prorogato oltre il termine prefisso, sicché un po’ alla volta tutta questa verminaia fastidiosa sia spazzata via. Coloro che lavorano sono stanchi di essere comandati dagli scribacchiatori di carte d’archivio. Industriali ed operai sono capaci di intendersi tra loro e si sono intesi anche di recente, come si fa tra gente che lotta e rischia. Ma nessuno si sente più, ora che il nemico è vinto, di sottostare a chi è superiore ad esso soltanto per orgoglio o per incompetenza» (C.d.S., n. 32 dell’1 febbraio 1919).
112. – L’opinione pubblica, desiderosa di liberazione dai vincoli bellici, apprende, in quei primi mesi della pace, con stupefazione che una commissione detta del “dopo guerra”, ma tutta presa ancora dalla psicologia bellica, propone la istituzione di un nuovo “ente”, quello “nazionale del vino”, il quale avrebbe dovuto acquistare a lire 30 al quintale i 70 milioni di quintali di uva mediamente prodotta ogni anno in Italia, «farli trasportare in enopoli regionali tutti provveduti di perfezionati mezzi tecnici, di capaci serbatoi, di vasi vinari, nonché di vaste e bene arieggiate cantine, per la conservazione e l’invecchiamento del prodotto, dove esperti enologi chimici produrrebbero a basso costo vini serbevoli di tipi uniforme e costante invece degli attuali innumerevoli tipi di vino scadente destinato ad andare a male ai primi caldi e dove si darebbe grande impulso all’industria accessoria dei cascami della vinificazione, i quali oggi sono buttati nelle concimaie dagli inesperti contadini»; e rivendendo a lire 100 i 43.4 milioni di ettolitri di vino prodotti avrebbe dovuto guadagnare, senza calcolare i sottoprodotti, al lordo di spese generali, ma al netto delle spese di acquisto delle uve, ben lire 2 miliardi e 240 milioni. La proposta, fondata su un fantastico calcolo di spese d’acquisto delle uve a prezzi poco più alti di quelli d’anteguerra e di vendita del vino a prezzi gonfiati dalla svalutazione monetaria, cadde, perché l’Italia era stanca di enti, di consorzi, di ingerenze di stato. I viticultori preferirono l’indipendenza dallo stato al vantaggio di vendere le uve allo stato, tranquillamente, senza preoccupazioni di crisi. «Gente libera ed indipendente, che sempre si lamenta, ma del cielo, della pioggia e del vento, trasformata in accattoni dello stato, disturbatori di deputati, associati per mandare deputazioni a Roma a premere sui ministri per farsi aumentare il prezzo dei loro prodotti!» (C.d.S., n. 59 del 28 febbraio 1919 e n. 65 del 6 marzo 1919).
L’istituto dei cambi e la giunta tecnica interministeriale degli approvvigionamenti, sorti in un momento in cui era imperativo dare cambi solo a chi aveva avuto facoltà di partecipare all’acquisto della limitata quantità di beni disponibili (cfr. parag. 153 e 74) diventano causa di turbamento ora che si ostinano ad ostacolare le importazioni per la paura di dover vendere divise estere e fare così salire i cambi. Vano era il tentativo di tenere i cambi artificiosamente bassi, e sarebbe stato dannoso ottenere l’effetto. «Ora sono impianti tecnici costosissimi, che hanno richiesto lavori di milioni, i quali rimangono fermi perché non arrivano dall’America certe macchine, già pagate da più di 1 anno e di cui istituto dei cambi e giunta tecnica si rifiutano per mesi e mesi di consentire l’introduzione perché il pagamento avrebbe gravato sulla bilancia commerciale. Ora sono pezzi di macchina, roba fina, tutelata da brevetti che non si fabbricano né si possono fabbricare in Italia, di cui si chiede l’importazione per un certo numero di dozzine e per cui essa è consentita, dopo infinite sollecitazioni per una metà od un terzo di dozzina, suscitando l’ilarità dei produttori stranieri e l’inferocimento dei consumatori italiani, industriali gravemente incagliati nel far marciare stabilimenti che darebbero lavoro a molta gente e produrrebbero cose necessarie al consumo. Convinzione generale fra industriali è che non sia possibile introdurre la più piccola cosa in Italia senza aver fatto ripetuti viaggi a Roma, senza essersi fatti precedere da lettere di deputati e senatori. Non si cede se non a raccomandazioni ripetute e pressanti ed anche allora si riducono le domande, a casaccio, ad una metà, ad un terzo, ad un decimo, rendendo così, spesso, impossibile raggiungere lo scopo che gli interessati si proponevano» (C.d.S., n. 82 del 23 marzo 1919).
La narrazione dei fasti degli istituti bellici, i quali si ostinavano, finita la guerra, a tener strette in mano le fila della vita economica italiana potrebbe prolungarsi a lungo: «Non fu forse negato, a quanto narrano le cronache, il permesso di importazione chiesto dallo stato medesimo per l’impianto di una centrale telefonica? Il pretesto fu, al solito, che non si possono far rialzare i cambi… Intanto l’impianto non può farsi, gli abbonati non crescono, commercianti ed industriali subiscono ritardi nel conchiudere affari; bisogna corrispondere per lettera od andare a piedi o in carrozza e perdere tempo; la produzione è frastornata … Mentre gli industriali fanno la spola fra Torino e Roma, fra Milano e Roma, fra ogni centro grande e piccolo d’industria e la capitale; mentre coloro che hanno la responsabilità di far marciare industrie e dare occupazione a migliaia di operai sono in ansia per le materie prime che non arrivano, per i permessi di importare carboni domandati da mesi e non ottenuti mai, essi si veggono avvicinare da intermediari senz’arte né parte, da antichi camerieri di caffè, da gente che non ha mai avuto nulla a che fare con quel commercio, i quali offrono pronto permesso di importar carbone o materie prime, purché si paghi l’adeguato premio … Per il disbrigo delle pratiche occorre l’intermediario, l’uomo usato alle scale ministeriali e ai corridoi degli uffici. L’industriale operoso, il commerciante affaccendato non ha tempo da perdere per inoltrare carte, per sollecitare pratiche addormentate. Occorre lo specialista. Tutto ciò deve scomparire… Le chiglie delle navi che devono prendere il largo per i lunghi viaggi d’oltremare devono essere ripulite da tutte le incrostazioni che vi si sono andate formando sopra durante i riposi nei porti» (C.d.S., n. 109 del 19 aprile 1919).
2- I rischi del ritorno alla libertà economica
113. Timori degli amministratori pubblici di perdere sulle rimesse di merce, dei politici di provocare malcontento. Lo squilibrio fra i prezzi d’impero e la scarsezza temporanea delle scorte di merci esistenti di fronte alle richieste. – 114. La prima reazione popolare agli aumenti di prezzi conseguenti alla libertà riacquistata. I tumulti di piazza del luglio 1919. Saccheggi e riduzione improvvisa del 50 per cento. Che non dura e dà luogo a nuovo rincaro dei prezzi. – 115. Dopo il breve ritorno a libertà, i dittatori ai viveri ed al regolamento della vita economica si riaffacciano. La figura dell’on. Giuffrida.
113. – Le correnti d’opinione erano volubili in quel trambusto della prima liberazione dall’incubo della guerra. Gli uomini di governo temevano il rischio del trapasso, il quale non poteva avvenire di un colpo, dalla gestione di stato alla libertà assoluta. Le amministrazioni pubbliche desideravano, attraverso un periodo di transizione ancora monopolistico, realizzare le giacenze di merci possedute, taluna cospicua, senza perdita per l’erario. Temevano anche quegli uomini, gli effetti della libertà. I cambi regolati al corso fisso di lire 6 per il dollaro e di lire 30 per la sterlina, avevano consentito di tenere bassi i prezzi delle merci calmierate. Temevasi che, abolito il controllo dei cambi, i prezzi al minuto salissero assai mettendosi a pari dei prezzi liberi (cfr. sopra parag. 93); e si era tentati di perpetuare i vincoli per impedire l’effetto del rialzo dei prezzi, che si paventava socialmente pericoloso.
Vincolare taluni prezzi all’interno era possibile; impedire il rialzo dei cambi no. Quando gli alleati, chiusa la guerra, chiusero anche la fonte dei prestiti, da cui soltanto si ricavavano i cambi a prezzo fisso, fu giocoforza comprare sterline e dollari sul mercato libero e pagarli a prezzi di mercato libero. Il 21 marzo 1919 fu abolito il controllo dei cambi fra Inghilterra e Stati Uniti. Una settimana prima era stato abolito il controllo dei cambi franco inglesi. Il 25 marzo Londra e New York tolgono il controllo sui cambi italiani. Immediatamente i cambi salgono; il 5 aprile il dollaro era già passato da lire 6,3 a 7,38 e la sterlina da 30,32 a 34,56 (cfr. parag. 153). Le moltitudini incapaci di ragionamento sentirono il pungolo dei prezzi crescenti col crescere dei cambi e confusamente ne diedero colpa allo stato, il quale non sapeva dominare e reprimere le male pratiche degli speculatori, dei profittatori, degli intermediari. Durante tutta quell’estate del 1919 fu in Italia un confuso vociferare. I popoli si erano cullati per anni nell’idea ingenua di un rapido ritorno, dopo la pace, ad una situazione normale, detta d’anteguerra, di improvvisi ribassi di prezzi e di rinnovata copia delle disponibilità annonarie. L’attesa del paradiso terrestre ne provocò in piccola parte l’avvenimento. Larghe disponibilità affluiscono sul mercato da parte di speculatori e di enti pubblici, fatti persuasi che convenisse disfarsi delle provviste esistenti innanzi che sopravvenisse la nuova merce che non si sapeva donde venisse, ma di cui in confuso si immaginava l’esistenza. In quei primi mesi la spesa della famiglia operaia tipica milanese, che nel settembre 1918 era di lire 114,16 per settimana, oscillò tra lire 109,07 e 110,81 fra l’ottobre 1918 ed il febbraio 1919, e nell’aprile era a 106,49. Palesatesi vane le speranze di facili approvvigionamenti la curva dei prezzi ricomincia a salire: la spesa settimanale sale a 117,21 nel maggio ed a 120,05 nel giugno. Il nuovo presidente del consiglio, on. Nitti, vede giusto nell’avvenire quando scrive ai prefetti: «La situazione alimentare è certamente grave. La superficie coltivata a grano ed a cereali è venuta a diminuire negli ultimi anni di quasi 500 mila ettari. La nostra produzione di cereali era insufficiente, ora è insufficientissima. Per bastare a noi stessi bisogna introdurre almeno da 30 a 32 milioni di quintali di grano. Fuori d’Italia il raccolto del grano è stato scarso in quest’anno. Occorrono somme più grandi, che noi dobbiamo trovare fuori d’Italia a credito. Il pubblico crede di pagare il pane. Ma il governo fa vendere il pane ad un prezzo che è ben lontano dal corrispondere alla realtà. L’anno scorso la differenza netta, che segna la perdita dello stato, ha raggiunto due miliardi e mezzo. Quest’anno è minacciata perdita maggiore. Quanto tempo si può durare in questa illusione? E non è più savio pensare fin da ora ad aumentare il prezzo del pane? Vi è uno squilibrio alimentare preoccupante. Dobbiamo importare quasi due milioni di quintali di carni bovine e suine, 300 mila quintali di olio, 500 mila quintali di latticini (Bachi, 1919, 337).
114. – L’opera contrasta colla giusta visione del momento. Lasciate libere dal governo persuaso fosse opportuno «uno sfogo» dell’anima popolare, scatenate da declamazioni insulse di pennaioli al servizio delle parti più diverse, le moltitudini nei primi giorni del luglio 1919 selvaggiamente si muovono contro i presunti colpevoli del rincaro dei viveri. Lo sconvolgimento si propagò in brevi giorni attraverso tutta l’Italia; dai grossi centri si diffuse alle cittadine minori e persino a minuscoli villaggi montani. Talune grandi città furono poste a soqquadro per parecchi giorni. I peggiori eccessi ebbero luogo dapprima a Firenze e poi a Bologna, a Milano, a Torino, a Roma. Nel turbamento dell’ordine pubblico si ebbe a lamentare qualche vittima, fra molti feriti e grave danno alle cose. «Specialmente all’inizio dei moti» – scrive il cronista – «la parte infima della popolazione spinta da bassi istinti, operò vasti saccheggi di negozi di generi alimentari, di stoffe e di calzature. In molti luoghi, le camere del lavoro diressero organicamente il movimento e spesso gli diedero una forma di semi legalità, curando l’asportazione, che era detta “requisizione” delle merci dai negozi, il concentramento nei propri locali e la rivendita agli affiliati, a prezzi vili. Nella seconda fase del movimento l’agitazione addusse all’intervento delle autorità militari e prefettizie per un violento ribasso nei prezzi che accontentasse la massa e calmasse gli animi; forse a Bologna ebbe inizio l’adozione di un’assurda riduzione uniforme del 50% sui prezzi prima vigenti. Questa affascinante cifra si propagò in breve attraverso la penisola, e in miriadi di comuni, grandi e piccoli. Ordinanze municipali affisse per le vie diffusero fra la gente la lieta novella che i prezzi, talora senza limitazione, e talora solo per le merci di consumo popolare, erano di colpo ridotti alla metà. La novella ha calmato gli animi e al saccheggio e alle violenti imposizioni singole tumultuarie di prezzi irrisori, si sostituì la generale adozione, per moltissime merci di largo uso, di un ribasso così imponente sulle anteriori quotazioni. Rapidamente, lungo le varie fasi delle agitazioni, enormi acquisti hanno avuto luogo, e non solo da parte della classe proletaria, esaurendo spesso tutte quante le disponibilità delle aziende commerciali: i più rilevanti acquisti sono avvenuti di cibarie, bevande, calzature, stoffe, biancherie ed altri indumenti. Queste giornate di rivolta hanno naturalmente segnato una forte dilatazione nei consumi, non certo propizia al raggiungimento stabile di un basso livello dei prezzi, e hanno segnato uno sconcerto nell’attività commerciale, che avrebbe anche potuto essere duraturo. Nelle varie fasi dell’agitazione sono state oggetto di depredamento e di forzata vendita a prezzi rovinosi anche magazzini di cooperative e di aziende annonarie. In molti centri, dopo la fissazione legale tumultuosa del ribasso del 50% avvenne una nota discriminazione fra le merci con l’adozione di aliquote varie e in molti centri, anche, è avvenuta la fissazione di calmieri piuttosto bassi per merci svariatissime, che non figurano di solito nelle provvidenze annonarie; i lunghi elenchi spesso contenevano anche oggetti di vestiario lussuosi, materiali domestici vari, vini, liquori. Quasi ovunque sono stati adottati prezzi di calmiere relativamente bassi per i pasti forniti dagli alberghi e dalle trattorie. Questi calmieri e gli iniziali ribassi furono ben presto oggetto di ritocchi e di trasformazioni e caddero in desuetudine. Di fronte alla troppo evidente impossibilità di mantenere i bassi prezzi imposti colla violenza, si comprese la convenienza di ritornare a ragioni di scambio meglio corrispondenti alle condizioni economiche generali. Nella curva dei prezzi al minuto, i fatti del luglio 1919 hanno segnato una brusca, assai profonda depressione, ma è stata un’onda che si è dileguata come in acqua spuma e la curva ha più gradualmente, ma pure rapidamente ripreso l’antico livello per proseguire l’ascesa» (Bachi, 1919, 343-4). La spesa settimanale per la famiglia operaia tipica in Milano scende bensì da lire 120,05 nel giugno 1919 a 109,24 nel luglio ed a 108,07 nell’agosto; ma già nel settembre risale a 111,47 per toccare 117,74 in ottobre e 118,53 in novembre; da cui piglia le mosse per crescere ancora a 124,67 nel gennaio 1920, a 155,1, nel luglio ed a 189,76 nel dicembre 1920.
115. – In quell’estate del 1919 i dittatori agli approvvigionamenti, ai viveri, ai cambi, i quali erano stati, nell’inverno dopo l’armistizio, minacciati di cacciata, rialzano la testa. «Colla sicurezza di parlare a chi, afflitto da mali presenti, dimentica i peggiori mali passati e non vede la prospettiva di disastri futuri, i capi dei servizi da abolirsi profittano» del malcontento popolare e «della ventata di collettivismo entrata alla camera con le elezioni generali dal novembre 1919 per proclamarsi i soli capaci di salvare la produzione e di avviare il paese a nuove forme di organizzazione sociale». L’iniziale, appena intravisto, ritorno alla libertà delle contrattazioni, simboleggiata dal tramonto dei cambi monopolizzati, è fatto colpevole dei rialzi dei prezzi avvenuti di poi. «Finché lo stato tenne il monopolio dei cambi», afferma l’on. Giuffrida, «questi rimasero bassi. Appena il monopolio fu abolito, rialzarono vertiginosamente … Dunque la causa del rialzo fu la libertà delle contrattazioni, fu il disfrenarsi della speculazione». Tra i capi dei servizi economici, i quali durante la guerra avevano assaporate le dolcezze di un potere mai più veduto sulla vita e sulla maniera di vita dei loro connazionali, ed avevano provato le vertigini e quasi il delirio del comando, forse il Giuffrida era il maggiore, certo il più volitivo. Di lui il commentatore contemporaneo così tracciava il profilo: «Forte, lavoratore instancabile, dotato di una volontà di ferro e di una sicurezza assoluta in se stesso, il Giuffrida percorse rapidamente tutti i gradi della carriera amministrativa, sino a quelli supremi. È tra i due o tre funzionari italiani che si sentono ricordare da ministri e da uomini politici con ammirazione. Ed hanno ragione. Abituati a vedere direttori generali schivi di ogni responsabilità, trincerati dietro il precedente, il parere del competente consiglio superiore, l’ordine scritto del capo, essi soggiacquero al fascino di questo giovane che pare non dorma mai, che è sempre pronto ad assumersi qualsiasi compito e che mentre gli altri dicono vedremo, studieremo, invocheremo il parere, sottoporremo a sua eccellenza, dice: faccio io, assumo io la responsabilità, non importa sentire il consiglio, la giunta, il ministro … L’on. Giuffrida è forse il rappresentante tipico, il più forte e più volitivo di tutta una falange di funzionari venuti su dalla guerra, che durante la guerra per necessità di circostanze, per debolezza di uomini di governo, per il plauso delle masse esasperate dal rialzo nel costo della vita, fermamente credettero di avere salvato il paese, di avere essi fatto tutto, di avere frenato la speculazione, di avere tenuto a segno i prezzi, destinati altrimenti a salire ancora più su di quanto non siano saliti. Giuffrida è capace di dire sul serio, in piena buona fede: io salvai l’Italia dalla fame, io impedii che i cambi salissero al 400 od al 500 per cento. Senza di me i pescicani, invece di 10 o 20, avrebbero lucrato 40 o 50 miliardi di lire. Una vera intossicazione si è prodotta nel cervello di costoro che in guerra dominarono, legiferarono, ordinarono, tesserarono, distribuirono a loro talento merci, noli, cambi, ricchezze. Essi sono convinti che, senza la loro opera, l’Italia è destinata alla rovina, al disordine. Essi soli si ritengono capaci di indicare che cosa si deve produrre, come e dove si deve produrre, quali devono essere i costi e i prezzi, quali gli organi della distribuzione… Giuffrida sogna il ministero della produzione, di cui egli sia il capo e che regolerà tutta l’economia del paese» (C.d.S., n. 355 del 25 dicembre 1919).
3- Il mito della economia associata
116. Il mito dell’economia associata: continuazione della economia collettivistica del tempo di guerra. Comuni, cooperative ed industriali concordemente invocano aiuto statale ad enti pubblici di distribuzione a sottocosto. – 117. Moltiplicazione dei consorzi di vendita a prezzo «equo». Necessità di una scelta fra negozianti e produttori per l’ammissione nel consorzio. Esempi tipici: pelli, tessuti, pomodoro, burro, riso, caffè, merluzzo. – 118. Le cooperative, cresciute sanamente durante la guerra, si moltiplicano ed ingigantiscono coll’aiuto del denaro pubblico. Desideri di associarsi allo stato per vivere a sue spese e suo rischio. Grandiosi progetti minerari, elettrici, marinari. – 119. La cooperativa Garibaldi e le fallite speranze, procacciate a gran danno dell’erario, di pacificazione sociale a suo mezzo.
116. – Mentre i capi dei servizi così repugnano a perdere l’autorità conquistata, anche gli enti pubblici, i consorzi e le cooperative, a cui durante la guerra erano stati affidati compiti di produzione e di distribuzione di merci, gli industriali, i quali avevano tratto vantaggio dalle forniture, sia pure regolate e controllate, all’unico compratore stato, e speravano nuovi profitti dalla liquidazione delle rimanenze belliche, i parlamentari i quali dovevano fornire alle folle, scosse dalla predicazione comunistica, qualche arra di attuazione delle promesse di felicità e di benessere imprudentemente largite nell’ora del pericolo, riluttano al pronto e puro ritorno all’anteguerra. Ciò avrebbe significato ritorno alla lotta, alla concorrenza, ai profitti ridotti a proporzioni normali, al comando esercitato insieme con altri, senza consacrazione dall’alto, per precaria investitura della domanda del mercato. Al mito della giustizia e della libertà per tutte le nazioni che sorresse gli uomini durante i duri anni della guerra contro la minaccia di un nuovo impero mondiale, occorreva sostituire un nuovo mito. La ricerca fu lunga e contrastata. In quel primo anno del dopoguerra prese il nome di «economia associata». Come di tutti i miti non è facile dire che cosa fosse l’economia associata in Italia, la quale aveva tratta la parola e forse la sostanza del mito da ispirazione tedesca[i]. Era un vago associazionismo tra privati e stato, fra enti minori e stato, fra cooperative e stato; sicché le forze individuali e pubbliche agissero a guisa di emanazione e quasi parte della collettività. Invece del comunismo puro, che si intuiva repugnante all’economia italiana, si offriva un ideale che conciliasse od integrasse o superasse il dualismo fra individuo e stato e li componesse insieme in una unità superiore.
Nuovo pareva il mito; ma era la continuazione e l’adattamento del sistema che a poco a poco la guerra aveva foggiato: la economia collettivistica, che era stata la vera creazione bellica, si perpetuava sotto nome nuovo, più gradito a quelli che avevano veduto i difetti di quell’economia bellica collettivistica, ma, non volendo o non osando il ritorno alla libertà, immaginavano esistesse qualche mezzo per conservare quell’economia, così propizia ai profittatori ed ai bisognosi di comando, senza i difetti da essa inseparabili. L’associazione dei comuni italiani nel giugno 1919, pur constatando, in un suo ordine del giorno, che «l’azione degli organi statali di approvvigionamento e consumo è stata disordinata ed insufficiente durante la guerra ed ancor più si è manifestata tale dopo l’armistizio, quando urgevano provvedimenti fondamentali e solleciti, atti ad impedire gli aumenti di prezzo di quasi tutti i generi di consumo», persuasa tuttavia che non giovi o giovi poco ricorrere a sanzioni penali contro i colpevoli di «ingorde speculazioni, frodi ed accaparramenti» vuole che il problema sia affrontato «risolutamente nelle cause che lo determinano e radicalmente risoluto». E il «rimedio non può venire che da un intervento diretto dello stato, il quale, assicurandosi sia con l’acquisto diretto della produzione nazionale sia con la importazione i generi di più largo consumo, li offra direttamente al consumatore a prezzi bassi ed anche inferiori a quelli di acquisto, come è stato già praticato per i cereali». Dunque, estensione del collettivismo bellico dai generi alimentari «a tutti quelli che rappresentano una normale necessità della vita e ne determinano il costo» e purificazione di esso, mercé l’esclusione dalla distribuzione al minuto dei generi forniti dallo stato di chiunque, al pari dei comuni e degli enti pubblici, non affidi «oltreché di equa ripartizione, anche di esclusione di accaparramento e di speculazione». L’associazione dei comuni è persuasa che occorra mettere in vendita «a beneficio del compratore, gli stocks delle merci esistenti a minor prezzo di quelli di costo» e vuole che lo stato renda possibile la cosa ai comuni ed agli enti non speculativi mercé prestiti e sussidi. Prestiti e sussidi invocavano altresì ai primi del luglio 1919 i rappresentanti dei vari enti annonari pubblici e cooperativi convocati a consulto dal sottosegretario agli approvvigionamenti ed ai consumi, on. Murialdi. Essi furono concordi «nel riconoscere la necessità di ritornare alla organizzazione statale per i principali prodotti di consumo» e nel ritenere «impossibile il ritorno alla libertà di commercio, la quale, a giudizio di tutti gli intervenuti, aggraverebbe enormemente i danni che da un parziale ritorno alla libertà si sono avuti in questi ultimi tempi». Approvato senz’altro un elenco «dei generi di prima necessità – cereali e suoi derivati, carni bovine e suine, olii e grassi, latticini, zuccheri, tonno, legumi secchi – pei quali lo stato deve stabilire il regime di intervento». Riconosciuta «la impossibilità di organizzare il monopolio del vino» si invocano «provvedimenti speciali diretti ad infrenarne l’alto prezzo e a disciplinarne la prossima vinificazione». Persuasi che solo la distribuzione d’autorità risponda all’interesse collettivo, i cooperatori chiedono la creazione di una nuova organizzazione grazie alla quale «le merci passino direttamente dai centri di approvvigionamento agli enti distributori in base a tabelle di ripartizione da istituirsi da speciali commissioni ripartitrici». Troppo pericoloso invero sarebbe l’abbandono dei contingenti e dei tesseramenti!
Poiché talora anche dagli enti pubblici e cooperativi si vendeva a prezzi di mercato, sono invocati provvedimenti per radiarli dal novero degli organi di distribuzione autorizzati, quando «vengano meno alle norme fondamentali che ne regolano la vita». A garantire ed a rendere possibili l’attuazione di queste norme, ossia, sopratutto, la vendita al costo o sotto costo, «sia ammessa una rappresentanza dei consumatori nella organizzazione degli approvvigionamenti e sia facilitato grandemente dallo stato il credito alle cooperative ed agli enti, tanto per lo sviluppo della loro organizzazione commerciale, quanto per la loro espansione nelle regioni ove essi difettino e per la creazione di nuovi impianti per la preparazione e conservazione delle derrate alimentari» (Bachi, Alimentazione, 176-77).
Persino la confederazione generale dell’industria, pur invocando nel giugno 1919 la pronta alienazione dei generi di consumo disponibili e di quelli che dallo stato e dagli enti pubblici ancora si potranno acquistare all’estero, a prezzi inferiori al costo, imputandosi all’erario la relativa perdita e pur chiedendo la libertà di importazione per i privati, voleva tuttavia che la distribuzione dei generi alimentari forniti dallo stato e da enti annonari fosse fatta a cura di spacci vigilati e controllati dal governo e da enti pubblici, che si favorissero le cooperative di consumo, ricorrendo anche al concorso di industriali e si incoraggiasse l’organizzazione commerciale dei produttori, specialmente piccoli, per il diretto contatto coi consumatori. (Bachi, Alimentazione, 176).
117. – Risultato di questa concorde opinione dei comuni, enti pubblici, cooperative contro l’azione individuale dei commercianti fu il diffondersi sullo scorcio del 1919 e durante il 1920 della figura economica del «consorzio», vecchia parola italiana usata per significare associazioni di enti pubblici e di proprietari privati intesa al raggiungimento di fini di interesse comune e pubblico, come bonifiche, strade, rimboschimenti, canali di irrigazione, a cui le forze singole non erano bastevoli e traslata ad altra significazione, quello di associazioni di enti pubblici e di privati intesa alla produzione ed alla distribuzione di derrate e di merci secondo criteri disformi da quelli che sul libero mercato sarebbero stati correnti.
Confusamente si voleva sostituire al prezzo del mercato, il quale consente rendite e profitti di industriali e commercianti, un prezzo «giusto» il quale rimuneri il costo e conceda ai «necessari» produttori e distributori una «equa» remunerazione o un «normale» guadagno. Ma poiché quel che è «equo» o «normale» fa d’uopo sia definito, ecco risorgere l’interventismo bellico statale, volto accortamente ai fini particolari dei consorziati.
Costi ed equi guadagni non erano forse in relazione alle dimensioni dell’impresa? E la moltiplicazione di queste, il pullulare di produttori e di intermediari improvvisati non costringeva le imprese, ridotte a soddisfare a cerchie sempre più ristrette di consumatori, a caricare le spese generali costanti – mantenimento proprio e della famiglia – su una troppo piccola massa di prodotto smerciato? Querela antica, derivata dall’erroneo concetto di supporre che i prezzi siano determinati dal costo di produzione, sicché basti aumentare i costi per crescere i prezzi; che la guerra aveva acuita per le allettanti promesse di larghi guadagni da essa offerte ad incompetenti ed impronti tratti da ogni specie di occupazioni a quelle, allora tanto agevoli, del produttore e del mezzano. Ora che volevasi, mercé i consorzi, raggiungere fini più alti di quelli meramente privati di lucro, era perciò necessario impedire l’accesso ai consorzi e quindi all’esercizio dell’industria e del commercio a tutti coloro che non dimostrassero attitudine tecnica, probità morale e possesso di adeguati mezzi finanziari. La guerra, mettendo lo stato in rapporto con industriali e commercianti, l’aveva già indotto a cercare qualche criterio generale ed imparziale per distinguere fra quelli che meritavano di diventare suoi fornitori e quelli che dall’onore e vantaggio dovevano essere esclusi.
Mancando il criterio della libera concorrenza, a parità di qualità, sul prezzo; essendo i prezzi determinati d’autorità per lavori compiuti su merci fornite dallo stato, si dovette necessariamente alla scelta sulla base del minor prezzo, che vuol dire sulla base dell’ottima capacità tecnica ed economica, sostituire la scelta sulla base di riconosciuto possesso di attitudine tecnica, potestà economica ed integrità morale. Il criterio accolto a tutela dello stato, perché non doveva egualmente essere accolto a tutela dei consumatori? Aveva già un D.L. 26 settembre 1918 vietato il commercio di pelli conciate e gregge e di filati e tessuti di cotone e di canapa a chiunque non fosse iscritto presso una camera di commercio per l’esercizio di industrie o di commerci che richiedessero, per la loro natura, l’acquisto o la vendita delle merci medesime. Altri provvedimenti stabilivano lo stesso obbligo per i tessuti di lana. Volevasi in questa maniera «risanare il mercato, circondando di garanzie la vera e propria funzione commerciale», ed eliminare l’opera speculativa occasionale di chi non fosse commerciante di professione. (Bachi, 1918, 220). Nello stesso anno le autorità prefettizie del parmense e del genovesato ordinarono che i produttori di conserve di pomodoro si riunissero in consorzio e che soltanto questo potesse acquistare la materia prima dai coltivatori, a cui fu vietata l’esportazione dalla provincia. Il consorzio, finché durò, e scomparve solo il 20 ottobre 1920, assicurò ai fabbricanti comode forniture a prezzi miti.
Un decreto del 25 febbraio 1918 aggregava al già esistente (fin dal 25 maggio 1917) per il burro altro consorzio fra coloro che esercitavano la stagionatura ed il commercio dei formaggi gorgonzola, stracchino e quartirolo, creando un «consorzio obbligatorio per la disciplina del commercio del burro e dei formaggi stracchini». Fu caratteristica sua che vi potessero entrare solo i commercianti, le cooperative e le istituzioni di consumo che, al 31 dicembre 1916 per il burro ed al 25 febbraio 1918 per i formaggi, esercitassero il commercio all’ingrosso del burro e del formaggio di loro produzione e di quello acquistato direttamente dai produttori di quelle regioni. Volevasi così «moralizzare» il commercio, accertandosi che i consorziati «non comprassero da produttori se non il prezzo massimo di base e cedessero la merce allo stesso prezzo più l’equa percentuale di utile loro assegnata». Il sistema, che funzionava in tempo di guerra senza evidente[ii] danno dei consumatori grazie ai calmieri, requisizioni e razionamenti, tolti questi creò un monopolio legale a favore di coloro che erano già in possesso del diritto di esercitare industria o commercio. Un monopolio siffatto si istituì quando con R.D. 9 novembre 1919 si fondò il consorzio nazionale per il riso, al quale venne affidata la gestione dell’approvvigionamento, sia per quanto riguardava l’acquisto ai prezzi legali del risone, sia il suo riparto fra le pilerie per la lavorazione, sia infine, la cessione del riso e dei sottoprodotti commestibili allo stato. Tra le due sezioni, dei risicultori deputata alla raccolta del risone precettato e dei pilatori ai quali era dato l’ufficio della lavorazione, si andò d’accordo, finché, esaurito il raccolto del 1919, di buona qualità, ben condizionato, facile ad esitare a prezzi d’impero rimuneratori e cresciuti, non ci si trovò di fronte al risone del raccolto 1920, abbondante ma di qualità facilmente deteriorabile. I risicultori accusarono il consorzio di eccessivi ritardi nei ritiri, causa di fermentazione e guasto nei cumuli immensi rimasti nei magazzini dei produttori; ed i pilatori ribatterono con querele di incuria nella conservazione. Una commissione d’inchiesta nominata dal ministro del tesoro mise in luce taluni effetti interessanti del sistema consortile di economia associata. Se le qualità cattive del risone del 1920 erano state causa prima del successivo deterioramento, i produttori, lasciati a sé, avrebbero dovuto in tempo utilizzare per il meglio il raccolto e ne avrebbero venduto per uso industriale la parte più scadente. Invece, nonostante i prognostici sfavorevoli sulla qualità del raccolto, essi non solo non si erano accontentati di un aumento, subito ottenuto col decreto dell’1 febbraio 1920, di lire 5 sui prezzi dell’anno precedente, che erano oscillati fra lire 58,50 e 63;50, a seconda della qualità; ma, argomentando dai rialzi di mercede e dal danno dei conflitti agrari, chiesero ed ottennero (R.D. 18 novembre 1920) un nuovo aumento sino a lire 95-102, con l’aggiunta di premi particolari per le zone di difficile coltivazione. Avrebbero preteso che i prezzi fossero portati sino a lire 138-140 e di fatto ottennero aumenti sino a lire 110, quando già si sapeva che la qualità era cattiva; anzi, giovandosi di questa circostanza, che cresceva le spese di essiccazione, ottennero che fosse stabilito uno speciale regime di prezzi varianti secondo le rese, cosicché avvenne che i risoni di valore inferiore, a resa minima, conseguissero prezzo relativamente più alto. Necessarie, non accidentali, queste conseguenze dei consorzi, perché non si può sostituire la concorrenza, la quale consente il danno e la rovina di coloro i quali non sanno sopportare il prezzo di mercato uguale per tutti con l’idea del prezzo equo compensatore del costo di produzione, senza variare il prezzo in ragione dei costi, più basso quindi per i capaci e più alto per i peggiori produttori. Poiché la maggioranza dei produttori tende alla minor fatica, l’economia associata volgeva dunque alla degradazione delle imprese produttrici.
Si sottrassero, fra continue proteste, alla tendenza propria dei consorzi, i componenti di quello del caffè, che un decreto del settembre 1918 aveva istituito obbligatoriamente fra le sole ditte le quali prima del 31 dicembre 1917 esercitassero abitualmente l’importazione di quel coloniale. Tra varie vicende, il consorzio durò fino al 16 novembre 1921, ritornandosi alla libertà di commercio, desiderata dagli stessi commercianti consorziati, fortunatamente persuasi di poter guadagnar correndo l’alea della scelta del momento dell’acquisto e della vendita ai prezzi correnti di mercato di più che non contentandosi della sicura provvigione consortile. La differenza tra i due consorzi del riso e del caffè, mette in luce la caratteristica propria dell’economia associata. Vi erano favorevoli i risicultori, forza politica terriera ed industriale non piccola, in apparenza avversata ed in realtà sospinta ed appoggiata da forti ed agguerriti gruppi di lavoratori, epperciò capace di strappare allo stato associato rialzi di prezzi, premi, concessioni per difficoltà di produzione; laddove gli interessati nel commercio del caffè, pochi di numero ed importatori di una derrata forestiera, non potevano cattivarsi larghe simpatie nel mondo politico, anzi da questo erano tenuti, per la loro indole di speculatori, in sospetto.
Recalcitrarono per la stessa ragione, pur destreggiandosi per trarne il maggior partito possibile, al beneficio che si voleva ad essi imporre gli importatori di merluzzi e stoccafissi, radunati per iniziativa del governo (D.L. 12 dicembre 1918) in un consorzio obbligatorio in Genova «allo scopo di disciplinare durante il presente periodo e di assicurare con equi criteri di distribuzione l’approvvigionamento delle diverse province». Al solito, al consorzio potevano essere ammesse solo le ditte che già avessero esercitato il commercio di importazione di quei generi almeno da un triennio, sia per conto proprio che quali agenti di case estere, con affari complessivamente non inferiori a 1000 quintali. Ammesse nel primo esercizio 41 ditte e nel secondo altre 29 a far parte del consorzio, nessuna licenza poté più essere rilasciata per l’importazione di merluzzi e stoccafissi per conto di privati, consacrandosi così il monopolio dei negozianti antichi. È vero che, subito dopo la costituzione del consorzio, i prezzi del merluzzo secco primario ribassarono dalle lire 900 il quintale sul mercato di Genova nell’ottobre 1918 a 525 e poi a 425 nel marzo 1919 ed a 350 nel luglio successivo. Ma, a tacere che i prezzi ben tosto risalirono a lire 435 nel gennaio 1920, a 525 nel marzo ed a 600 nel novembre 1920, fu osservato che anche le prime riduzioni rimasero inferiori a quelle verificatesi sui mercati esteri immediatamente dopo l’armistizio, che i margini fra i prezzi di acquisto all’estero e quelli di vendita all’interno furono talora rilevanti e proporzionatamente superiori a quelli consueti del libero traffico; così da assicurare alle ditte consorziate utili ingenti.
Soppresso nella primavera del 1921 il favore di monopolio, consentendo l’approvvigionamento all’estero anche a privati importatori, i prezzi ribassarono d’un tratto nel maggio di circa lire 200-300 al quintale. Cosicché quando il consorzio fu posto, come inutile e dannoso, in liquidazione, nessuno ne mosse lagnanza.
118. – Della tendenza ad appoggiarsi allo stato fu esempio cospicuo la trasformazione avvenuta nel movimento cooperativo. Il quale, durante la guerra, erasi sviluppato nel complesso per virtù propria, senza slanci impetuosi ed effimeri: secondo una rilevazione statistica della lega delle cooperative 712 società di consumo avevano registrato un incremento nel numero dei soci da 210.567 nel 1914 a 252.556 nel 1918 e nelle vendite annue da 108.6 milioni di lire nel 1914 a 263.8 nel 1917 ed a 34.6 milioni in media in ciascun mese del primo quadrimestre del 1918. Le 712 cooperative possedevano 184 panifici, 18 pastifici, 16 mulini, 31 macelli e 5 altri impianti. Ma tra il 1917 ed il 1918 si moltiplicano, nei momenti in cui la situazione annonaria si faceva più angosciosa, le cooperative sorte allo scopo di distribuire derrate concesse dallo stato o da istituti pubblici a prezzi di favore a guisa di indennità indiretta di caro viveri agli impiegati pubblici. Nuocevano quel destinare locali situati nei palazzi dei ministeri e delle pubbliche amministrazioni a servizi di bottega alimentare; quel distrarre funzionari dal loro impiego per curare acquisti di farine e formaggi e salumi. Sullo scorcio del 1918 (D. D. 6-14 settembre, 3 ottobre) alle modeste cooperative fra piccoli gruppi di impiegati si sostituiscono perciò istituti di consumo fra impiegati e salariati statali. Il programma era ambizioso: copiose partite di derrate requisite avrebbero dovuto essere dallo stato poste a disposizione degli istituti; pastifici, fabbriche di conserva, stabilimenti vinicoli ed oleari, caseifici avrebbero dovuto lavorare unicamente per conto di questi che erano qualcosa di mezzo fra la cooperativa e l’istituto pubblico; «grandi estensioni di terreni» sarebbero state affittate dagli istituti, i quali avrebbero venduto i cereali ed i legumi così ottenuti «senza il tramite degli accaparratori a prezzi modestissimi». In ogni capoluogo di provincia e inoltre alla Spezia ed a Taranto avrebbero dovuto sorgere istituti; lo stato avrebbe concesso mutui al 4% per l’impianto e per l’acquisto di merci; le casse di risparmio, le banche di emissione, gli istituti di credito ordinario e cooperativo avrebbero potuto concedere anticipazioni a saggio non superiore al 5 per cento.
L’amministrazione degli enti avrebbe dovuto essere affidata dal ministro del tesoro a consigli di impiegati e salariati statali.
Si ricordano programmi e propositi non perché essi abbiano avuto attuazione; ma come indice della mentalità che ad un commissario dei consumi (l’on. Canepa nel luglio 1917) aveva già fatto prevedere il giorno in cui a privati commercianti ed accaparratori si sarebbe sostituito un «ente nazionale dei consumi» che voleva dire «un potentissimo organismo centrale» costituito dagli «enti pubblici di consumo, le grandi cooperative, gli istituti di emissione, gli altri istituti di credito, fra cui specialmente le casse di risparmio e lo stato» il quale avrebbe dovuto provvedere «all’approvvigionamento degli organi di distribuzione … acquistando le merci su vastissima scala, a tempo opportuno, valendosi anche della requisizione, di cui il commissariato lo armerebbe ogni volta l’uso di tale arma riuscisse giusto e necessario».
La guerra aveva riabituato al fare e più al dire grandiloquente, ai propositi energici, all’attribuire potere grande allo stato; morbi verbali da cui la dura sperienza del costruire a frusto a frusto l’Italia unita sembrava averci in parte guariti. Come sempre, il morbo ebbe per effetto errori economici che, in ossequio al principio dell’economia associata, si accollarono allo stato. Quando, per i tumulti del 1919, anche le cooperative furono danneggiate dalle vendite forzate a prezzi inferiori al costo, esse, che, a differenza dei negozianti privati, poterono pretestare fini di pubblico vantaggio, riuscirono ad ottenere indiretto compenso per i danni subiti. Uno stanziamento di 30 milioni di lire fu invero deliberato (D. 24 luglio 1919) per somministrare all’istituto di credito per la cooperazione sovvenzioni al 4% rimborsabili entro il 1921, atte a fornire a società, consorzi ed enti di consumo i mezzi per acquistare e distribuire a modici prezzi generi di prima necessità: 100.4 milioni di lire furono mutuati a tal uopo nel 1919, e la somma crebbe a 258.4 milioni nel 1921.
Il gonfiamento creditizio non riguarda solo il consumo: l’istituto nazionale di credito per la cooperazione cresceva il suo portafoglio da 162 milioni di lire nel 1918 a 310 nel 1919 ed a 885 nel 1920, di cui 428 milioni per crediti aperti a favore di cooperative di lavoro e di loro consorzi, 132 di cooperative agricole, 47 di cooperative di credito, e 231 a pro di cooperative di consumo, ed enti annonari. Così ampio movimento non poggiava se non in minima parte su versamenti di quote capitali o di depositi da parte di soci, ma quasi del tutto su fondi provvisti a vario titolo dallo stato. Il dottor Giumelli, allora direttore dell’istituto nazionale, così prevedeva il necessario doloroso epilogo della cooperazione sussidiata: «La cooperazione italiana ha già troppo credito e vive troppo sulle cambiali, di guisa che la banca non è più la natura ausiliatrice di determinate operazioni, ma è essa, direttamente, matrice di aziende ed imprese le quali vivono con la spada di Damocle della scadenza. Al primo urto della crisi finanziaria che si va addensando ineluttabile sul nostro paese, tre quarti di questo castello di carta cadrà perché non ha base naturale, perché vive di una vita fittizia di espedienti. Quando il credito non è adeguato al sacrificio che ciascuno deve compiere per ottenerlo è della beneficenza inutile e dannosa. Io penso con dolore a tutta quella cooperazione … fatta senza un soldo di capitale, che non ha chiesto ai soci di dimostrare col loro sacrificio l’attaccamento all’idea; che tutto aspetta dal credito dato senza limite e senza fine; io penso con terrore al pullulare di questa cooperazione di consumo che con lire 1.000 di fondo sociale pretende lire 100.000 di credito, che aspetta il primo tumulto per squagliarsi, che non ha disciplina né principi e mira solo ad avere un po’ più di zucchero e un po’ più di pane in sfregio alla tessera» (Bachi, 1920, 418).
Pullulavano cooperative, consorzi, enti i quali avevano per iscopo di associarsi allo stato nel conseguire grandiosi fini; e se i più restavano allo stato di schemi scritti sulla carta, taluno riusciva a strappare al tesoro pubblico il conferimento della quota statale e di questa vivere. Chi ha saputo mai nulla della effettiva attività del consorzio operaio metallurgico, sorto fra grandi speranze nel 1920 a Genova, composto di tredici cooperative proprietarie di opifici in varie regioni d’Italia per la produzione di materiale ferroviario e navale, di macchine agricole, di armi; il quale osò trattare seriamente, trovando, e ciò sovratutto importa, favorevole eco negli uomini di governo, per la cessione di stabilimenti militari tra i più importanti d’Italia: arsenali di Napoli e di Venezia, fabbriche d’armi di Gardone, Genova, Terni? Dietro al consorzio non esistevano uomini provveduti di capitali e di perizia tecnica ed economica; esisteva solo il proposito di ottenere fornitura di capitali dello stato, e di consumarli, a rischio di questo, in esperimenti industriali e sociali.
Il ribasso del prezzo del carbon fossile infranse subito i propositi orgogliosi del consorzio nazionale cooperativo costituito allo scopo di «esercitare l’industria della coltivazione delle miniere di lignite e della lavorazione ed utilizzazione del minerale, rilevando le miniere e cave attualmente gestite dall’industria privata e dal commissariato generale per i combustibili». Spontaneamente rievocando obliate teorie mercantilistiche, i dirigenti del consorzio invocarono l’interesse pubblico di evitare l’esportazione dell’oro e chiesero l’obbligo dell’uso della lignite per le pubbliche amministrazioni ed anche per quelle private per cui essa può sostituire il carbone. Chiesero, codesti cooperatori a spese dello stato, si sovvenisse con denaro pubblico la costruzione di centrali termo elettriche, le quali trasformassero sul luogo i combustibili prodotti da miniere male situate ed audacemente pretesero la concessione dell’esercizio delle miniere di ferro dell’isola d’Elba. Non ammaestrato dall’insuccesso dell’esperimento minerario (cfr. parag. 44 e 75), il suo propugnatore, on. Umberto Bianchi, in una mozione presentata alla camera dei deputati sosteneva che ad un razionale ed organico riordinamento della produzione e della distribuzione idro-termo-elettrica, con gli opportuni allacciamenti, le necessarie interposizioni, compensazioni ed unificazioni, non è possibile addivenire senza l’abolizione del regime industriale individualistico e la riorganizzazione dell’industria elettrica secondo un piano regolatore nazionale affidato ad un’unica azienda gestita dallo stato e dai consigli del personale e degli utenti . Volevasi sfruttare il credito dello stato a pro di organizzazioni operaie cooperative: «Si tratterebbe di espropriare simultaneamente tutte le officine termiche ed idrauliche, i bacini e i laghi artificiali, le condutture, i canali, le reti di distribuzione, insomma tutto quanto serve a generare, trasportare e distribuire la energia per qualsiasi uso, esclusi soltanto gli impianti interni e quelli non superiori a 50 HP. L’esproprio dovrebbe avvenire pagando alle società un valore d’estimo non superiore a quello figurante per le società nel bilancio del 1919 e per i privati nella dichiarazione dell’imposta patrimoniale. Il pagamento dovrebbe avvenire mediante azioni da lire 100 nominali garantite dallo stato: lo stato dovrebbe sottoscriverne per 100 milioni e il pubblico dovrebbe sottoscrivere il resto: speciali facilitazioni verrebbero concesse agli utenti. Le azioni concorrerebbero alla metà degli utili realizzati mentre un quarto si imputerebbe ad incremento del capitale per nuovi impianti e l’altro quarto sarebbe destinato al personale in compartecipazione dei profitti. L’azienda sarebbe gerita da un consiglio centrale composto da 5 operai, 3 funzionari e 3 rappresentanti degli utenti, sotto la vigilanza dello stato, con estesissime funzioni, anche di generale politica industriale. L’azienda sarebbe suddivisa in dieci compartimenti governati da un consiglio compartimentale, mentre un consiglio di fabbrica, sempre con larga partecipazione del personale, funzionerebbe presso ogni centrale ed impianto» (Bachi, 1920, 308).
Se qui, al mito della economia associata, già per rapida transazione, succedeva quello russo dei consigli operai, era invece di origine bellica un’altra grandiosa escogitazione del direttore generale della marina mercantile, comm. Gullini. Il quale, avvezzatosi a comandare invece che a curare l’osservanza di leggi, male si persuadeva dovessero essere venduti, a prezzi che nella primavera del 1920 erano ancora convenientissimi, i residui della flotta mercantile acquistata dallo stato per diritto di preda, flotta che conteneva ancora 44 unità, in prevalenza da carico, per un tonnellaggio di 227.139 D. W. C. Progettava perciò di incorporarla in una grande azienda marinara, col capitale di mezzo miliardo di lire, con partecipazione statale fino ai due quinti del capitale. Delineavasi già l’insuccesso di consimili organizzazioni straniere, sorte per esigenze di guerra, insuccesso che doveva nel 1921 condurre alla loro liquidazione. Qui il disegno fece perdere l’occasione di vendite propizie all’erario.
119. – Furono però vendute il 17 aprile 1920 cinque navi statali alla cooperativa Garibaldi. Stazzavano 25.032 tonn. di peso morto (D. W. C.) ed il prezzo stipulato fu di lire 6.272.418,25 da pagarsi all’atto della consegna, salvo a liquidare a parte il valore delle dotazioni di esercizio dei piroscafi. La cooperativa si obbligava a noleggiare per due anni i piroscafi per trasporto merci per conto dello stato o di chi per esso nei viaggi di ritorno, dietro compenso da stabilirsi volta per volta coi criteri del nolo obbligatorio, calcolando tutte le spese a carico dell’armatore ai prezzi correnti all’atto della fissazione del nolo, aumentato dell’interesse dell’8% sul prezzo di acquisto realmente pagato, nonché di una quota di lire 1,50 per tonnellata di portata e per mese per utili industriali. Il nolo non avrebbe dovuto superare i due terzi del nolo corrente durante il primo anno di noleggio e i tre quarti durante il secondo. Libera la Garibaldi di fare nel viaggio di uscita carichi a nolo libero per i porti destinati al carico di ritorno o intermedi o più vicini.
La vendita fu di favore, poiché al prezzo allora corrente sul mercato di Londra, quelle navi avrebbero potuto fruttare all’erario da 40 a 50 milioni di lire di più del prezzo versato dalla cooperativa; epperciò il contratto, sottratto alla guarentigia di pubblici incanti ed alle formalità delle vendite per legge o per decreto legge, fu stipulato a trattativa privata. Il comandante Luigi Rizzo, direttore della cooperativa, a giustificare la concessione, addusse il vantaggio di far compiere esperienza armatoriale su cosa propria alla gente di mare. L’on. Dante Ferraris, ministro per l’industria al tempo della convenzione e l’on. Perrone, sottosegretario alla marina mercantile, affermarono l’urgenza in quel momento di calmare gli animi degli equipaggi in aperta lotta con gli armatori ed il primo esclamò persino che l’articolo o patto aggiuntivo inserito nella convenzione del 17 aprile, secondo la quale la cooperativa Garibaldi, consapevole della grave crisi dei trasporti marittimi, volendo e dovendo concorrere per un rapido e migliore assetto della navigazione, s’impegna ad apportare tutto il suo contributo di opera e di spirito conciliativo alla soluzione delle contese nate e nasciture, era esuberantemente compensativo delle perdite di ogni maggior lucro economico, quale avrebbe potuto conseguirsi con la osservanza della regolare procedura per la vendita delle navi.
I desiderati effetti di pacificazione sociale non si poterono ottenere, poiché ai marinai erano garantite le paghe nella misura prescritta dai contratti in corso; ed i rischi dell’esercizio armatoriale, condotto del resto secondo la regola del rimborso delle spese da parte dello stato, cadevano non sull’equipaggio delle navi cedute, ma sul ben più numeroso corpo dei soci della cooperativa, che erano tutti gli iscritti della federazione dei lavoratori del mare. Né si ottennero di fatto. Ché se i fermi di navi mercantili ordinati dal capitano Giulietti, segretario e donno della federazione della gente di mare, dal 3 novembre 1918 al 17 aprile 1920 arrecarono all’erario un danno di 120 milioni di lire, i fermi ordinati, dopo il munifico dono pacificatore delle cinque navi, dall’aprile 1920 all’aprile 1921 inflissero, in tanto minor lasso di tempo, un danno di 130 milioni di lire. Incoraggiati dalla debolezza dello stato, i marinai, divenuti suoi associati, non si astennero da atti di rivolta e di violenza a mano armata: nel maggio 1920 tre navi russe furono invase dai federati con bombe a mano e di esse fu preso possesso in nome dell’unione marittima e fluviale del popolo russo, con gravissimo allarme del ceto armatoriale nazionale ed estero. La cessione crebbe il prestigio del Giulietti e della federazione da lui diretta, la quale poté, grazie ai contributi forzati degli armatori e della gente di mare crescere il capitale della cooperativa Garibaldi dai 7 milioni di lire dell’aprile 1920 ai 45 del 1921. Ma l’acquisto di un piccolo veliero e di un modesto piroscafo da carico fu alla costituzione del naviglio nazionale contributo del tutto inadeguato a quella larghezza di mezzi, rimasti a disposizione dell’azione politica della federazione, rivolta alla conquista dello stato.
4- Assalti di industriali al denaro pubblico
120. Come il mito dell’economia associata sia stato, più che dai cooperatori, sfruttato da taluni gruppi industriali. – 121. Il rapido accrescimento dell’industria pesante nel dopoguerra: collegamenti, concentramenti, programmi grandiosi nei gruppi Ilva, Ansaldo ed altri. – 122. La reazione dei minori industriali e quella, più potente, del rivoltarsi del ciclo economico nel 1921. La ruina dell’Ilva. – 123. I ripetuti assalti alle banche; e la caduta dell’Ansaldo e della Banca Italiana di Sconto. – 124. Il salvataggio dei depositanti dei banchi a spese dell’erario. Origini antiche e maniere persistenti degli interventi statali a pro delle industrie e delle banche pesanti. – 125. Il sogno di un ministro navigante e il memoriale degli industriali siderurgici.
120. – Il mito dell’associazione fra cooperative enti pubblici consorzi di industriali e stato svaniva nel tumulto della lotta bandita dagli organizzatori degli operai e contadini per la conquista non solo dello stato, ma anche della fabbrica e della terra. Ma, prima di dire di questa lotta, giova dire come non i soli cooperatori movessero all’arrembaggio della cosa pubblica. In quel tumultuoso arraffa arraffa, i gruppi della nuova gente arricchita e i dirigenti delle industrie sorte ed ingigantite durante la guerra, non si erano dimostrati meno esperti nell’associare la fortuna dello stato ai propri rischi.
121. – Primi fra gli industriali a porsi su questa via furono quelli dell’industria pesante; perché più che altri essi avevano bisogno dell’aiuto dello stato a causa delle condizioni economiche e tecniche poco propizie in che operavano (cfr. parag. 32 e 121). Destavano preoccupazione i grossi investimenti fissi che essi facevano. Il direttore generale della Banca d’Italia nel segnalare all’assemblea del 1917 la creazione di nuovi alti forni notava che «molti, non senza fondamento di ragione, si chiedono se vi saranno poi il minerale sufficiente ad alimentarli ed il combustibile occorrente a tenerli accesi»[iii]. Il minerale si cercava in località impervie, riattivando la coltivazione delle miniere di Cogne «malgrado la infelicissima loro posizione», o costituendo la società della Nurra in Sardegna, la quale per la sua ricchezza avrebbe dovuto diventare la fornitrice della Piombino e dell’Ilva; o si tornava a coltivare abbandonate miniere di Val Trompia e di Valle Camonica. (Bachi, 1916, 172). Le imprese esercenti miniere, alti forni, ferriere ed acciaierie si fondono e si associano allo scopo desiderato ed arduo di ridurre i costi. Il vecchio consorzio facente capo all’Ilva, grazie ai guadagni delle forniture di guerra si rinsalda e si rinnova sino al 1930; l’Ilva gerisce gli stabilimenti delle società consorziate non più come mandante, ma come affittuaria e con maggiore, libertà nella gestione. (Bachi, 1916, 177).
Continuando la guerra, la tendenza al concentramento si afferma, svolgendosi nel senso della «integrazione economica» del minerale sino alla macchina od alla nave. «Così il gruppo siderurgico dell’Ilva collega aziende e controlla società svariate in guisa da abbracciare nel circuito delle sue opere non solo le miniere del ferro e le operazioni strettamente siderurgiche, ma anche la produzione del combustibile, del materiale refrattario, di taluni materiali speciali, e poi via via le elaborazioni successive del ferro, l’opera meccanica, l’allestimento delle navi e l’esercizio della navigazione». Del pari «il nucleo dell’Ansaldo, inizialmente volto in modo specifico all’opera meccanica, si è venuto estendendo e facendo ognora più complesso; esso ha esteso bensì l’opera meccanica nella costruzione di artiglierie, di materiale ferroviario, navale ed aeronautico, di macchine elettriche, utensili ed agricole; ma ha collegato in un unico organismo anche l’esercizio minerario e mineralurgico, varii rami di metallurgia, la produzione di speciali materiali da costruzione e refrattari; ed, attraverso organismi solo apparentemente distinti, controlla l’esercizio della navigazione, ed altre attività economiche».
Nel Piemonte la Fiat assorbe imprese metallurgiche e meccaniche. (Bachi, 1917, 122).
Nel 1918, il sindacato siderurgico costituito sotto gli auspici dell’Ilva si rafforza. Non più soltanto mandato di gerire affidato all’Ilva, ma fusione delle quattro società Ilva, Siderurgica di Savona, Ferriere italiane e Ligure metallurgica, con atto 11 luglio 1918, in un’unica compagnia che fu denominata, con titolo altisonante «Ilva, alti forni ed acciaierie d’Italia», con capitale di 300.000.000. Il paese non era ancora abituato alle cifre di parecchie centinaia di milioni, che sembravano privilegio delle grandi banche e delle compagnie ferroviarie; ma il programma grandioso le esigeva. «Mentre ha intensificato la produzione siderurgica di più generale interesse militare, l’Ilva ha esteso nel 1918 le sue costruzioni navali sia a Piombino che a Bagnoli; ha aumentato la potenzialità ed i compiti delle sue officine meccaniche nei proprii stabilimenti siderurgici ed allargata la ingerenza in società meccaniche, specialmente in quelle producenti materiale ferroviario; accanto all’esercizio delle proprie miniere di ferro e di manganese ha assunto e cresciuto l’ingerenza di varie società minerarie specialmente lignitifere; ha integrato le proprie aziende di costruzioni navali con la costituzione di una speciale società di navigazione, il Lloyd mediterraneo, cui ha affidato il proprio naviglio e di cui malgrado la rilevanza del capitale (100.000.000) serba pieno il controllo; e svariate partecipazioni ha creato ed esteso in molteplici società elettriche, elettromeccaniche, produttrici di materiale refrattario» (Bachi, 1918, 140).
L’Ansaldo persegue ideale ugualmente grandioso. Il capitale che nel 1916 stava sulla cifra relativamente modesta di 30.000.000 di lire, nel 1917 fu elevato a 100.000.000 e nel 1918 a 500.000.000, oltre a 100.000.000 di obbligazioni. Ancora nel 1930, un biografo dei fratelli Perrone, eredi e continuatori della vecchia impresa ligure, delineava ammirato il quadro della loro multiforme attività. Alla base la miniera di Cogne, per sfruttare la quale era stata ideata la galleria del Drinc già perforata nel 1921 per ml. 4.434,1 su un totale di 6.032,9. Il minerale di Cogne doveva essere sfruttato coll’aiuto dell’antracite di La Thuile, pure nell’alta valle di Aosta e doveva negli alti forni e nell’acciaieria elettrica di Aosta essere trasformata prima in ghisa e poi in acciai speciali atti alle più delicate applicazioni della meccanica e dell’artiglieria. Erano ideate derivazioni elettriche nella stessa valle per produrre i 100.000 cavalli necessari al fabbisogno degli stabilimenti di Aosta ed all’esercizio della ferrovia del Monte Bianco, concepita come chiave di volta della linea ferroviaria europea del quarantacinquesimo parallelo. Padrona della società idroelettrica Negri, la Ansaldo possedeva una vasta rete di distribuzione coprente gran parte del Piemonte e tutta la Liguria e collegata colla Lombardia, l’Emilia e la Toscana; e si proponeva di utilizzare a prezzo di costo l’energia per i propri stabilimenti liguri, di cederla a prezzo conveniente per usi pubblici, privati ed industriali delle regioni servite ed attuare un sistema di compensi fra il regime idrico delle Alpi e quello degli Appennini. Con propria flotta da carico importava carbone, ed a ridurre il costo del trasporto esportava merci nazionali nei viaggi di uscita; con una piccola flotta di navi cisterne e di depositi natanti il petrolio. Le acciaierie di Cornigliano ligure, appoggiate al minerale di Cogne, all’energia elettrica dei propri sistemi, al carbone ed al petrolio della propria importazione, volevano realizzare un ciclo finito di produzione rispetto a 500.000 tonnellate annue di ghisa ed acciaio, cedendo poi i semi lavorati prodotti allo stabilimento meccanico di Sampierdarena, ai cantieri navali di Sestri Ponente e di Muggiano nel golfo della Spezia, allo stabilimento della Polcevera per la fabbricazione dei corpi di caldaie per altissime pressioni, di tubi per condotte forzate, di chassis stampati per automobili e carrozzerie, al tubificio di Fagino per tubi atti a caldaie ad alta pressione, ad aeroplani, a biciclette, ad artiglierie, ai due proiettifici della Fiumara e di Sestri Ponente, allo stabilimento della Vittoria per materiali telefonici, alla fabbrica di vetture automobili Ansaldo, al cantiere Pomilio di Torino per la produzione di aeroplani. Svariate partecipazioni, al capitale della società per la dinamite Nobel di Avigliana, allo stabilimento di mattoni refrattari in quel di Stazzano (Novi Ligure), a due compagnie di navigazione, specie fra l’Italia e i paesi del centro America e della costa americana del Pacifico, avrebbero integrata l’opera del complesso creato dalla immaginazione e dalla attività dei capi dell’Ansaldo[iv].
Se questi, orgogliosamente, partecipano solo ad imprese di cui possono dirsi padroni, il groviglio dei rapporti di interesse fra gli altri grandi gruppi dell’industria pesante diventa inestricabile. «Nel 1919 l’Elba segnala già estese interessenze nell’Ilva e nella Terni; l’Ilva ha un intreccio tale di partecipazioni e di interessenze in imprese minerarie, metallurgiche, meccaniche, elettriche, marittime, bancarie, che ne sarebbe lunga assai la enumerazione: è notevole sovratutto la partecipazione della Magona d’Italia, Tubi Togni, Miani e Silvestri, officine navali di Napoli, officine Reggiane, officine meccaniche di Arezzo, officine di Battaglia, officine di Treviso, Fiat e Isotta Fraschini, Nurra (lignite e torba), Valdarno (miniere). Notevole anche la costituzione della Armstrong Ilva per la gestione delle officine di Pozzuoli per grossi macchinari» (Bachi, 1919, 181).
I minori seguono le orme dei colossi. La società italiana Breda per costruzioni meccaniche ha installato acciaierie con forni elettrici e forni Martin per provvedere direttamente il materiale necessario per la produzione, in tempo di guerra, dei proiettili e dopo dei profilati adatti a costruzioni meccaniche e civili ed ha organizzato pure la fonderia di ghisa, bronzo, leghe ed acciai speciali, ha impiantato officine ed altri apprestamenti per la costruzione degli aeroplani; per provvedere l’energia elettrica necessaria alla attività delle varie officine e dei forni elettrici, anziché ricorrere alle imprese produttrici, ha costruito un grande impianto idroelettrico nella valle di Gressoney. (Bachi, 1918, 141). La Terni svolge nel 1919 un vasto programma di impianti elettrosiderurgici; partecipa ad un consorzio per assicurare al capitale italiano lo stabilimento siderurgico di Servola e concorre all’acquisto da una società ungherese dei cantieri navali di Fiume. (Bachi, 1919, 181).
122. – I minori industriali si impauriscono di fronte alla tendenza crescente, alla quale l’armistizio sembrava dare impulso invece che porre freno, verso grandiose formazioni industriali; ed a Milano si costituiscono nel gennaio 1919 l’unione meccanica metallurgica nazionale, la quale si propone, fra l’altro «di resistere ai fenomeni dell’assorbimento e dello sfruttamento degli stabilimenti da parte di ditte che tendono al monopolio dell’industria e così all’eliminazione delle iniziative personali» (Bachi, 1919, 181).
Giovò, a chiarire la situazione, più che la resistenza altrui, la debolezza intrinseca ai colossi medesimi. I quali avevano tratto in parte origine dalla convenienza di impiegare in grossi impianti i grossi guadagni di guerra così da sottrarli alle imposizioni confiscatrici (cfr. sopra parag. 106), sicché poco si badava a conti precisi di costi e di ricavi.
Il fare grandioso, lo spendere senza contare, dalle pubbliche amministrazioni si era esteso non solo alle cooperative operaie sussidiate dallo stato, ma anche agli industriali. Laddove le cooperative contavano a milioni, i grandi complessi industriali a centinaia di milioni. Se la urgenza giustificava gli errori economici del tempo di guerra, la continuazione dei medesimi errori, oltreché dal desiderio, legalmente lecito, di salvare dalla confisca i guadagni di guerra, è chiarita dall’innesto del veleno speculativo sul tronco del lavoro industriale. La grandiosità delle integrazioni industriali mirava più alla rapida fabbricazione di carte valori da mettere sul mercato a prezzi rimuneratori per i gruppi dirigenti che alla edificazione, necessariamente lenta e graduale, di un solido edificio produttivo.
Meravigliosamente rapida era stata, tra il 1918 ed il 1920, l’ascesa; rapidissima fu la caduta, non appena, nel 1921, la curva del ciclo economico volge all’ingiù. Muta il linguaggio del cronista e da epico si fa severamente sentenzioso: «L’Ilva è l’esponente massimo di questa rumorosa industria a base borsistica ricercante obliqui profitti in speculazioni finanziarie … Mediante un vastissimo intreccio di partecipazioni, ha organizzato un enorme aggregato di società anonime raccogliente un capitale nominale di molte centinaia di milioni, sindacando orizzontalmente e verticalmente un gran numero di imprese minerarie, siderurgiche, meccaniche, navali, marittime, finanziarie. Nel gruppo prevalgono l’Ilva, l’Elba, il Lloyd mediterraneo e la Società generale per lo sviluppo delle industrie minerarie siderurgiche. I grossi capitali di queste e di altre società sono in parte semplici parvenze, poiché fra le società, al momento della costituzione o dell’ampliamento, sono avvenuti scambi di grossi pacchi di azioni: fittizi valori di azioni di società sorelle, quasi sempre non quotate in borsa, hanno figurato attraverso gli anni nei bilanci contribuendo alla formazione degli utili. La crisi della siderurgia ha fatto rovinare il «castello di carta». Due bilanci presentati a distanza di poco più di un mese l’uno dall’altro segnano il rovesciamento della situazione. All’assemblea degli azionisti del 25 marzo 1921 l’amministrazione dell’Ilva dichiara un utile di 8 milioni di lire ed una situazione «patrimoniale saldissima» Le ingenti passività «trovano la loro larga compensazione nelle merci, nelle materie prime, nei titoli di proprietà, nelle partecipazioni industriali, minerarie, di navigazione, nei lavori pubblici, nei crediti, nei depositi a cauzione; mentre si può dire che i terreni, i fabbricati, le concessioni, i macchinari, le attrezzature ed i cantieri, anche valutati a prezzi di liquidazione, bastano a fronteggiare il capitale sociale e di gran lunga lo superano, se ai nostri stabilimenti si attribuisca il loro valore industriale e cioè se si presupponga … che la vita della società e l’esercizio dei suoi stabilimenti continuino a svolgersi in condizioni normali».
Ai primi di maggio, ad un’assemblea straordinaria si annuncia che, in seguito a più rigorosi accertamenti sulla consistenza reale delle attività e delle passività, si era dovuto riconoscere che non solo tutto il capitale di 300 milioni di lire doveva considerarsi perduto, ma che forse altri 125 milioni dovevano essere depennati per le necessarie svalutazioni degli impianti, delle merci e specialmente dei titoli (Bachi, 1920, 218-19). La liquidazione, a stento compiuta nel 1921 e nella prima metà del 1922, conduce a cedere tutta la organizzazione industriale e commerciale dell’Ilva ai creditori, radunati in una «società esercizi siderurgici e metallurgici» per la non cospicua somma di 15 milioni di lire.
123. – Altrettanto rumorosa, ma più contrastata, fu la ruina, avvenuta poco dopo, dell’Ansaldo. Come essa abbia trascinato con sé una grande banca ed inflitto gravissimi oneri al pubblico erario, è vicenda degna di essere brevemente tratteggiata. Già nel 1918 si era svolto, dinnanzi ad un pubblico reso attento da polemiche giornalistiche, un intenso lavorio per capovolgere i rapporti normali fra banche ed industrie. Se bene o male fosse che le banche italiane sovvenissero, con aperture permanenti di credito, o con acquisto di azioni, la costituzione di molte e della più parte delle maggiori società anonime italiane; se utilmente i fiduciari delle banche creditrici entrassero nei consigli di amministrazione delle società industriali debitrici per sorvegliarne l’andamento; se ciò non rendesse l’industria talora mancipia delle banche, interessate a realizzare con profitto le azioni di portafoglio; e se queste fossero caratteristiche della formazione industriale nostra, per la repugnanza dei risparmiatori ad acquistare azioni cui non erano avvezzi, o verso cui passate esperienze li avevano resi diffidenti, è grosso problema discusso fin da prima della guerra e che ancora oggi si discute. Negli ultimi tempi di guerra, talun grosso debitore di banche pensò di acquistare così grossa parte delle azioni di esse, da averne a propria discrezione i dirigenti. Fra l’Ansaldo e la Banca Italiana di Sconto, fra la Fiat ed il Credito Italiano, fra l’Ilva e la società semi finanziaria delle ferrovie meridionali si tendeva a creare un nuovo rapporto per cui i clienti sarebbero divenuti padroni dei depositi accumulati da centinaia di migliaia di correntisti e di risparmiatori. L’opinione pubblica guardò subito con scarsa simpatia a questi tentativi «di dominazione delle banche da parte dei clienti delle banche stesse. Industriali e commercianti sono i dirigenti meno adatti delle banche … I clienti industriali, i quali debbono comprare il credito, non debbono fissarne essi stessi il prezzo e le modalità … I depositi si rifugierebbero esclusivamente nelle casse di risparmio e nelle banche popolari, che sono mirabili istituzioni, e in fondo compiono in Italia gran parte degli uffici bancari; ma non possono supplire a tutte le funzioni per cui il credito ordinario è utile, anzi indispensabile» (C.d.S. n. 155 del 4 giugno 1918).
Per quell’anno i tentativi degli industriali di impadronirsi delle banche non riuscirono; ed anzi le banche poterono, sotto gli auspici del ministro del tesoro, on. Nitti, riunirsi, in principio di luglio, in un cartello, col quale, pur rimanendo integra l’assoluta indipendenza di opere e di direttive di ciascun istituto, i quattro istituti – Banca commerciale italiana, Credito italiano, Banca italiana di sconto, Banco di Roma – dovevano per tutta la durata della guerra e nei due anni successivi, esaminare insieme le condizioni praticate per le principali operazioni bancarie, fissare i limiti comuni più favorevoli alla clientela per le aperture di credito, per le anticipazioni, per i conti correnti, per i mutui di rilevante importanza e di interesse generale del paese, per i prestiti ad enti pubblici. Fra i due pericoli, della dominazione dei grossi clienti sulla banca e del rafforzamento della situazione monopolistica delle banche, quest’ultimo era apparso il minore, attenuato, come era, dalla concorrenza di numerose, vivaci, indipendenti istituzioni regionali e locali di risparmio e di credito popolare. Il Bachi efficacemente descrive quanto fosse sullo scorcio della guerra il potere delle quattro grandi banche: «Esse sono onnipresenti, in ogni zona dell’economia italiana; stanno dietro ad ogni azienda, a ogni impresa, ad ogni speculazione. Ora, più che mai in passato, gli azionisti, i depositanti, i clienti delle quattro banche sono inconsciamente soci di una serie svariatissima di aziende … Il quadrumvirato bancario ha acquistato un potere economico e politico assai maggiore di quello che possedeva il corrispondente nucleo di organismi esistente prima della guerra, soverchiando oramai gli istituti di emissione nella funzione direttiva del giro creditizio; questo accresciuto potere potrà divenire un pericolo, se gli uomini che presiedono a queste banche non avranno la piena coscienza della terribile responsabilità che loro incombe nello svolgimento della vita nazionale. Dietro alla parvenza della società anonima e al di sopra della inerta massa dei piccoli azionisti sta la ristretta brigata dei pochi grandi finanzieri e dei pochi grandi industriali, i quali tengono di fatto il potere nelle quattro grandi banche, e direttamente o attraverso delegati, detengono anche il potere nella immensa schiera delle società industriali, mercantili, marittime, che costituiscono la clientela delle banche e che a queste si connettono» (Bachi, 1920, 66).
Se l’accordo del 1918 fra il gruppo Perrone, dominatore della società Ansaldo ed il gruppo detto Marsaglia, costituito dagli amministratori della Banca commerciale, tenacemente decisi a sostenere la propria indipendenza, aveva condotto a vincolare le azioni rispettivamente possedute; risorti i dissensi, un altro vivacissimo assalto si pronuncia nel marzo 1920 per la conquista della Banca commerciale, per mezzo di affannosi acquisti in borsa di azioni intesi a costituire una maggioranza in balia del gruppo Perrone.
Le quotazioni, iniziate a 1255, furono spinte durante il mese con rapidissimi sbalzi a 2450. Era imminente l’assemblea della banca, nella quale si doveva decidere chi fosse il dominatore del consiglio; e per acquistare, innanzi al 19 marzo, ultimo giorno utile per il deposito delle azioni, l’immediata disponibilità delle azioni fluttuanti o non già controllate dalle due parti, il gruppo Perrone non solo acquistava a prezzi crescenti, ma, esercitando il diritto di sconto, chiedeva l’immediata consegna dei titoli acquistati a fine mese, costringendo i venditori, che non le possedevano pronte, a farne ricerca a qualunque prezzo. Chiusa la lotta l’11 marzo, con un nuovo accordo fra i gruppi di vincolo sulle azioni rispettivamente detenute, le quotazioni precipitano subito a 1270 ed il gruppo Perrone, fallito il tentativo, cede le sue azioni ad un «Consorzio mobiliare finanziario», costituito con 150 milioni di capitale, da amici dei consiglieri e dirigenti della banca per assicurare ad essi la stabile padronanza delle assemblee. L’esempio fu imitato dal Credito italiano; sicché gli assalti contro le banche riuscirono invece a rafforzare l’egemonia di quei ristretti nuclei di finanzieri i quali ne erano a capo.
L’insuccesso del tentativo due volte ripetuto di catturare il maggiore degli istituti privati di credito costrinse l’Ansaldo a cercare altrove i mezzi necessari per sovvenire al suo grandioso programma. Non era bastato l’aumento nell’estate del 1918 del capitale sociale da 100 a 500 milioni di lire. L’emissione, al corso di 290, di azioni da 250 lire nominali era stata favorita dalla necessaria approvazione ministeriale, la quale fece credere (cfr. sopra parag. 103) si trattasse quasi, come suonò una propaganda vistosa, di prestito patriottico o nazionale. Sopravvenuto l’armistizio, l’Ansaldo dovette sempre più appoggiarsi alla Banca italiana di sconto. Fondata alla fine del 1914 col modesto capitale di 15 milioni di lire, presto recato nel luglio 1915 a 65 milioni, mercé l’assorbimento della Società bancaria italiana, a sua volta originata da istituti milanesi e torinesi contrastati, taluno di essi, come il Banco Sconto e Sete, da travagliose vicende, e dalla Società di credito provinciale, sorta da modeste origini in Busto Arsizio. Posta, quasi ad accentuare i suoi rapporti con lo stato, la sede centrale nella capitale, sotto la guida del Pogliani, il capitale rapidamente crebbe il 30 settembre 1915 a 70, il 16 aprile 1917 a 115, il 27 gennaio a 180 e il 12 marzo 1919 a 315 milioni di lire. Il programma superbo la spinse a contrapporsi, con affermazioni nazionalistiche, contro l’asserita influenza straniera degli altri istituti, a fare operazioni, più che di sconti a solide imprese per normale giro di affari, di anticipazioni su vasta scala ad imprese belliche. Divennero sopratutto stretti i rapporti con l’Ansaldo, che ne trasse i mezzi per la sua infrenata ascensione. A procacciarsi fondi, la banca moltiplicava le sedi, le filiali e le succursali anche in luoghi di scarsa importanza, raccogliendo depositi in denaro ed in titoli, giunti nella situazione al 31 dicembre 1921, compilata dopo la catastrofe, a ben 770 milioni di lire. Di mese in mese la situazione della banca si fece lungo il 1920 ed il 1921 più pesante. Invano il 24 novembre 1921 gli istituti di emissione, la Banca commerciale italiana, il Credito italiano ed il Banco di Roma – quest’ultimo anch’esso imbarazzato da grandiose espansioni italiane ed estere e costretto a procacciarsi fondi in ogni maniera, fra cui al 31 dicembre 1921 vistosi in 708 milioni di lire i depositi di titoli in conto corrente – misero a disposizione della banca 600 milioni di lire mercé il risconto di cambiali di portafoglio e di crediti accettabili. «Le operazioni di sovvenzione», narra lo Stringher nella relazione all’assemblea degli azionisti della Banca d’Italia del 1921, «furono iniziate il 29 novembre e si susseguirono, con brevi intervalli, fino a raggiungere il 19 dicembre il primo limite di 300 milioni. Ma poi le richieste della banca, motivate da affrettati e rilevanti ritiri dai conti correnti all’interno ed all’estero, da disdette di conti correnti in titoli e dal pagamento di assegni circolari, si ripeterono con più assillante frequenza e per cifre sempre più considerevoli, tanto da lasciar prevedere che il limite dei 600 milioni sarebbe stato in brevi giorni raggiunto e che una tal somma sarebbe stata insufficiente a fronteggiare la situazione che si era andata delineando in maniera impressionante. La corsa agli sportelli, che avrebbe dovuto essere rallentata dalla prontezza con la quale i mezzi occorrenti per corrispondere alle prime richieste di ritiri erano stati forniti alla Banca di sconto, divenne invece più affannosa, tanto che gli istituti, avendo le sovvenzioni concesse di già raggiunto i 424 milioni, non ritennero prudente di concederne altre. In tutti si era fatto il convincimento che l’ulteriore aiuto, tenuto in giusti confini, non avrebbe raggiunto lo scopo di evitare la sospensione dei pagamenti»[v].
Crollate in ottobre le quotazioni delle azioni dell’Ansaldo a 110 e in novembre a 54, e di quelle dell’Ilva a 30 ed a 10, le azioni della Banca di sconto furono tenute ferme a 517, per l’attivo intervento della banca medesima, la quale le faceva acquistare dalla Banca italo caucasica, sua creatura. La situazione, per il dilagare del panico anche nei centri minori, si fece insostenibile quando, verso il 20 dicembre, gli altri istituti di credito cominciarono a rifiutare il pagamento degli assegni emessi dalla Banca di sconto; rifiuto motivato da ciò che la Sconto, in quegli estremi momenti, aveva adottato l’espediente di emettere copiosi assegni non su richiesta di fondi per operazioni effettive, ma per farli riscuotere da propri mandatari presso altre banche, spesso in altre località e così ottenere attraverso una rotazione a ciclo di un giorno la disponibilità di mezzi. Chiedevasi da ogni parte che lo stato intervenisse per il salvataggio della banca; ma il governo presieduto dall’on. Bonomi – ministro dell’industria l’on. Bellotti – rifiutò, allora e poi, osservando che lo stato, da qualunque governo esso sia rappresentato, può soltanto agevolare il superamento della grave crisi bancaria, con provvedimenti già in gran parte adottati; ma non può né potrà mai né compromettere l’esistenza degli istituti di emissione, né trasferire sui contribuenti italiani le perdite di un’azienda privata. Una siffatta assurda pretesa, qualora fosse accolta, susciterebbe i comizi di protesta di tutti i contribuenti italiani» (Bachi, 1921, 73). Si preferì risuscitare, per gli istituti di credito, il cui capitale non fosse inferiore ai 5 milioni di lire, l’abolito istituto della moratoria quando fosse stato possibile provare che la cessazione dei pagamenti era la conseguenza di avvenimenti straordinari e impreveduti o altrimenti scusabili o esistano evidenti ragioni di interesse della massa creditoria (R.D. 29 dicembre 1921). Nel giorno stesso della pubblicazione del decreto, la banca chiese la moratoria e, in attesa, sospese i pagamenti.
124. – Come, con immediata sentenza, la moratoria sia stata concessa, ed abbia traversato diverse fasi; come, in seguito alla viva agitazione degli interessati, le percentuali di riparto siano state elevate al 67 per cento per i creditori di importi inferiori alle 5000 lire ed al 62 per cento per quelli di importi superiori; come, nell’urgenza di procedere ai primi riparti, siano state concesse sino a concorrenza di 1 miliardo di lire anticipazioni dal Consorzio per sovvenzioni su valori industriali; e come ad indennizzare il consorzio, ossia gli istituti di emissione, per le presumibili perdite, lo stato abbia rinunciato ad imposte sulla circolazione cartacea ed a quote di utili sulle emissioni di biglietti, è storia di vicende fortunose, le quali non potevano avere altra conclusione. Che l’argomento del pubblico interesse sarebbe stato invocato a giustificare sacrifici dell’erario, i quali giunsero per la liquidazione delle perdite della Banca di sconto e di quelle del Banco di Roma ad un totale di più di 4 miliardi di lire, si poteva agevolmente prevedere. Si coglievano i frutti di antichi incitamenti e di responsabilità morali via via assunte dallo stato. Nel maggio del 1911 un ministro invitava le banche «a dare opera, senza intenti sopraffattori dell’industria, ad aiutarla a superare l’ora difficile e ad evitare rovine che sarebbero difficilmente riparabili, per la distruzione di ricchezze che rappresenterebbero e per la pubblica sfiducia che ingenerebbero nelle imprese industriali». All’ombra delle preoccupazioni politiche degli uomini di governo prosperavano i filibustieri delle finanze e, lasciando le briciole agli untorelli della cooperazione sussidiata, si dichiaravano associati dello stato, ora che si trattava di accollargli perdite di centinaia di milioni e di miliardi di lire. Quel medesimo gruppo siderurgico, il quale già nel 1911 era stato salvato grazie ad un mutuo di 100 milioni degli istituti di emissione, rimborsato poi con utili bellici, si ritrovò nel 1921 nelle stesse distrette, e nuovamente corsero contro i suoi dirigenti voci di scarico nei portafogli delle società di titoli a prezzi ben superiori alla reale consistenza. Da questi dirigenti partivano difese accalorate del sistema di mutuo aiuto fra lo stato e l’industria. Costoro «sarebbero quelli che fondano giornali, ne comprano altri e vorrebbero far sorgere, accanto ad una catena di persone prone ai loro disegni, una catena di giornali disposti ad ammaestrare il pubblico intorno alla convenienza di seguire una data politica doganale fiscale bancaria utile ai loro interessi» (C.d.S., n. 110 dell’8 maggio 1921). Nell’occasione della catastrofe di una grande impresa marittima, il Lloyd mediterraneo, strettamente legato ai gruppi di cui sopra si discorse, gli amministratori, dopo essere riusciti, dal 14 marzo del 1918 al 30 giugno del 1921, a distruggere 100 milioni di capitale azionario ed a far restare la società debitrice di 244 milioni di lire, contro 84 milioni di incerte attività, chiedevano aiuti al governo, pretestando crisi di noli e responsabilità di governo per il disastro di cui essi erano causa. (C.d.S., n. 89 del 14 aprile 1922).
A salvare le imprese pericolanti, si moltiplicano le richieste di aiuto statale. Nella primavera del 1922, quando vengono al pettine i nodi delle fantasmagorie postbelliche, di quelle richieste son pieni i giornali. Si chiedono anticipi sulle indennità dovute ai cantieri di guerra o sovvenzioni all’industria solfifera per non mettere sul lastrico migliaia di picconieri. Piccole cose, il cui danno, di poche decine di milioni di lire, si sarebbe limitato alla costruzione di qualche nave aggiunta a quelle già in crisi od a più forte accumulazione di zolfo invenduto. I liquidatori dell’Ansaldo pretendevano il condono di 400 milioni di lire di imposte sui sopraprofitti di guerra, quando lo stato faceva fallire per il mancato pagamento di una rata della stessa imposta centinaia di piccoli industriali e negozianti, di null’altro colpevoli se non di non aver liquidato l’impresa innanzi al tracollo dei prezzi. A salvare gli stabilimenti di Piombino, di Savona e gli altri affiliati all’Ilva dalla rovina in che erano caduti per la megalomania dei loro dirigenti, un disegno di legge propose di spendere in un quinquennio 1750 milioni, 350 all’anno, per materiale ferroviario; ed un primo contratto per la fornitura di 25 mila tonnellate di rotaie si assevera imposto dall’autorità politica all’amministrazione delle ferrovie dello stato ad un prezzo che supera quello offerto da concorrenti esteri per lire 400 la tonnellata. (Bachi, 1920, 210). Di fronte alle conseguenze del principio di chiamare lo stato a collaborare con l’industria ed a contribuire, con alti prezzi di fornitura o con sussidi, ai costi degli errori di questa, impallidiscono le esorbitanze dei cooperatori e dei leghisti rossi, se pure anch’essi decisi all’assalto della pubblica pecunia.
Non è corretto, esclama un osservatore contemporaneo, attribuire ai rossi tutto il disavanzo crescente delle ferrovie: «Disavanzi e alte tariffe vengono anche dai costi esorbitanti per i prezzi di favore pagati per il materiale di impianto a favore della siderurgia … e non solo dalle otto ore dei ferrovieri applicate in modo da favorire l’ozio. Non è onesto gridare contro l’indisciplina e la sovrabbondanza dei ferrovieri, quando si chiede allo stato di pagare rotaie, locomotive, carri e carrozze il 25 ed il 50% di più di quello che valgono sul mercato libero internazionale» (C.d.S., n. 72 del 18 aprile 1922).
125. – L’alleanza tra erario ed industria conduce all’estremo la politica dei sussidi pagati a carico dei contribuenti e cresce le pretese crescenti degli industriali volentieri associati a chi paga i sussidi. Quando già le sovvenzioni statali alla navigazione erano salite dai 36 milioni pagati nell’anteguerra dall’Italia e dall’impero austro ungarico insieme, ai 257 milioni pagati dall’Italia sola (parag. 49, 77, 78) un ministro, intervistato mentre verso la fine del giugno 1922 si reca su di una cacciatorpediniera da Amalfi a Napoli, rimpiangeva forte i tempi nei quali l’Italia possedeva gruppi di linee di peculiare importanza, quelle delI’Egitto, del Levante e del Mar Nero, delle Indie, linee per le quali «per il passato abbiamo tenuto un indiscusso primato, ad onta di tutte le concorrenze». Ma, invece di augurare che gli armatori italiani di nuovo sapessero reggere da soli alla concorrenza estera nei mari lontani, il ministro precisava: «Alla linea celere d’Egitto è adibita l’Esperia, di cui ogni viaggio rappresenta per lo stato l’erogazione di 1 milione per sovvenzione. Ciò è doloroso; ma come sopprimere l’Esperia, che è la più bella e celere nave del Mediterraneo, e che compagnie estere vorrebbero anche acquistare? Come trascurare i servizi celeri delle Indie, dove da anni non mandiamo che navi inadatte al traffico dei passeggeri, quando in quei porti rimane ancor vivo il ricordo ventennale dei celebri Balduino e Rubattino? Come sorvolare sugli interessi delle nostre floride colonie del Levante, oppure non pensare a ripristinare il servizio celere fra Brindisi e Costantinopoli, attraverso il canale di Corinto?» Con la spesa di 708 milioni all’anno di sovvenzioni e compensi diversi di costruzione ed ammortamento, non si fa ancora abbastanza. Occorre «costituire due gruppi, di cui uno faccia capo a Genova, Napoli e Palermo e l’altro a Venezia, Trieste e Bari. Bisogna che le navi dei due gruppi tocchino tutti i porti dei due mari. Linee per tutti gli scopi ci devono essere: linee passeggeri, linee miste, linee agrumarie.
Le fermate debbono essere più numerose d’ora; quelle che ora sono facoltative devono diventare obbligatorie. Quando questo ideale sarà raggiunto ed ogni rada o porto o scalo della penisola avrà un approdo almeno bisettimanale, tutti saranno contenti». Se si pensa che i soli 708 milioni già spesi per sovvenire la navigazione, sebbene tanto inferiori a quelli prognosticati nello slancio della immaginazione esaltata del ministro navigante, uguagliavano quasi i sette decimi del provento dell’imposta di ricchezza mobile per ruoli, il doppio del provento del bollo, più del doppio dell’imposta di successione, il quintuplo della tassa sul sale (C.d.S., n. 156 dell’1 luglio 1922), quale meraviglia che il baratro del disavanzo nel bilancio dello stato apparisse incolmabile?
Indice della mentalità statalistica di alcuni gruppi industriali fu un memoriale dei siderurgici al governo il quale asseriva[vi] necessaria, per lavorare senza perdita, una di queste soluzioni: o proibire addirittura per almeno due anni la concorrenza straniera per taluni generi di ferro, oppure concedere alle fabbriche il carbone al prezzo a cui lo ricevevano gli industriali francesi, ossia, al cambio corrente, a circa 280 lire la tonnellata, pagando lo stato la differenza; il che al prezzo medio di 700 lire la tonnellata e dato un consumo di 2 milioni di tonnellate annue, rappresentava un onere di oltre 800 milioni di lire. Ambe le soluzioni rispondevano alla nota mentalità dei gruppi industriali siderurgici e spiegano come fosse in quello scorcio del dicembre 1920 diffusa la voce di un accordo fra industriali e governo per tenere in piedi l’industria e ovviare alla minaccia della disoccupazione mercé larghe aperture di credito da parte degli istituti di emissione[vii]. Non v’ha differenza sostanziale fra la mentalità degli industriali ai quali l’aiuto statale a spese dei contribuenti appare ovvio e quella dei cooperatori ai quali appare altrettanto ovvia la cessione di navi sottoprezzo o l’altra dei politici e degli scrittori i quali traevano dalla paura dello sfavor popolare o da dottrinarie disquisizioni sulla capacità contributiva argomenti a patrocinare la continuazione della vendita del pane a sottocosto. Indarno qualche grande industriale incomincia ad intuire la urgenza di scindere la causa dell’industria sana dalle sorti di quelle che egli chiamava «pecore rognose». Indarno si faceva appello alla grande maggioranza degli industriali «per nove decimi sani ed onesti … con grandi benemerenze di lavoro, di iniziativa, di costruttività». La maggioranza, laboriosa, ma passiva ed ignara, lasciava che i facinorosi ed i furbi andassero all’arrembaggio della nave che portava la fortuna dello stato.
Assente del pari la maggioranza della gente lavoratrice, la solita maggioranza che fatica e tace, i contadini e gli operai, incitati dall’esempio dei capi dell’industria e della finanza pesanti, invasero le terre ed occuparono le fabbriche.
5- Il mito della terra ai contadini e le invasioni
126. Il miraggio del paradiso terrestre diffuso dalle emissioni cartacee e dalle promesse ai combattenti. Le critiche degli economisti ed i programmi moderati non bastano a farlo sparire. – 127. Non lo distrugge neppure il piano, fantastico, ma ammonitore, del capo intellettuale del partito socialista, di ricostruzione della terra italiana per iniziativa dello stato. – 128. L’ondata d’ozio e la testimonianza del Massarenti. – 129. La conquista della felicità vuol dire per i contadini conquista della terra. Si comincia di là dove il sogno si fonda sul diritto. Gli usi civici nella campagna romana. La «terra ai contadini» e la invasione di terre coltivate nel Lazio e nel Mezzogiorno. – 130. La legalizzazione delle invasioni; il decreto Visocchi e la graduale reazione legale. Il caso della tenuta Pantanella. – 131. La resistenza politica all’abolizione del diritto di insistenza dei coloni. – 132. Gli esperimenti di conduzione cooperativa dei terreni. – 133. L’occupazione bianca dei fondi in quel di Soresina ed il lodo Bianchi. – 134. La espropriazione della terra a mezzo dell’imponibile della mano d’opera. – 135. I disegni di legge per la espropriazione e la trasformazione del latifondo. – 136. L’Opera nazionale combattenti e le sue traversie terriere nel primo anno di vita.
126. – La guerra aveva stranamente annebbiate le idee, già prima confuse, delle classi imprenditrici e lavoratrici insieme intorno alle sorgenti del reddito e della ricchezza. Dopo una lunga astinenza di mezzo secolo intorno ad un bilancio pubblico stentato, minacciato continuamente dal disavanzo, a desideri di spese e di sussidi di dimensioni modeste, di poche centinaia di migliaia o di pochi milioni di lire, improvvisamente aveva cominciato a scorrere un fiume di moneta, cartacea, ma moneta; ed a miliardi ed a decine di miliardi si erano contate le forniture, i progetti, gli impianti; ed i profitti erano cresciuti, e nonostante la guerra, vi era stato lavoro per tutti: per i soldati in campo, per gli operai nelle officine, per uomini, donne, vecchi e fanciulli nelle terre non abbandonate. Dunque, non è vero che vi sia un limite alla possibilità di impiego di capitali, di lavoro; il denaro, questa mitica sorgente di felicità agli occhi delle moltitudini, si può creare o prendere dove esiste, per farlo circolare. Vecchie confuse idee monetarie ritornavano a galla, costringendo al silenzio le massime sane ma dure della fatica quotidiana, della rinuncia, del risparmio. A diffondere idee paradisiache avevano purtroppo contribuito le promesse largite dai governanti durante la guerra. La predicazione fatta ai soldati nelle trincee aveva dato prova, negli improvvisati propagandisti più di entusiasmo che di meditazione. «Per mantenere ferma la resistenza, per mantenere alto lo spirito dei combattenti e della popolazione nell’interno del paese, la classe dirigente, a mano a mano che gli anni passavano, ritenne opportuno di ricorrere sempre più largamente a promesse di larghi compensi agli attuali sacrifici: di prospettare alla pubblica opinione i termini di un bilancio, il cui passivo era rappresentato dalla guerra e dai suoi sacrifici, ma l’attivo lo avrebbe largamente superato. La stessa concezione della guerra da parte dei partiti democratici, che avevano ad essa aderito, era tutta penetrata da quell’orientamento di idee. Era, essi affermavano, l’ultima guerra, combattuta per la libertà e la giustizia, contro popoli che della libertà e della giustizia volevano fare strazio: alla vittoria sarebbe seguita la fratellanza universale e con essa la universale felicità, per la quale era ben tollerabile ogni presente sacrificio»[viii]. Finita la guerra, del grido del diritto di tutti alla felicità si impadronirono coloro che alla guerra erano sempre stati avversi: «Coloro che non sono riusciti a condurre sino in fondo l’oscuro disastro di Caporetto, coloro che non sono riusciti a bolscevizzare l’Italia, stanno già adottando oggi una nuova tattica; predicano che la vittoria sarebbe stata vana se non avesse la virtù di generare l’abbondanza, la felicità, il paradiso terrestre. Si odono grida: bisogna essere audaci, bisogna non contentarsi di piccole cose, ma mirare alle ricostruzioni a fondo, alla palingenesi sociale» (C.d.S., n. 320 del 16 novembre 1918).
Invano un grande economista, Maffeo Pantaleoni, con ironia mordace scrollava a fondo il mito: «Ogni cittadino presenta una fattura allo stato, in ragione di uno dei tanti innumerevoli effetti prodotti dalla guerra. Orbene, il conto creditore che ognuno presenta allo stato è, in ultima istanza, presentato a un qualche suo vicino, che agita pure una sua fattura in mano. Se tutti vogliono essere pagati della guerra fatta o delle conseguenze dirette o indirette della guerra, quasi che questa non si fosse condotta nell’interesse di ciascuno e di tutti, è ovvio che presso a poco il credito di guerra è annullato dal debito di ognuno, salvo il credito dei poveri figlioli che sono morti o sono rimasti storpiati per la patria!»[ix].
Invano, oltre le critiche, si opponevano ai sogni di facili palingenesi sociali programmi moderati: «Noi», dicevasi da talun conservator liberale, «vogliamo differenziarci dai disfattisti di ieri per ciò solo che il nostro procedere innanzi deve essere un cammino sicuro, verso una meta nota, verso l’elevamento sostanziale delle masse, non il precipitare verso mete ignote, dietro programmi privi di contenuto, e parole vuote, dietro cui stanno soltanto il disinganno ed il malcontento. Per non cadere nel disfacimento che è la conseguenza fatale di attuare programmi millenari ed è il terreno fecondo su cui soltanto i Lenin d’Italia possono sperare di mietere, bisogna… ritornare alle nostre vecchie grandi tradizioni del risorgimento… Per vincere il dopo guerra, per emergere più saldi, più forti, più ricchi moralmente e materialmente dalla grande prova civile che ci attende bisogna ritornare alle audacie del conte di Cavour, alle audacie di chi odia i programmi vuoti, le parole retoriche, le promesse aventi un puro basso scopo elettorale, alle audacie fredde, ragionate di chi sa la meta a cui vuol giungere, scarta i mezzi inadeguati e sceglie la via che può essere percorsa senza pericolo di cadere nell’anarchia e nella reazione» (C.d.S., n. 320 del novembre 1918).
127. – Ma le folle, piene di speranze indefinite, non potevano essere trattenute dalle critiche degli economisti e dagli ammonimenti a procedere alla ragion veduta dei costruttori audaci ma pazienti. Neppure le conquistò il capo dei socialisti, il quale subito e pertinacemente parlò di «rifare l’Italia» ed espose il concetto di «un vero piano regolatore di stato». Filippo Turati[x] voleva un «programma della nazione» non un programma semplicemente di governo. Il programma era fantastico, di gran lunga superiore alle possibilità del paese; era ispirato al concetto che lo stato dovesse farsi iniziatore e gestore del rinnovamento economico del paese ed alla speranza implicita che, capovolgendo il centro di gravità del meccanismo economico, non più i privati interessi sfruttassero, come era avvenuto nell’attuazione del mito dell’economia associata, lo stato a proprio vantaggio, ma lo stato sapesse guidare i privati interessi al raggiungimento di fini pubblici. Al nuovo mito, il Turati metteva a fondamento un concetto tecnico: l’acqua. Il suo era tutto un inno ditirambico all’acqua ed alla mirabile sua forza trasformatrice dell’economia italiana. Alla utilizzazione delle forze idriche ed alla trasmissione dell’energia a distanza «si connettono le sistemazioni montane, onde la sicurezza delle alte pendici; il disciplinamento dei corsi d’acqua, onde la difesa contro le piene; le bonifiche, e quindi la messa in valore di infiniti nuovi terreni; la soppressione della malaria e di qui una maggior efficienza dei lavoratori, l’estensione delle piane abitabili, e con ciò la soluzione necessaria, automatica … di una infinità di altri problemi, viabilità, ferrovie, scuole, ospedali … ; l’irrigazione e quindi l’aumento della produzione terriera e l’agricoltura industrializzata; la navigazione interna, onde facilitazione di trasporti, emancipazione dal carbone di Cardiff; la regolazione dei deflussi a mezzo dei serbatoi, onde la creazione benefica di nuovi corsi d’acqua, a deflusso continuo …; la trazione elettrica, onde una soluzione tutta italiana al problema ferroviario, e di nuovo la emancipazione dal carbone estero; la diffusione dell’energia elettrica, da cui la fondazione di nuove industrie, specialmente della elettrochimica, e cioè di una industria fondamentale, essenzialmente nostra, perché non a base di carbone, colla messa in valore, necessaria e naturale, di tutte le nostre ricchezze; la produzione intensiva dei concimi, da cui il fiorire possibile di tutta la nostra industria agraria». Una visione ottimistica di un’Italia nuova, trasformata e ricca si apriva dinnanzi agli occhi del capo spirituale dei socialisti italiani.
Occorreva un piano di coordinamento, di contemporaneità, di solidarietà; ché la mancanza di un piano unitario aveva fin allora rese inefficaci le iniziative, assunte isolatamente, individualisticamente, «proprietariamente». Se è vero che il 90% del territorio dell’Italia meridionale non sia suscettivo di miglioramenti, perché costituito da terreni montagnosi, disboscati, dilavati, franati, malarici e quindi refrattari, è anche vero che questi soli sono i terreni coltivati ed invece è abbandonato il restante 10%; sono abbandonati i terreni fertili delle foci, del piano, delle valli, dove la fecondità dell’humus è enorme, dove il terreno è fertilissimo e dove il sole, il clima, la verginità del terreno, il limo che vi è depositato garantirebbero una produzione decuplicata e prometterebbero veri tesori alla ricchezza del paese. Si guardi alla Sardegna, all’«isola sventurata», la quale oggi è un pascolo enorme il quale vede la sua potenzialità produttiva ridotta da cento a dieci a causa della siccità che per quattro mesi vi dura. «Ora basterebbe che la zona industrializzata creasse la riserva del fieno, che potrebbe dare fin dodici tagli l’anno, per decuplicare la potenza zootecnica dell’isola.
Essa avrebbe a dovizia carne, latte, prodotti derivati, lana, pelli, foraggi e con ciò una popolazione raddoppiata, uno sviluppo industriale ricchissimo». L’acqua deve essere lo strumento della trasformazione: «C’è il Tirso, che sarà vasto quanto metà del Lago Maggiore; potrebbero farsi altri quattro o cinque laghi artificiali, che darebbero non minori risultati». Ad una ad una le più desolate zone agricole italiane sono passate in rassegna: la Sicilia, dove è la piana di Catania, 500 Km quadrati, che dovrebbe alimentare 300 o 400 abitanti per chilometro quadrato, laddove ora non vi è un solo abitante, la popolazione addensandosi a 800-1000 metri di altitudine; la Basilicata, dove nella piana di Metaponto, di circa 60.000 ettari, la stazione è nel deserto; la Calabria, con la piana di Sibari, sede di antica civiltà, le cui rovine sono sparse su terreni fatti deserti dalla zona malarica; le Paludi Pontine estese per 1000 Km. quadrati; le Puglie e la Capitanata, dove il frumento si raccoglie una volta ogni tre anni, negli altri due la terra rimanendo a maggese. «Contro un pregiudizio diffusissimo, il mezzogiorno è ricchissimo di acque; ma esse sono mal distribuite. La sua redenzione è tutta nei laghi artificiali». Bisogna dunque «fare» l’Italia. «L’Italia settentrionale fu fatta pezzo per pezzo, coi sacrifici, coi miliardi di decine di generazioni. Ma oggi si può fare in dieci anni ciò che in altri tempi esigeva dieci secoli».
L’Italia non potrà tuttavia essere fatta dai proprietari. Essi faranno sempre ostruzionismo, spinti come sono dall’istinto e dalla necessità della propria conservazione. Disinteressati costoro, con una indennità pagata in obbligazioni e commisurata all’imposta pagata, si mettano al loro luogo «i lavoratori organizzati, i soli il cui interesse coincide esattamente coll’interesse collettivo del paese». I lavoratori non chiedono proprietà, «chiedono concessioni di esercizio, chiedono affittanze collettive, la terra rimanendo allo stato». Occorre solo che il lavoratore sia interessato all’opera e poiché in queste opere, salvo per le case, tutto è movimento di terra, «nel consorzio, che deve formarsi di tutti gli interessi fra proprietari stato capitale lavoro, il lavoro dovrà dominare».
L’acqua deve trasformare anche l’industria: «Tutta la civiltà industriale è basata sul carbone … Non avendo carbone è giocoforza o rinunciare ad essere un paese industriale, o supplire coll’elettricità».
Se noi abbiamo poco ferro, abbiamo però copiosissimo l’alluminio, le piriti, le leuciti, lo zinco. «Noi ci ostiniamo nella siderurgia pesante, che è l’assurdo degli assurdi, perché dobbiamo comprare all’estero il carbone ed i rottami ad altissimo prezzo, impiegando una minima quantità di mano d’opera. Trascuriamo la siderurgia fina, la meccanica fina, gli acciai speciali, nei quali la nostra abilissima e geniale mano d’opera troverebbe un impiego tanto più rimunerativo». In Italia «elettrificare l’industria significherebbe nazionalizzarla». Oggi le forze idrauliche sono male utilizzate; appena 1 milione di cavalli è captato su 4 o 5, e di esso la metà circa va perduto. «La elettrificazione non può avvenire, utilmente, a pezzetti successivi. Ciò che importa è creare l’unica grande rete elettrica italiana che, in parte è già spontaneamente iniziata dalle varie società le quali man mano si collegano fra loro, creando un sistema di raccordi, di compensi, di solidarietà, che solo permetterà la massima utilizzazione delle forze nazionali». Grazie ad essa creeremo la elettrochimica. Poiché questa «importa impianti di pochissimo prezzo, che si ammortizzano in brevi anni, noi creeremmo prodotti azotati, che redimerebbero la nostra agricoltura e prepareremmo una enorme disponibilità di forza, da impiegarsi poi in una miriade di industrie, che sorgerebbero man mano, potrebbero pagare la forza molto di più e ci assicurerebbero un reddito, quand’anche la concorrenza estera ci facesse abbandonare la produzione dei concimi. Pel grano oggi si spendono 5 o 6 miliardi all’estero. Basterebbero 180.000 tonnellate di azoto (oggi a mala pena se ne impiegano 9 o 10 mila) per superare la crisi granaria. A lire 3 al Kg sarebbe una spesa di mezzo miliardo che ce ne risparmierebbe 5. Ma è indispensabile l’intervento dello stato. La industria privata, che ignora il mercato del domani, è impossibile vi sopperisca. Solo lo stato può affrontare i brevi rischi di qualche anno per la ricostituzione nazionale».
128. – In quei primi anni del dopoguerra, neppure la visione di un’Italia più feconda e ricca, illeggiadrita dai lenocinii della fantasia di chi tecnico non era e perciò ingrandiva nello spazio ed avvicinava nel tempo i programmi ed i risultamenti dei tecnici, riusciva a cattivare le masse lavoratrici. Troppo tempo e troppa fatica facevano d’uopo, anche coll’aiuto dello stato, per «fare» la terra e far sorgere dal nulla industrie nuove. Le masse attendevano il millennio, e nell’attesa vana di vederlo giungere senza sforzo, perdevano lo stimolo a lavorare. Guasta la mente dallo spettacolo del flusso di biglietti veduti uscire senza tregua dai torchi dello stato e da cui parevano miracolosamente generati i beni materiali distrutti nella condotta della guerra, l’uomo immaginava che bastasse stendere la mano per ritrarla colma d’oro e di ogni bene della terra. Un vecchio organizzatore dei contadini, suscitatore di energie, costruttore di una nuova vita materiale e morale fra le plebi rurali di Molinella, Giuseppe Massarenti, così descriveva nel novembre 1919 quelle condizioni spirituali:
C’è in tutti una irrequietezza che non è possibile frenare con mezzi materiali, che porta al disinteressamento della produzione, alla avversione al lavoro, alla disabituazione alla vita quale deve essere in una società che non voglia uccidersi. Io stesso debbo fare una fatica improba nelle organizzazioni per richiamare al senso della realtà i lavoratori. Ieri, ad esempio, mi sono recato dalle risaiole: «Come va?» ho chiesto – «Bene di salute, ma siamo stanche di lavorare!» – «Quanto guadagnate al giorno?» – «Soltanto 9 o 10 lire» – «È poco. Nella Lomellina le donne percepiscono 14 o 15 lire al giorno. Ma quante tavole fate giornalmente?» – «Dalle 20 alle 25». – Allora siete voi le responsabili, perché non lavorate a sufficienza per raggiungere una paga come quella delle vostre compagne nelle altre risaie!». Questo stato d’animo non conduce né alla dittatura, né al trionfo del proletariato: esso conduce invece alla disorganizzazione sociale, alla disperazione. Perché ora ci sembra di trovarci di fronte a dei disperati che rifuggono dal lavoro per timore di fare il gioco delle classi dirigenti, di allontanare la rivoluzione che è alle porte. Lavorare per i signori? dicono. Ma io vedo gli sforzi che faccio qui. L’azienda macchine ha speso lire 120.000 in più per salvare la produzione minacciata. E quanta buona volontà mi ci è voluta, quanto ho dovuto insistere perché lavorassero!
È uno stato d’animo anarchico; anarchico nel peggior senso della parola; ed è comune a tutti: donne, vecchi, giovani, in questi ultimi più che nei vecchi[xi].
129. – Non s’era attesa la fine della guerra per l’attuazione del sogno secolare dei contadini italiani: la conquista della terra. Si cominciò là dove il sogno si fondava sul diritto. In alcune centinaia di migliaia di ettari sparsi nel Lazio e nel Mezzogiorno continentale coesistevano la proprietà privata dei discendenti degli antichi feudatari e gli usi civici di pascoli, di legnatico, di semina delle popolazioni. Da secoli lottavano per quei terreni nobiltà, borghesia e plebi rurali, si intromettevano faziosamente partiti in cerca di voti ed avvocati di cause, ricchi usurpavano terreni e li facevano a preferenza dei poveri pascolare dal loro numeroso bestiame. Saltuarie distribuzioni o quotizzazioni avevano cercato di quietare anche i poveri; per poco, ché molti di essi, dopo un rapido e rabido sfruttamento avevano rivenduto la terra ai più intraprendenti od ai ricchi che loro avevano anticipato denaro.
Era rimasta la fame di terra; resa acuta dal ricordo degli antichi diritti ritenuti dalla coscienza popolare imperscrittibili. Nelle trincee ed alla vigilia delle grandi battaglie, i contadini udivano propagandisti, illustri parlamentari talvolta, incitarli al sacrificio della vita per garantire ai figli il possesso della terra, due volte fatta sacra dal lavoro e dal sangue versato. Nel 1917 un convegno tenuto il 6 agosto a Roma dai rappresentanti della federazione dei lavoratori della terra, della confederazione del lavoro, della locale camera del lavoro e delle università agrarie del Lazio, voleva la requisizione delle terre incolte per concederle «alle popolazioni che le richiedono per metterle a coltura». Quando i contadini ritornarono alle loro case, reputarono d’aver diritto alla spartizione della terra. La frase «la terra ai contadini» suscitò un grande generale incendio in quel dopo guerra, un movimento confuso, vario a seconda delle regioni, della struttura agraria e sociale, dei metodi culturali, diversamente nudrito dai ricordi secolari di comunanze scomparse, dall’eco delle ideologie russe, dalle promesse di felicità postbellica, dall’interesse collettivo alla messa in valore delle poche terre effettivamente incolte e delle molte male coltivate. Quando nel luglio 1919 le plebi cittadine saccheggiarono i negozi per far diminuire i prezzi, si iniziavano pure qua e là, in ubbidienza ad un congresso tenuto il 29 luglio nella casa del popolo in Roma, le invasioni di terre nel Lazio, e si diffusero largamente a partire dal 24 agosto, spesso in modo teatrale, a suon di musiche e di campane ed a rossi vessilli spiegati. Non furono invasi solo i terreni incolti soggetti ad usi civici, ma anche terreni ottimi, intensamente coltivati a vigneto o ad oliveto, tenuti a prato artificiale o posti vicino all’abitato, provveduti di buone case coloniche, dotati di scorte vive e morte e persino stupende terre di bonifica, redente col sussidio del pubblico erario in ubbidienza alle leggi speciali per l’agro romano. Le invasioni tumultuarie non di rado furono segnalate da violenze contro le persone e contro le cose.
A Corneto Tarquinia, nel circondario di Civitavecchia, novecento contadini organizzati invasero un terzo del territorio comunale. Le terre invase ed ottenute allo scopo di coltivazione sono poscia lasciate sode, vendendosi a prezzi altissimi le erbe, senza nulla pagare al proprietario, a profitto degli invasori. I gruppi degli invasori vanno a gara nel sopraffarsi; e nello stesso comune si creano l’università agraria, l’associazione proletaria, l’associazione combattenti, le quali, appena preso possesso della terra invasa e manomessa, invocano ad alte grida l’appoggio del governo contro temute rappresaglie dei proprietari e più temute invasioni di rivali usurpatori. Tra gli invasori numerosi, insieme a giovani contadini disoccupati, artigiani e piccoli proprietari, unitisi ai primi per utilizzare il bestiame e gli attrezzi agricoli che avrebbero dovuto lasciare inoperosi. L’avidità di occupare i migliori terreni riaccende secolari rivalità di popolazioni di comuni vicini; sicché la forza pubblica deve intervenire a reprimere conflitti sanguinosi. Furbi proprietari si mettono a capo delle associazioni degli invasori; ma hanno cura di porre agli ingressi delle loro proprietà vistosi annunci di invasione già avvenuta da parte della propria associazione, ossia di se medesimi.
Tra i più accesi i soldati smobilitati, vieppiù persuasi del proprio diritto alla terra, in seguito alla creazione, allora avvenuta, dell’Opera nazionale combattenti, con un capitale di 300 milioni di lire. Ma le tavole costitutive imponevano all’opera di «acquistare» a trattativa privata i necessari terreni; ricorrendo al trasferimento forzoso solo per i terreni spettanti ad enti pubblici, ad opere pie, ad enti ecclesiastici, e, per quelli privati, quando fossero soggetti ad obblighi di bonifica o suscettivi di importanti trasformazioni culturali. Riconosciuto al proprietario il diritto di riscatto al prezzo di esproprio coll’aggiunta del valore delle opere di miglioria, concessa la terra ai contadini solo con locazioni a miglioria, rinnovabili quando la miglioria fosse eseguita, o con le utenze a miglioria con diritto di acquisto, ma con diritto di prelazione dell’opera in caso di vendita o di morte dell’utente. Metodi troppo lenti ed incerti, sopratutto agli occhi del contadino italiano, il quale concepisce il possesso della terra sotto forma di proprietà piena, non soggetta a verun vincolo. L’invasione delle terre coltivate consentiva di giungere più rapidamente alla meta. Dal Lazio, col favore dei rossi e dei bianchi, e coll’eccitamento delle espropriazioni in massa avvenute nell’Europa orientale, le invasioni si estesero un po’ dappertutto in Italia e più particolarmente nel mezzogiorno e nelle isole.
130. – Il governo non seppe se non dare veste legale al movimento incomposto. Allo scopo di provvedere e alle necessità concernenti l’incremento della produzione agraria, con speciale riferimento ai cereali, tuberi e legumi commestibili, ed alle necessità delle popolazioni agricole – come diverse le motivazioni dei decreti dalla vera sostanza! – un decreto Visocchi del settembre 1919 prorogò sino a tutto il 1920 la facoltà già concessa ai prefetti delle norme per la mobilitazione agraria (cfr. parag. 66) di espropriare terreni non coltivati od insufficientemente coltivati per incuria o negligenza dei proprietari. L’occupazione dei terreni non poter durare oltre quattro anni e doversi pagare al proprietario una indennità da stabilirsi, salvo accordo mediante arbitrato. Non oppugnabile il decreto autorizzante la occupazione; concessi speciali favori di credito agrario alle associazioni di occupatori; potere l’occupazione diventare definitiva ove si tratti di terreni in stato decisamente inferiore di cultura e suscettivi di importanti trasformazioni culturali o soggetti ad obblighi di bonifica, ed, essendovi sul luogo esuberanza di mano d’opera, le associazioni od enti chiedenti l’occupazione posseggano capacità tecnica e potenzialità economica.
Sebbene a mascherar la resa, si ordinasse (con circolare del 12 settembre) di non tenere alcun conto delle usurpazioni arbitrarie né le tumultuarie occupazioni eseguite costituissero titolo alla concessione legale, risultò che in applicazione del decreto Visocchi[xii] si erano, fino al 15 aprile 1920, occupati 27.252 ettari di terreno a danno di 199 proprietari privati ed in favore di 105 associazioni o cooperative agrarie, per metà sorte nel Lazio. Le espropriazioni ebbero luogo quasi sempre sotto lo stimolo delle grida delle folle tumultuanti, senza l’osservanza delle forme richieste, talché in taluni decreti, compilati d’urgenza a evitare fatti clamorosi, manca persino la indicazione della concessione e della estensione del terreno da occupare e si leggono notizie inesatte sui fondi e sui loro confini. Non infrequenti i conflitti fra occupatori e vecchi affittuari o coloni, a cui nessuna notifica era stata fatta e nessuna cautela fornita per il pagamento delle scorte e dei lavori eseguiti. In taluni casi la requisizione si estese anche alle scorte ed ai fabbricati; in molti la sostituzione dei nuovi ai vecchi coloni significò deciso deterioramento. Mancata ogni seria indagine sulla capacità tecnica ed economica delle associazioni concessionarie, l’occupazione si conchiuse non di rado nella cacciata dei possessori, nell’inalberamento della bandiera rossa e nell’abbandono del terreno. I cattedratici ambulanti, intimiditi dalle folle, riluttavano a compiere gli accertamenti relativi allo stato di incoltura, sia perché nelle delicate vertenze da risolvere si trovavano spesso interessati gli amministratori delle cattedre, proprietari di terreni, sia perché il cattedratico doveva mantenere rapporti cordiali con ogni categoria di agricoltori. (G. Rocca, art. cit., p. 238).
La reazione al primo tumultuario disordine terriero ha luogo a grado a grado. Un decreto Falcioni del 22 aprile 1920 ordina di conceder terre solo a favore di quelle associazioni od enti agrari i quali offrano bastevoli garanzie di sapere mettere a cultura o trasformare e migliorare terreni ed abbiano lodevolmente coltivati i terreni già posseduti, evitando così concessioni a pro di immeritevoli improvvisate cooperative, vogliose solo di carpire terre per trascurarle o sfruttarle a semplice pascolo. Non più l’autorità prefettizia, ma commissioni tecniche provinciali debbono dar pareri sulla concessione; né questa può aver luogo contro quel parere. Le commissioni composte di due proprietari coltivatori e due lavoratori della terra sono presiedute dall’intendente di finanza ed hanno come segretari i direttori delle cattedre ambulanti od altri tecnici agrari. I lavori debbono iniziarsi entro il termine convenuto, estendendosi a tutto il fondo; né questo può sublocarsi. Se l’indennità fissata dalla commissione non è pagata, o se c’è inadempienza all’obbligo di cultura, la concessione decade. Comminate penalità per le invasioni arbitrarie di terre e di fabbricati rustici, anche se avvenute senza violenza, i «furti di terra» scemarono. Un decreto dell’8 ottobre 1920 chiamando a far parte delle commissioni il direttore della cattedra ambulante e un ingegnere del catasto o del genio civile ed ammettendo il ricorso ad una commissione reale centrale tentò vieppiù di limitarli. Le occupazioni poterono essere dichiarate definitive solo dopo due anni da quella provvisoria e solo se le opere di bonifica od importanti trasformazioni culturali siano state lodevolmente iniziate. In Sicilia, dove le occupazioni, eccitate dalle fazioni politiche rosse e bianche, continuarono per tutto il 1920, fu costituita una commissione regionale meglio prona alle pressioni locali, a cui dovevano rivolgersi gli appelli invece che a quella centrale. Il contratto di gabella fu dichiarato risolubile dalle commissioni, qualora l’affittuario avesse in tutto od in gran parte sublocato il fondo ed i coltivatori diretti, immessi nel possesso del fondo e sostituiti al gabellotto negli obblighi verso il proprietario, ebbero verso il primo solo l’obbligo di indennizzo per i lavori in corso ed i frutti pendenti. Si voleva eliminare la piaga del gabellotto intermediario fra il latifondista ed il contadino; ma non si potevano trasformare d’un tratto classi rurali da secoli gerarchicamente ordinate secondo le esigenze di una terra priva di case sparse, con contadini abitanti in grossi borghi, con latifondi indivisi fra i membri di famiglie e quasi di genti patrizie, posti nella impossibilità di condurre l’impresa agricola senza faccendieri intermediari, primo nucleo di una nuova borghesia proprietaria.
Caratteristica l’occupazione della tenuta Pantanella in quel di Canosa di Puglia, di proprietà del senatore Giustino Fortunato e del fratello suo Ernesto. «Nome illustre il primo, fra quanti hanno consacrato senza ambizioni personali la vita alla cosa pubblica ed alla redenzione del mezzogiorno. Benemerito il secondo, come espertissimo agricoltore e noto a quanti sui libri e nelle inchieste hanno imparato a stimare coloro i quali sul serio hanno lavorato per il risorgimento agricolo delle terre meridionali. Da ottant’anni, questa famiglia di antichi agricoltori, la cui opera meriterebbe di essere narrata nelle antologie scolastiche ad ammaestramento delle nuove generazioni, possiede la tenuta Pantanella, acquistata a quel tempo dal principe Capece Minutolo al prezzo, allora e adesso (1920) altissimo per quelle regioni, di lire 2000 l’ettaro.
Quell’acquisto fu uno dei tanti indici del salire delle famiglie di pastori e contadini al posto della vecchia aristocrazia decadente. Fin da centoventi anni innanzi – or sono passati duecento anni – la famiglia, ora rappresentata da una delle più alte figure di scrittore e di uomo politico che il mezzogiorno vanti, aveva avuto esperienza lunga e faticosa e diretta della coltivazione dei cereali. Se per ottanta anni i Fortunato non vollero coltivar cereali nella tenuta Pantanella, non fu per capriccio o per avidità di lucro. Fu perché essi amano davvero la terra e la vogliono conservata ed arricchita nei secoli. Quello è terreno soggetto sia alle nebbie primaverili lungo il tortuoso greto dell’Ofanto, sia agli acquitrini provenienti dai fontanili del sovrastante argine impermeabile su cui corre la strada nazionale che lo circoscrive dall’opposto lato del fiume. Una parte della tenuta è perfino soggetta al vincolo legale del pascolo a favore dell’allevamento del bestiame ovino che dall’Abruzzo è costretto a scendere a svernare in Puglia. È di vecchia data il motto abruzzese: “Per aver pecora bella – nell’estate alla Majella – nell’inverno a Pantanella”.
Perciò, da quando l’avevano acquistata, i Fortunato, forti della loro secolare esperienza di coltivatori diretti di cereali, avevano conservato la tenuta a pascolo saldo e l’avevano fatta diventar famosa, per l’abbondanza e la ricchezza delle erbe, fra tutti i pastori dell’Abruzzo. Così utilizzata, la tenuta dà il massimo contributo possibile alla produzione nazionale. Produce lana e latte e cacio, ossia derrate di gran valore e necessarissime agli italiani. Se si volessero coltivar cereali, la produzione sarebbe miserabile ed ucciderebbe i lavoratori; poiché la regione e malaricissima, dista 12 Km da Canosa, ed il senatore Fortunato durante i sei mesi dell’estate e dell’autunno non permette neppure al custode di abitarvi. Orbene, in seguito all’istanza di una qualsiasi cooperativa di Canosa e ad una rapida perizia di un professore ambulante di agricoltura, il prefetto di Bari toglie la tenuta alla famiglia dei Fortunato e con un suo decreto l’affitta forzatamente alla cooperativa di Canosa. A gran stento i Fortunato riescono a far rispettare il vincolo legale a favore dello svernamento delle pecore» (C.d.S., n. 207 del 28 agosto 1920)[xiii].
Prorogati dal 30 settembre 1920 al 31 marzo 1921 (R.D.L. 2 settembre e 23 ottobre 1921) e poi al 31 dicembre 1922 (Legge 18 maggio 1922) i termini per le concessioni di terreni da parte dei prefetti, a poco a poco cessano le invasioni violente. Al ministro vien data la facoltà di sospendere l’esecuzione di decreti prefettizi di occupazione; soppressa la commissione regionale siciliana, troppo soggetta alle pressioni locali e ricondotto alla centrale l’esame dei ricorsi contro le decisioni delle commissioni provinciali. Il ministro d’agricoltura, autorizzato a pronunciare revoche d’ufficio delle concessioni avvenute, parecchie ne revocò, perché le associazioni avevano trascurato di coltivare i terreni o li avevano tenuti pur sempre a pascolo o non pagavano il canone al proprietario. L’anno 1921 vide affievolito e quasi venuto meno il movimento.
131. – Più lunga e tenace la resistenza all’abolizione di un’altra specie di trapasso forzoso della proprietà a cui aveva dato luogo il diritto del colono alla proroga del contratto (cfr. sopra parag. 98). Dove quel diritto non aveva ancora persuaso i proprietari, disperati di non poterne riacquistare la disponibilità, a vendere il proprio fondo al contadino medesimo, dove le condizioni agrarie vietavano lo spezzamento dell’unità o fattoria costituita da parecchi poderi, il perpetuarsi dei vincoli nuoceva all’agricoltura, vietando gli opportuni mutamenti di famiglie coloniche divenute disadatte al fondo ed attenuando nel colono, sicuro contro il licenziamento, lo stimolo di una diligente coltivazione. Una vasta agitazione, fittiziamente impostata sulla impossibilità per i coloni licenziati di trovare altrove casa e collocamento e fomentata dai popolari, tutori dei mezzadri e piccoli affittuari contro i socialisti patroni dei braccianti salariati, fece prorogare i vincoli sino alla fine dell’anno agrario 1921-22 non però in modo generale, bensì limitatamente alle province rispetto alle quali il ministro dell’agricoltura, su parere dei comitati provinciali di conciliazione, ritenesse che «per circostanze di fatto o ragioni di equità e di opportunità, le disdette dei salariati, coloni, mezzadri e piccoli affittuari, per il numero e per la loro natura, e per le particolari condizioni dell’ambiente, come la scarsezza delle abitazioni e la difficoltà di diverso collocamento, possano dar luogo ad inconvenienti gravi». Dai ministri dell’agricoltura, da anni affiliati al partito popolare, furono concesse proroghe in 35 province, dovunque fossero richieste dalla ragione della fazione politica; ma le querele dei proprietari salirono in Toscana così alte che le disdette furono ivi sospese nel solo caso in cui il contadino non avesse trovato altra abitazione; ma dovere il contadino accettare la casa offerta dal proprietario. (Bachi, 1921, 295).
Occupazioni collettive ad opera di associazioni o individuali a mezzo di mezzadri escomiati vivevano oramai tra il 1921 ed il 1922 solo più per virtù di clientela politica. Un decreto del ministro Bertini, il quale innocentemente prorogava di un solo mese i contratti agrari in scadenza all’1 marzo 1922 e prorogandoli di un mese li prorogava di fatto per un anno intero, così era commentato allora: «Se i popolari non imperversassero con i decreti legge, tutta la materia dei contratti agrari sarebbe da tempo pacificamente assestata. I contadini buoni non hanno alcun timore di essere licenziati … ché un contadino anche mediocremente laborioso è tanto prezioso che i proprietari fanno qualunque sacrificio pur di non lasciarlo andar via … Trascurando le ripercussioni ulteriori, vi sono due fondi rovinati per ogni proroga: quello dove sta per forza di legge il contadino escomiato, il quale lavora male per deficienza di braccia perché, sapendo di essere tollerato, si industria a rubare alla terra tutto quanto può senza dare nulla in cambio; ed il fondo da cui dovrebbe provenire il nuovo contadino, il quale anch’egli è svogliato, perché spera di andarsene». Non vale il pretesto che i contadini escomiati non trovano casa: «Un contadino escomiato non troverà mai casa finché la legge gli consenta di stare dov’è, non foss’altro che per fare dispetto e per ricattare il suo proprietario; mentre là dove le proroghe non furono concesse, tutti i contadini trovarono casa, sebbene i loro organizzatori dimostrassero, con lusso di statistiche, a deputati e a prefetti che case non esistevano» (C.d.S., n. 53 del 3 marzo 1922). Per provocar proroghe di occupazioni violente di latifondi, a cui non erano seguite migliorie agricole, si facevano parimenti «pervenire a fasci telegrammi da tutte le cooperative siciliana e romane aderenti al partito popolare ed occupatrici di fondi altrui. Se le cooperative stanno zitte, perché si sono bonariamente messe d’accordo col proprietario o coll’affittuario, si mandano organizzatori o si mobilizzano parroci, perché i telegrammi non siano dimenticati. Così nasce l’agitazione; così si rende manifesta la necessità della proroga» (C.d.S., n. 207 del 30 agosto 1922).
132. – Rossi socialisti e bianchi popolari che nella valle padana si erano resi benemeriti del progresso agricolo incitando i contadini ad organizzarsi ed a pretendere condizioni di vita più degne od ammaestrandoli ad unirsi in sodalizi cooperativi per assumere la conduzione della terra, un po’ per volta avevano ceduto alla tentazione di una più rapida conquista della terra. Il lavoro fecondo di educazione economica non era stato né scarso né effimero. Verso il 1921 le cooperative agricole è probabile giungessero a 700 e conducessero in affitto o in proprietà intorno a 150 mila ettari. Appartenevano all’ala bianca cattolica 311 sodalizi, con 38.356 ettari in affitto e 14.026 in proprietà; i socialisti ed in piccola parte i repubblicani dirigevano 236 cooperative con 48.737 ettari a conduzione unita. I bianchi propendevano per la conduzione divisa, anche a scopo di preparazione alla proprietà individuale; con risultati non sempre favorevoli alla produzione, essendo i contadini abbandonati a sé stessi o riluttanti ad ubbidire a dirigenti non tecnici o da essi eletti e perciò privi di autorità. Nella grande impresa di preparare, mercé l’esempio, l’avvento dell’agricoltura collettivizzata, le cooperative rosse troppo fidarono sul credito. Finché durò la svalutazione della moneta, l’aumento nel valore dei terreni e delle scorte, consentì facilmente il rimborso dei debiti; dopo soggiacquero alla crisi dei prezzi, né gli acquisti dei fondi di opere pie a prezzi di favore riuscirono sempre a salvarle. La difficoltà di occupare tutti i soci nella conduzione corrente dei campi, la necessità di intraprendere, per dar lavoro alla mano d’opera esuberante, costosi lavori di bonifica, con danaro accattato al 7 o all’8% d’interesse, rivelarono anche ai più entusiasti quanto fosse ardua la conquista della terra, per coloro che quella conquista volevano compiere senza usurpare la cosa altrui[xiv].
133. – Gran rumore destò perciò un movimento, il quale voleva trapiantare nelle zone agrarie industrializzate a cultura intensiva della pianura padana i metodi d’invasione che nel Lazio, nel mezzogiorno e nella Sicilia avevano assunto a segnacolo in vessillo «la redenzione delle terre incolte». Nel giorno di san Martino (11 novembre) del 1920 nella zona di Soresina in quel di Cremona, zona agricola tra le più stupendamente coltivate in Italia, i contadini, capeggiati dal cattolico popolare on. Miglioli, invasero i fondi al grido: «il contadino non più salariato, l’agricoltore non più padrone, gestione diretta dei contadini sotto la direzione di un «consiglio di cascina». L’8 giugno 1921, alla vigilia della mietitura, l’agitazione, la quale aveva fin allora prolungato uno stato illegale di conduzione dei terreni, veniva chiusa da un concordato che affidava ad una commissione arbitrale il compito di compilare un nuovo patto agrario «sulla base dell’abolizione del salariato, dell’introduzione del contratto a partecipazione, e del controllo contabile». Nella formula si mescolavano insieme i miti tradizionali della propaganda cattolico-sociale – la partecipazione ai profitti – con quelli nuovissimi comunisti – abolizione del salariato e consigli di fabbrica – e con gli altri indistinti di gradualità riformista: controllo contabile dei salariati sull’esercizio dell’impresa. Ne venne fuori il 10 agosto un lodo, dal nome del presidente della commissione Giovanni Bianchi, cattedratico ambulante di Brescia, divenuto notissimo sotto il nome di «lodo Bianchi». Il proprietario conserva la terra, il caseggiato rustico, le piantagioni e percepisce il canone di fitto contrattualmente convenuto. Il conduttore del fondo ha diritto di prelevare dal fondo il canone convenuto o, nel caso di locazioni anteriori al 1919, il canone maggiore che oggi sarebbe dovuto. Se conduttore e coloni non si accordassero sul canone da prelevare a favore del proprietario – e ciò accadeva più facilmente se il proprietario conducesse egli stesso il fondo ad economia – decide, inappellabilmente, un collegio arbitrale composto da un proprietario nominato dal ministro per l’agricoltura, da un membro padronale nominato dal comizio agrario di Cremona, e da un membro contadino scelto dalla Banca del lavoro e della cooperazione sedente a Milano. Disinteressato il proprietario, conduttori e coloni sono così compartecipi. Al conduttore od imprenditore agricolo è dato il godimento gratuito della casa, dell’orto e del rustico, della legna, del latte e dei mezzi di trasporto per i bisogni della famiglia, oltre ad un compenso di lire 12,50 annue per ciascuna delle prime 400 pertiche del fondo (la pertica è l’unità di misura, che in quel di Cremona è di mq. 808), di lire 8 per ogni pertica in più sino alle 800 e di lire 6 per ogni ulteriore pertica aggiunta. Egli ha inoltre diritto al rimborso delle spese vive sostenute per l’andamento dell’impresa e ad una conveniente diaria per i giorni di assenza nell’interesse comune.
Ai contadini un salario fissato a norma del patto colonico 1919-20 concordato con la federazione provinciale dei contadini aderenti all’unione del lavoro. Tipico il salario annuo di lire 2.500 per i famigli, oltre ad un assegno in natura di ettolitri 5.5 di granturco e 5 di frumento.
Pagati i salari e le spese, utili e perdite si debbono dividere fra il conduttore ed i contadini compartecipanti. Non più di 10 e non meno di 5 contadini possono essere ammessi, ogni 400 pertiche, nel novero dei partecipanti; e fa d’uopo per divenire tali non essere, in un primo tempo, esclusi da una speciale commissione composta dal conduttore e da un delegato dei contadini, ed in seguito ed al principio di ogni anno agrario, essere ammessi dall’assemblea dei contadini già compartecipanti. Volevasi in tal modo ottenere una vantaggiosa selezione dei migliori fra tutti i lavoranti, gli esclusi lavorando come avventizi, a salario normale, senza diritto a compartecipazione. Il compartecipante doveva versare nelle mani del conduttore lire 2.000 entro l’ottobre 1921, lire 500 entro l’ottobre 1922 e così in seguito lire 500 all’anno sino a toccare lire 4.000. Credito del contadino verso il conduttore dal punto di vista giuridico, la quota è un conferimento al capitale della impresa ed il contadino può crescerla sino alla metà del capitale medesimo. Gli utili sono devoluti per il 25% al fondo di riserva, e per un interesse eguale al saggio ufficiale dello sconto più 2% al capitale conferito sia dal conduttore come dai contadini compartecipanti; il resto diviso in ragione delle rispettive quote di salario e d’interesse. Al termine del contratto di affitto del fondo, dopo aver integrato l’interesse per tutti gli anni per i quali il capitale non avesse ricevuto quel che gli spettava, il fondo di riserva è ripartito in ragione delle quote di salario e di interesse. Oltre il fondo di riserva dovrebbe egualmente ripartirsi il supero eventuale dei valori d’inventario delle scorte vive e morte, vendute a gara al migliore offerente fra conduttore e contadini partecipanti, in confronto dei valori di bilancio.
Le perdite dapprima consumano le riserve e poi sono divise in proporzione dei capitali conferiti e, per la parte spettante ai coloni, attribuite alla quota da essi versata. Se più del 60% delle quote fosse perduta, i contadini decidono se reintegrarla o liquidare il contratto alla fine dell’anno in corso. Diseguale perciò il criterio della ripartizione fra utili e perdite. Gli utili ripartiti in ragione delle quote rispettive d’interesse e salario e quindi, per il maggior peso dei salari, attribuite in massima parte ai contadini. Le perdite prima esauriscono le riserve destinate ad integrare la remunerazione del capitale negli anni cattivi e poi sono ripartite in ragione delle quote del capitale conferito, ossia attribuite sopratutto al conduttore. I contadini stanno a vedere: se ci siano perdite non conferiscono nulla più del minimo capitale obbligatorio; se ci sono guadagni finali, conferendo all’ultimo momento quote integrative, li assorbono quasi in tutto. Il lodo prevedeva altre difficoltà, non questa che forse era considerata pregio dagli innovatori ed affidava a due delegati dei contadini, nominati ogni due anni, il compito di risolvere col conduttore le eventuali controversie sulla opportunità di comprare e vendere scorte, semenze, prodotti, sulla valutazione delle scorte, delle quote di ammortamento, della fertilità residua del terreno, e quello di rivedere i conti, di riferire ai compartecipanti, di reclamare ai probiviri.
134. – Quale fosse l’attitudine del sistema di Soresina di resistere alla prova del fuoco degli anni di perdita per prezzi calanti non fu possibile sapere per esperienza; ché, innanzi fosse chiuso (11 novembre 1999) il primo anno di applicazione, in un nuovo clima politico-sociale l’esperimento svaniva. Gli agitatori rossi l’avevano subito vivamente attaccato, accusandolo di aver creato una aristocrazia di compartecipanti, rispetto a cui gli avventizi trovavansi in condizione di inferiorità, vagabondi da azienda ad azienda.
I socialisti erano sempre stati contrari ai gruppi chiusi di lavoratori, entro cui si coltivavano egoismi caratteristici della piccola conduzione.
Se avevano riconosciuto la necessità di applicare turni di lavoro nelle imprese governate dalle loro cooperative[xv], i rossi tenevano saldo al principio che la proprietà terriera e l’industria agraria dovessero dar lavoro a tutti i lavoratori del luogo, anche se non vi fosse la convenienza economica. Era un’altra maniera di confisca della proprietà a favore delle plebi agricole ed aveva preso il nome d’imponibile della mano d’opera. I contadini avevano inteso, più semplicemente, tale obbligo come un mezzo per crescere la domanda della mano d’opera, simile alla limitazione nel numero degli animali affidati a ciascun lavoratore, che in quel torno di tempo nella piana lombarda si era voluto ridurre a 18-20 vacche per mungitore, compreso l’obbligo di falciare giornalmente l’erba occorrente, sino a 10-12, escluso tale obbligo; alla richiesta fosse istituito un capo-bifolco capo-mungitore, con mansioni particolari, o fossero assegnate diarie per lavori fuori del fondo, o fosse limitato il lavoro ad 8 ore al giorno o 48 ore alla settimana o 2.496 ore all’anno; ristretti i cottimi, le partitanze, l’impiego delle macchine da raccolta e degli avventizi.
Rimedio sovrano, però, l’imponibile della mano d’opera; disciplinato, forse per la prima volta, nella provincia di Brescia nel 1919. Quando la commissione paritetica di avviamento al lavoro segnalasse l’esistenza di contadini disoccupati, le imprese agrarie dovevano sospendere le ore straordinarie di lavoro e l’impiego di donne avventizie, per dar lavoro ai disoccupati, assunti liberamente od inviati dalla commissione, fino ad un massimo di 10 uomini, fra fissi ed avventizi, in ragione di 32.5 ettari.
Per i fondi dati in affitto, l’onere dell’imponibile doveva essere ripartito fra proprietario e conduttore. Il prefetto di Parma, nel 1919, appellandosi a ragioni di necessità di maggior produzione e di lavoro pei disoccupati, decretava la nomina in ciascun comune di commissari incaricati d’ispezionare i fondi a cultura manchevole per scarso impiego di mano d’opera e di indicare i lavori da eseguire per assicurare la normale e compiuta produzione del fondo; il sindaco del comune doveva ingiungere al proprietario l’esecuzione dei lavori, che altrimenti sarebbero stati eseguiti d’ufficio a carico del proprietario e del mezzadro.
Talvolta, la regola dell’imponibile costrinse a dar lavoro a tutti i disoccupati, anche se disadatti e se spostati da fondo a fondo senza alcuna continuità. Accorsero a lavoro così facile e remuneratore avventizi d’ogni parte ed operai d’ogni mestiere. Nessuno, potendo, abbandonò il luogo di dimora, sicuro di trovarvi lavoro; cosicché l’imponibile variò da luogo a luogo a seconda della casuale abbondanza della mano d’opera. Nei territori emiliani di bonifica, l’ufficio di collocamento diventa organo di classe per la forzosa assegnazione del numeroso avventizio disponibile; reagendo i datori di lavoro con la preferenza data alla colonia parziaria, alla partitanza, ai salariati fissi ed obbligati ad anno, gli uffici vietano le partitanze o le convertono in partitanze collettive, affinché tutti i lavoranti disponibili vi possano partecipare. Boicottati coloro che vi resistevano, vietato ai mezzadri provvisti di risparmio di trasformarsi in piccoli affittuari o di acquistare terra. Dinnanzi alla resistenza degli agricoltori i quali usavano macchine le quali scemavano l’altissimo costo dei salari, le leghe dei contadini rispondevano col boicottaggio dei proprietari, fittavoli e contadini colpevoli di servirli. Il boicottaggio voleva dire, come per gli scomunicati del medioevo, interdizione dall’acqua e dal fuoco[xvi].
135. – Alla espropriazione di fatto, operata attraverso le invasioni di terre, il controllo dei contadini sull’amministrazione del fondo, la loro prevalente compartecipazione agli utili e l’imponibile della mano d’opera, doveva seguire l’espropriazione di diritto. L’eco delle vaste riforme agrarie operate nella Romania, nella Czeco Slovacchia, nei paesi della Jugoslavia, dove ai contadini erano date legalmente le terre spettanti alle classi dominatrici straniere espulse, era giunta in Italia ed aveva risuscitato vecchie aspirazioni che qui avevano preso il nome di spezzamento e trasformazione del latifondo. Un nuovo progetto presentato nel 1920, saggiamente ricordando che il problema del latifondo era in Italia assai diverso da quello dei paesi dove aveva origine da conquista, cominciava col dire: «Il latifondo, che non è terra incolta, ha resistito e resiste ai ripetuti tentativi fatti per trasformare la cultura perché persistono ancora le cause economiche e sociali che ne determinarono la formazione» e condannava «i taumaturgici interventi del legislatore» i quali miravano «a distruggere gli effetti di un fenomeno del quale non si eliminavano le cause». In contrasto con le quali assennate parole, il progetto così come uscì, nel luglio 1922, dopo varie vicende, dalle discussioni della camera dei deputati, assoggettava ad espropriazione, concessione obbligatoria in enfiteusi od altra forma di godimento temporaneo e ad obbligo di bonificamento agrario, due specie di terreni: quelli incolti di qualunque estensione suscettibili di utilizzazioni agricole e quelli estensivamente o discontinuamente coltivati, i quali fossero suscettibili di notevoli trasformazioni culturali ed avessero una superficie non inferiori ad ettari 100 o 200, a seconda che distassero meno o più di 5 km dai comuni o frazioni di comuni, sulle ordinarie vie di accesso. Potere essere espropriato quel fondo che fosse stato dichiarato inadempiente all’obbligo di coltivare o di bonificare. L’espropriazione potere essere richiesta dall’Istituto nazionale per la colonizzazione interna, nuovo ente creato dalla legge con un capitale di 200 milioni, dalle province, dai comuni, da tutti gli enti od associazioni agrarie, legalmente costituiti, da cooperative, società anonime, consorzi, che dimostrassero di possedere i mezzi finanziari e l’organizzazione tecnica all’uopo necessari. Un’imposta del 0,50% su tutte le trasmissioni per atto tra vivi di proprietà di beni rustici di estensione superiore ai 100 ettari, doveva essere stabilita a favore dell’istituto. Abbandonato il criterio della sola capitalizzazione del reddito netto presumibile del terreno, a scemare il prezzo di esproprio si volle si tenesse conto del valore venale e del valore di stima agli effetti dell’imposta sul patrimonio. Il prezzo pagato per metà in contanti e per metà in cartelle fondiarie di incerta realizzazione; sicché si apriva la via ai tentativi privati di appropriazione della terra altrui a prezzo inferiore a quello venale.
136. – Se del progetto, ritirato pochi mesi dopo nel nuovo regime politico che succedeva a quello di cui era stato il frutto, nulla rimase, rimase invece viva l’Opera nazionale combattenti, la quale in virtù del suo «regolamento» costitutivo aveva avuto facoltà di espropriare terreni, al prezzo di capitalizzazione al 5% del reddito netto; criterio reso tanto più incerto da ciò che i ricorsi dei proprietari venivano giudicati da un apposito comitato arbitrale centrale, composto di funzionarii ed istituito presso la stessa opera espropriante. La prima relazione dell’opera sull’esercizio 1921 gittò luce sui risultati raggiunti: 46.202 ettari di terreno posseduti, di cui 33.000 espropriati, 2.000 acquistati, 7.000 già in dotazione della corona, e 2.000 ettari dell’azienda Sanluri in provincia di Cagliari. L’opera dovette sopratutto difendersi dalle pretese di cooperative improvvisate, in nome dei combattenti, dai politicanti locali, moventi all’assalto di terreni di proprietà di opere pie e di privati; e bramose di ottenere dall’opera i mezzi finanziari e tecnici di cui esse difettavano. Nella maggior parte dei casi le cooperative, entrate in possesso dei fondi espropriati, si dimostrano incapaci di gerirle, sicché l’opera deve intraprendere direttamente la trasformazione del terreno. Casi tipici: S. Cesareo in Zagarolo (Roma), ettari 1.470. Villaggio abissino di pagliai alle porte di Roma. Programma grandioso di redenzione sociale. Di fatto è un nido di vespe con lotte furibonde fra la cooperativa di S. Cesareo, la sezione dell’associazione nazionale dei combattenti e relativa cooperativa, l’università agraria, la lega dei lavoratori di Zagarolo, la sezione reduci di Rocca Priora. Usi civici di semina impediscono la bonifica. «La conclusione è questa: in due anni l’opera non ha potuto far altro che pentirsi di essersi occupata della redenzione degli abitanti del villaggio africano alle porte di Roma e di avere espropriato la tenuta. Soltanto in questi ultimi tempi ha potuto accordarsi con le associazioni di Zagarolo per la divisione di 180 quote di circa 200 ettari di terreno, costituenti alcune riserve nelle immediate vicinanze dell’abitato, che saranno trasformate in vigneto. Confidiamo che dette quote si possano subito assegnare ai contadini e non nascano altre tempeste, già annunciate da una certa agitazione fra coloro che, pur non essendo contadini e pur avendo combattuto soltanto sulla piazza del paese, pretendono di avere il loro pezzo di terreno a condizioni di favore». Pascolaro di Marino (Roma), ettari 135 tra Marino e Castelgandolfo. Due cooperative, di colore differente, di cui la prima ha speso lire 500.000 ottenute a credito per impiantare, in conto sociale, un vigneto di 25 ettari. L’Opera vorrebbe assegnar quote direttamente ai singoli contadini ex combattenti; ma «dopo un anno e mezzo, dopo infinite discussioni, nonostante la terra sia esuberante a tutti i bisogni, e quantunque siano già stati determinati prezzi di larghissima convenienza, non si è fatta neppure l’assegnazione del terreno del vigneto sociale e neppure di una quota individuale, perché si è richiesto almeno un quarto del prezzo. Questa richiesta non entrava nel calcolo di quei bravi cooperatori».
Espropriazione del latifondo voleva dire nell’immaginazione dei contadini e più di coloro che volevano farsi passare per contadini a scopo di lucro, confisca senza pagamento del prezzo e fornitura gratuita delle scorte necessarie alla coltivazione. Ribera (Girgenti). Quattro ex feudi di ettari 1.546 hanno dato origine alla questione diplomatica del duca di Bivona. «Gli ex combattenti di Ribera, avendo già i fondi in possesso, a condizioni derisorie, molto probabilmente pensarono che può essere anche loro interesse di aiutare il proprietario a mantenere viva ed insoluta la questione a tempo indeterminato, per esimersi dalla regolare concessione definitiva, che importa l’obbligo di un deposito cauzionale e dei miglioramenti, Cangemi e Campogrande di Regalbuto (Catania), ettari 1.430. «Date le agitazioni dei contadini, al proprietario duca di S. Clemente non parve vero di mettersi d’accordo sul prezzo dei fondi e di rinunciare anche a qualsiasi diritto di riscatto. È lecito però dubitare che l’opera abbia fatto proprio bene a mettersi in una condizione fra le più difficili, senza la speranza di raggiungere nessuna delle sue finalità». Sbattuta fra la cassa rurale di S. Giuseppe, la cooperativa «terra e lavoro», filiazione del consorzio agrario, la cooperativa la «previdenza», l’opera ha tentato «di fare i contratti d’affitto ai singoli coloni coltivatori; ma il rimedio è stato forse peggiore del male, perché, nelle trattative di concessione, alla cooperativa popolare, a quella democratica, alla terza dei combattenti si è unito il gruppo di quei dissidenti che coltivano il terreno e quindi hanno il sacrosanto diritto di mantenerlo. Al coro si uniscono le associazioni e le federazioni delle cooperative dei combattenti ed a tutti non par vero di indicare alla pubblica indignazione, non la tipica baraonda che si agita intorno ai contadini combattenti, ma l’opera nazionale». Il direttore dell’opera conclude: «nella grandissima maggioranza dei casi l’opera nazionale dei combattenti, con i terreni espropriati, ha costituito, senza volerlo, le piazze d’armi per le grandi manovre delle fazioni locali. Chi è a continuo contatto di queste organizzazioni, deve dire con l’animo addolorato che, in molti casi, uno dei più gravi ostacoli che l’opera ha trovato per la soluzione del grande problema che si è proposto, è stato la profonda denaturazione della concezione cooperativistica, attraverso una rigogliosa vegetazione parassitaria» [xvii]
6 Il mito del controllo e la occupazione delle fabbriche
137. La rapida trionfale conquista delle otto ore nel primo anno del dopo guerra. Altre vittorie e l’ingrossamento della confederazione generale del lavoro. L’epidemia degli scioperi, anche nel servizi pubblici. – 138. È fondata la confederazione generale dell’industria. Il contrapposto delle due parti organizzate fa vedere i pericoli della lotta e la necessità di una soluzione che dia al lavoratore il diritto di controllare l’uso della cosa sua, il lavoro, ed insieme gli dia la gioia del lavoro. – 139. L’assalto alla fabbrica è agevolato dalla scarsa virtù intima della sezione più vistosa dell’industria, quella pesante, mancipia dei favori statali, concessi dai politici per comodità di tranquillo potere. – 140. Contro uno il quale tentò, di resistere, il cotoniero Mazzonis, lo stato, incapace a cacciare gli occupanti, usa l’arma della gestione pubblica per conto dell’industriale. Come l’arma, spuntata, sia stata lasciata cadere. – 141. Gli assalitori erano numerosi, ma discordi ed irresoluti. Comunisti e sindacalisti deridono i vecchi organizzatori e pongono il mito dei con sigli di fabbrica. Lo sciopero primaverile di Torino finisce con la sconfitta degli estremisti. – 142. Si vuole scomporre la macchina industriale per conoscerla a fondo. Il mito del controllo. La federazione metallurgica non giustifica la sua richiesta perché non conosce i costi, che essa ritiene di avere ragione di controllare. – 143. Ostruzionismo ed occupazione delle fabbriche. I tecnici si associano agli operai. Gli impianti prezioso patrimonio collettivo. – 144. Il governo vuol lasciare compiere l’esperimento per dimostrarne l’inanità. L’offesa alla legge non condusse a rivoluzione per mancanza nei capi di fede nella propria causa e per incapacità nelle masse. – 145. Il compromesso sancito il 15 settembre 1920 sulla base di un equivoco sul significato del mito del controllo è risoluto, attraverso discussioni ed offerte di reciproci compensi, dal sopravvenire della crisi economica, la quale trasforma la domanda di controllo in quella di inchiesta, mai condotta a termine.
137. – Alla occupazione delle fabbriche si giunse in città trascinati da miraggi simiglianti a quelli che nelle campagne avevano condotto alla invasione delle terre. La confederazione generale del lavoro chiede, sul finire del 1918, il trasferimento dal parlamento ai corpi consultivi sindacali della podestà di legiferare intorno ai rapporti fra capitale e lavoro, la socializzazione graduale del suolo e del sottosuolo, la concessione di opere pubbliche a cooperative di lavoratori, il diritto di controllo degli operai sulla gestione delle fabbriche, il frutto integrale del lavoro a chi lo ha prodotto. In attesa, si conquista con una campagna ardente, in pochi mesi del 1919, quella giornata di otto ore che era stata aspirazione ventennale delle classi operaie. L’una dopo l’altra, dopo lieve simulacro di resistenza, l’industria laniera, quella cotoniera, la serica, l’edilizia, la tipografica, la metallurgica, la chimica, quelle della gomma elastica, della carta, della macinazione e del pastificio, del vestiario e di altre categorie minori, cedono, rialzando i salari, in modo da far guadagnare agli operai salario eguale o maggiore a quello di prima. Lo stato accoglie il principio delle otto ore negli arsenali, nelle fabbriche d’armi, nelle ferrovie. Anche nell’agricoltura molti contratti agrari stipulati lungo il 1919 lo accettano, con qualche riguardo alle esigenze delle stagioni e dei lavori urgenti. (Bachi, 1919,401). Dove era stata più rigida la disciplina militare ed avrebbero dovuto sentirsi benefiche le conseguenze delle provvidenze di conciliazione e di fissazione d’autorità dei salari (cfr. parag. 55 a 58), più violenta fu l’agitazione. I metallurgici di Torino ottengono minimi di paga, con forti aumenti nelle mercedi orarie, così da attenuare notevolmente il vantaggio delle mercedi a cottimo. Ma gli industriali lombardi, liguri ed emiliani si rifiutano di accettare il principio di un minimo di paga in relazione all’età dell’operaio, indipendentemente dalla sua abilità produttiva; ed allo sciopero, proclamato dalla federazione metallurgica sul finire del luglio e durato sino alla fine di settembre, partecipano nelle tre regioni 200.000 operai: 100 milioni di lire di salari perduti, perdite ingentissime per le imprese; 5 milioni sottoscritti dalle altre categorie operaie; 8 milioni spesi dalle organizzazioni; un credito di mezzo milione di lire aperto dal municipio socialista di Milano per fornitura di derrate agli scioperanti. Grazie alla mediazione governativa, si giunge ad accettare il principio dei minimi di paga, dell’assorbimento delle indennità di caroviveri nelle tariffe di mercede, della riduzione dell’alea delle mercedi con aumento delle paghe orarie. Frattanto il concordato stipulato in principio del 1919 con il consorzio delle fabbriche di automobili aveva instaurato commissioni interne di fabbrica, i cui membri erano designati dalla organizzazione, rimanendo così estranei alla designazione i non affiliati. Accusata la federazione metallurgica di oligarchia esclusivista, le commissioni interne sono trasformate in consigli di fabbrica o di officina, con commissari di reparto, eletti da tutti gli operai, anche non organizzati: nucleo proletario che si apparecchiava al futuro dominio sulle fabbriche. Gli aderenti alla confederazione generale del lavoro aumentano come valanga. Nei primi mesi del 1919 si parlava di 600.000 affiliati; in ottobre gli iscritti sono saliti a 1.258.343, di cui 457.249 lavoratori della terra. Tra queste masse organizzate si propagano impeti di rivolta. Nell’industria tessile, in cui gli organizzati rapidamente erano saliti da 7 od 8 mila innanzi alla guerra a 35 mila alla fine del 1918 e ad 80 mila nel 1919, per tenui motivi riguardanti i minuti di anticipo o ritardo all’entrata ed all’uscita dallo stabilimento, 35 mila operai si mettono in sciopero. Dopo varie settimane, la questione rimane insoluta, aumentando invece i salari del 40%. Dalle industrie private, in quell’agitato 1919, gli scioperi si estendono ai servizi pubblici, per i quali la pace è comprata a caro prezzo con sacrificio dell’erario. Tra gli agenti dello stato si diffonde l’idea che alle loro associazioni debba essere affidata l’amministrazione della cosa pubblica. La formula «la ferrovia ai ferrovieri», trova largo favore. L’ondata di pigrizia estendendosi ai pubblici funzionari, tra cui sono numerosi gli avventizi assunti durante la guerra, aumenta gravemente il costo dei pubblici servizi. Persino i maestri elementari sospendono nel giugno la prestazione dei loro uffici, sia quelli aderenti all’unione magistrale rossa, sia quelli affiliati all’associazione cattolica Nicolò Tommaseo.
138. – Per tutto il 1919, il miraggio esercitato dalle frasi «nazionalizzazione dell’industria», «esercizio collettivo dell’impresa» «appropriazione dei mezzi di produzione», e dai miti dei «soviet» e dei «consigli di fabbrica» persuade agli operai che un mondo nuovo stava per sorgere. I consigli di fabbrica dovevano essere il nucleo dell’ordine nuovo. Per non lasciarsi sopravanzare dai sindacalisti e dai comunisti, la confederazione generale del lavoro propone di dare podestà legislativa al consiglio superiore del lavoro per tutto quanto si riferisce ai problemi del lavoro, riservato al parlamento il diritto di voto per una volta sola. Poiché nel consiglio il voto decisivo, fra le due frazioni operaia e padronale, spettava ai rappresentanti delle cooperative, delle società di mutuo soccorso, delle affittanze collettive, delle amministrazioni pubbliche e della scienza, ossia a uomini dalla psicologia operaia ed impiegatizia, si apriva la via facile a profonde trasformazioni sociali.
A porre un argine al pericolo imminente, si costituisce, per iniziativa dell’associazione delle società per azioni, nel 1919 la confederazione generale dell’industria, a cui tosto aderiscono tutte le associazioni padronali italiane. Operai ed industriali si trovano così di fronte, in masse compatte; e le lotte del lavoro acquistano importanza nazionale. Si vede immediatamente il sovvertimento che conseguirebbe all’attribuzione della podestà legislativa per le questioni del lavoro al consiglio superiore del lavoro: «Perché non dare ad un consiglio superiore del commercio e dell’industria il potere di legiferare sulle questioni di interesse degli industriali e dei commercianti? Ad ogni aumento di salario deliberato dal consiglio del lavoro, il consiglio del commercio risponderà con un aumento dei prezzi e dei dazi protettivi. Ed il consiglio dell’agricoltura si metterà in lotta con amendue per la difesa delle classi agricole; e tutti e tre con i consigli del mare, dell’impiego, dei professionisti» (C.d.S., n. 142 del 23 maggio 1919).
La guerra aveva posto in verità nuovi problemi di governo dell’industria.
Non si predica per anni ai soldati il dovere di combattere e vincere per la causa comune, senza radicare nella mente dei contadini, degli operai, degli impiegati, dei lavoratori l’idea che, al ritorno in patria dopo la pace, avrebbero trovato una cosa comune da godere. L’idea si concretava in forme infantili primitive: di un fondo in denaro contante, in oro da spartire senza più faticare, di una terra già lavorata che facilmente fruttasse al nuovo possessore, di una fabbrica feconda di proventi continui, superiori, nella immaginazione popolare, alle paghe stentatamente guadagnate col lavoro salariato. Ma l’idea grossolana conteneva un nucleo di verità profonda: che fosse finito il tempo della sovranità assoluta dell’imprenditore nella fabbrica per quanto riguardava i rapporti fra capitale e lavoro, ed instaurato il tipo del governo per consenso: «La vendita della forza di lavoro è la vera industria esercitata dai lavoratori. Il lavoratore non vende macchine, tessuti, giornali; vende forza di lavoro. Vuol venderla bene e in modo da essere interessato a crescere il valore della merce venduta che è il lavoro; vuole intervenire a fissare il modo in cui il suo lavoro è utilizzato, così da ricavarne nel tempo stesso vantaggio e piacere».
Il metodo classico del secolo decimonono, la lotta aperta fra leghe operaie e leghe padronali aveva mutato il problema: «Prima avversate, poi riconosciute, prima deboli e locali, poi regionali, nazionali, provvedute di fondi e potenti. L’ultima parola nei rapporti fra capitale e lavoro sembrava questa: che le leghe operaie discutessero liberamente, da pari a pari, con le leghe imprenditrici; e che dal libero urto sorgesse l’accordo sui punti controversi. Ad un certo punto si vide che essa non era la soluzione desiderata, perché una formula per risolvere la lotta, per eliminare il dissenso non creava il consenso. Le due parti stavano pur sempre armate l’una contro l’altra; non si conoscevano, diffidavano reciprocamente. L’accordo era una tregua provvisoria, una preparazione per la lotta successiva». Faceva d’ uopo fare un passo avanti. «Perché le due parti contendono? Sopratutto perché non si conoscono; perché l’una parte non ha voluto o potuto penetrare nella posizione mentale dell’altra. Ognuna di esse ha pensato solo a sé stessa, non agli interessi collettivi; ognuna è venuta in contatto coll’altra in momenti e con sentimenti di ostilità, di antagonismo, talvolta di sopraffazione … Oggi gli operai chiedono riduzioni di orario ed aumenti di paga come si chiederebbero ad un nemico; punto preoccupandosi se l’industria possa sopportare i nuovi oneri. Essi hanno ragione di non preoccuparsi delle sorti delle singole imprese che li impiegano … di salvare un’ impresa pericolante per inabilità dei suoi dirigenti; ma debbono imparare a non creare ostacoli inutili al progresso delle imprese migliori e alla adozione di sistemi tecnici perfezionati. Gli imprenditori dall’altro canto non conoscono le idee dell’operaio intorno al modo di lavorare, al tempo del lavoro, ai rapporti fra lavoratori e sovrastanti, sono portati ad interpretare sinistramente la resistenza che il lavoratore oppone all’introduzione di macchine veloci, di metodi di cottimo o di premi o di intensificazione del lavoro. Gli animi si inferociscono ed ognuno crede di essere derubato dall’altro; e alle adunanze delle leghe operaie e padronali si va coll’animo di fare «conquiste» o di resistere ad «assalti». Bisogna sostituire alla battaglia la discussione: «Quando si sia giunti a capirsi a vicenda ed a capire il meccanismo dell’industria, il suo funzionamento la sua vita di sviluppo e di concorrenza con le altre imprese, il dissidio non esiste più, perché più non esistono le classi in lotta. Gli operai avranno acquistato le qualità e le conoscenze necessarie per discutere, in materia di organizzazione del lavoro, le idee dei dirigenti e dare o negare il loro consenso. Gli imprenditori si saranno abituati a vedere se stessi come capitani di una collettività. Essi conserveranno l’ambizione di riuscire, di primeggiare, di vincere, perché questa è una qualità umana, la stessa che ha il capitano, il politico, lo scienziato. Essi però avranno veduto che non si può salire molto in alto, lasciando dietro a sé a grande distanza le moltitudini». Il consenso, dopo libera discussione, degli operai alle mutazioni nelle condizioni del lavoro, è condizione necessaria per dare all’uomo il supremo bene che è la gioia del lavoro.
«Non è l’amore del lucro che muove coloro che sanno la gioia del lavoro. È il piacere di fare, di perfezionarsi, di ottenere il risultato voluto.
Tolgasi la gioia del lavoro, ed il lavoro diviene insipido, quasi repulsivo. Se l’unico movente del lavoro è lo stipendio od il salario, è rotta la molla che spontaneamente spingeva l’uomo a faticare.
Vi erano e vi sono ancora molti lavori umili e manuali in cui esiste la gioia dei lavoro. È una gioia per l’artigiano indipendente finire il lavoro per il cliente e vedere questi contento della bontà dell’oggetto acquistato o della giustezza della riparazione eseguita. È una gioia per il contadino vedere l’albero o la vite potata, mondo il terreno dalle male erbe, difese le fronde ed i frutti dalle malattie … Bisogna che l’operaio dell’officina, che il lavoratore della grande agricoltura industriale ritornino a sapere che cosa è la gioia del lavoro. Ferrea deve essere la disciplina nella fabbrica; perché dal disordine non nasce nulla … Ma ognuno deve conoscere la ragione del lavoro compiuto; deve avere compreso perché il lavoro deve essere fatto in quel dato modo, per raggiungere quella meta. Non basta che le ore di lavoro si riducano, che la fabbrica sia chiara, luminosa, provveduta di bagni e di giardini; non basta che la casa linda e lieta di bimbi festanti e rallegrata dall’orto circostante attenda il lavoratore dopo la fatica quotidiana. Tutto questo è necessario a farsi. Dovrà farsi a poco a poco, a mano a mano che gli enti pubblici, gli industriali, gli operai sentiranno che la prosperità industriale è legata alla educazione, alla salute fisica, alla morigeratezza di una vita industriale attraente. Ma tutto ciò non è ancora un dar l’anima, che manca, al lavoro compiuto. L’uomo bruto, che pensa solo a mangiare e bere, sarà per sempre impenetrabile a questi sentimenti, a qualunque classe egli appartenga. Ma vi sono molti che hanno la sensazione della mancanza di un’anima nel lavoro che fanno. Costoro sono i conduttori di quelli che se ne stanno contenti alla vita animale. A costoro bisogna dare, pur nelle officine, pur negli uffici, la gioia del lavoro … Oggi il problema è posto. Sarà risoluto, come ogni altro, per tentativi. La discussione preventiva nei locali di fabbrica, di distretto e nei parlamenti nazionali del lavoro, appassionerà gli uomini al loro compito. Quando il compito giornaliero parrà ad ogni uomo cosa propria, voluta da lui, deliberata col suo consenso, in quel giorno a tutti gli uomini volonterosi sarà dato di godere la gioia del lavoro, uno dei beni supremi della vita» (C.d.S., n. 209 del 30 luglio 1919).
139. – Questa era la idealizzazione contemporanea di un movimento sociale il quale doveva invece avere atteggiamenti di asprissima lotta, suscitare vastissimi incendi e provocare violente reazioni. Durante il 1919 ed il 1920 antiche forze, ingigantite dalla guerra, operavano a facilitare l’assalto impetuoso delle masse operaie organizzate contro i fortilizi industriali. Tutto ciò che fu narrato nei capitoli precedenti ha provato che uno di questi fortilizi, il massimo agli occhi degli operai e del pubblico, quello siderurgico e metallurgico, non viveva di vita propria, ma delle protezioni e delle ordinazioni statali, e che le industrie meccaniche, delle costruzioni navali e della navigazione, le quali avrebbero potuto esserne indipendenti, avevano, per il congegno dei favori governativi, finito per annodare stretti legami con l’industria pesante. La guerra aveva accentuato la dipendenza dallo stato; un pattolo di moneta sgorgante dalle officine cartacee statali aveva, per necessità di difesa nazionale, consentito a quelle industrie di assoldare maestranze crescenti di numero a salari aumentati; e l’aumento dei salari aveva avuto la consacrazione dei comitati di mobilitazione industriale, organi dello stato.
Contro questi gruppi di industriali, male preparati a resistere, puntò l’esercito operaio organizzato, e gli industriali si volsero per aiuto allo stato. Questo, che non era stato capace a resistere alle domande dei suoi ferrovieri, dei suoi postelegrafonici, dei suoi impiegati e maestri, non fu capace parimenti di consigliare resistenza agli imprenditori; e se non nella misura richiesta da costoro (cfr. sopra parag. 124) facilitò la resa con promesse di forniture a prezzi di favore, di protezione doganale cresciuta, di credito largito a miti condizioni. Le elezioni generali, seguite dopo l’armistizio, avevano cresciuto a dismisura la forza politica dei rossi e dei bianchi, ossia di quei partiti i quali rappresentavano gli interessi delle classi lavoratrici e secondavano e promovevano le aspirazioni verso un profondo rinnovamento sociale, di cui si intravvedevano vagamente le linee; ma, appunto perché vago, il mito era tanto più potente lievito d’azione. Salvo pochissimi uomini, e questi non avevano potere reale, la classe politica non aveva ideali propri, non possedeva una concezione lungamente meditata dello stato. Era persuasa che si dovesse andare indefinitamente «avanti», che si dovesse «progredire» non «regredire». Pochi osavano dirsi conservatori e liberali; i più si chiamavano «democratici», e vi aggiungevano qualificativi arieggianti al «sociale», quasi mai al «liberale». Questi erano coloro che un tempo si chiamavano «conservatori». L’uomo più influente nel parlamento, l’on. Giolitti, s’era formata una sua filosofia della storia, per cui si doveva fare ogni sforzo per assorbire le nuove forze operaie e contadine nello stato, innalzarle a forze di governo, farle partecipi della vita pubblica. All’uopo, egli che era digiuno di cose economiche, sebbene praticissimo dell’amministrazione politica e finanziaria dello stato, abbandonava volentieri il governo dei dicasteri economici ai dilettanti di esperimenti nuovi, indulgeva alla demagogia finanziaria, persuaso che lo stato fosse salvo, quando in mani fidate si trovassero la polizia, le relazioni estere, l’esercito ed il tesoro.
La forza di resistenza ai miraggi millenari, alla ondata di ozio, alle aspirazioni tumultuarie verso condizioni di vita improvvisamente più elevate aveva altrove, non nello stato e nei gruppi industriali che ne dipendevano, radici vivacemente autonome: tra i proprietari medi e gli affittuari della pianura padana, tra gli artigiani e gli industriali indipendenti, addetti a quelle numerose industrie e quei mestieri, i quali non conoscevano lo stato se non per le imposte pagate, non chiedevano e non erano in grado di ottenere favori, se non per ripercussione di quelli largiti alla grande industria organizzata in potenti confederazioni. Da costoro, numerosi, sebbene disorganizzati, forti perché vicini ancora alla vanga ed all’arnese maneggiato in gioventù e non dimenticato del tutto, restii perciò a persuadersi della invincibilità della forza altrui, venne la resistenza. Non venne dai maggiori industriali, con cui gli operai si trovarono più direttamente in contatto. Era, tra coloro che maggior profitto avevano tratto dalla guerra, diffusa la convinzione che nulla in Italia potesse farsi senza lo stato, che la vita dell’industria dipendesse principalmente dall’aiuto governativo, dalla legislazione doganale favorevole; e perciò se lo stato era destinato a cadere nelle mani dei rossi, convenisse con questi venire a patti. Tuttalpiù, scetticamente, si pensava non fosse difficile, colla forza del denaro, mutare l’animo dei capi del movimento proletario e renderlo a sé favorevole.
140. – Tentò di resistere, solo tra i maggiori, un industriale piemontese, il barone Mazzonis, cotoniero a Pont canavese ed a Torre Pellice, capo di una famiglia in tre generazioni venuta su dal lavoro manuale con l’energia, la perseveranza, la lenta stratificazione di esperienze tecniche e commerciali; orgogliosa e gelosa della propria impresa non per ostentazione di potenza pecuniaria, ma per fine coscienza del gran posto che un’impresa ben diretta ha nel paese. La maestranza era da lunga consuetudine legata alla fabbrica, sorvegliate le operaie giovani immigrate da fuori in convitti diretti da suore, aiutata con distribuzione di legna nell’inverno, cure mediche, case operaie, lavoro continuato a perdita nei tempi di crisi. Si vantavano i Mazzonis di lavorare al costo minimo italiano, pur pagando salari non inferiori in media a quelli degli altri stabilimenti. Oltre una produzione minima l’operaio riceveva un premio addizionale, dal 70 al 200 per cento della tariffa base. Nel gennaio 1920 per divergenze sulle paghe e su minori questioni disciplinari e per incitamento di organizzatori venuti dal di fuori, gli stabilimenti sono chiusi. Volevano gli organizzatori che la ditta osservasse i concordati di lavoro stipulati fra l’associazione tessile e l’associazione padronale. Rifiutavano i Mazzonis, come quelli che, non avendo mai voluto far parte di alcuna associazione di industriali, non ritenevano di essere vincolati da concordati fra estranei; né tolleravano rapporti con leghe operaie, pur dichiarandosi disposti a riaprire le fabbriche ed a prendere in considerazione le richieste dirette dei propri operai. Ricorrono, dopo qualche settimana, gli operai alla commissione di conciliazione dei probiviri di Torino; ma i Mazzonis, regolarmente citati, non compaiono in giudizio. Ad un invito di abboccamento del prefetto di Torino, rispondono: il prefetto faccia il suo mestiere; non riconoscergli alcuna competenza nelle cose cotoniere. La commissione di conciliazione emette il lodo, semplice consiglio, privo di podestà obbligatoria ed in esso riconosce il principio invocato dagli operai: essere dovere degli industriali assumere la norma comune vigente nell’industria per consenso delle associazioni delle due parti. Il presidente della commissione di conciliazione aveva, anche secondo l’opinione allora prevalente nella scienza economica, ragione nell’affermare la convenienza di una norma comune. Ma era pacifico fosse lecita la costituzione di associazioni molteplici nel medesimo campo padrona le ed operaio; lecito per industriali ed operai tenersene lontani e lecito rifiutare osservanza ai concordati di lavoro stipulati dalle associazioni.
Col progredire dello spirito associativo nel campo della grande industria diventava ognora più difficile straniarsi dalle associazioni, sicché si generalizzava l’osservanza di una norma comune dei salari e delle condizioni di lavoro. Ma ritenevasi ancora da molti che la facoltà dei singoli di negare adesione alle associazioni ed osservanza ai patti da esse stipulate fosse conforme all’interesse generale, perché frenava il prepotere alterno dell’una o dell’altra parte e metteva altresì, colla costituzione di associazioni concorrenti, un limite agli accordi monopolistici di imprenditori ed operai, concordi nello spingere al massimo, rispettivamente, profitti e salari a spese dei consumatori e dei contribuenti. Soluzione questa, a cui facilmente erano trascinate le associazioni di industriali e di operai incapaci a trovare la soluzione da sé e vogliose di seguire la via del minimo sforzo.
Invece di rallegrarsi che un industriale osasse, solo, mantenere fermo una propria giuridicamente lecita veduta, il prefetto di Torino, a cui sarebbe bastata una pattuglia di carabinieri per mantenere l’ordine frammezzo a popolazioni di operai ancora legati alla vita rustica e tradizionalmente ossequienti all’ordine, ingiunse ai Mazzonis di uniformarsi al lodo della commissione di conciliazione di Torino, osservando che «il contegno della ditta, che si è rifiutata di riconoscere un giudizio pronunciato in conformità delle leggi dello stato e vuole escluderne l’applicazione tenendo chiusi i propri stabilimenti, costituisce offesa alle leggi».
L’ingiunzione equivaleva all’ordine di esercizio forzato degli stabilimenti.
I Mazzonis non rispondono all’ingiunzione.
Le maestranze, incoraggiate dal favore governativo e dall’assenza delle autorità preposte all’ordine pubblico, si impadroniscono degli stabilimenti; vi issano la bandiera rossa e li affidano alla gestione dei consigli di fabbrica. La stampa comunista esulta a questo primo esperimento di gestione collettiva operaia; che dicesi assicurato dall’esistenza di buone provviste di combustibile e di cotone, durature per tre a sei mesi; dalle promesse di un ente pubblico milanese di acquistare tutta la produzione e dalla certezza di ottenere il credito necessario. Tuttavia lo sperimento non si compie, poiché il prefetto di Torino, il che vuol dire il governo dell’on. Nitti, preoccupato che l’esempio divenisse contagioso, incarica un funzionario dello stato, l’ing. Mario Fusconi, di gerire gli stabilimenti per conto della ditta. Il gestore riammette operai ed operai, compresi quelli licenziati da ultimo, ad eccezione di quelli riconosciuti colpevoli di gravi riconosciute mancanze, applica i concordati stipulati dalle associazioni e dichiara che applicherà quelli futuri; istituisce le commissioni interne di fabbrica, con le attribuzioni consentite negli altri cotonifici della provincia. Dopo qualche tempo, vista la difficoltà di gerire l’impresa all’infuori di coloro che l’avevano creata e soli potevano procacciar credito, un decreto di derequisizione reintegra nel possesso i legittimi proprietari. All’atto della riconsegna, il gestore prefettizio deve riconoscere che dall’esame dei registri era risultato che le mercedi pagate dalla ditta Mazzonis erano superiori a quelle determinate dal contratto collettivo, stipulato fra le associazioni; ed alla constatazione dovevano forzatamente accedere i rappresentanti degli operai. (C.d.S., n. 54 del 3 e n. 69 del 20 marzo 1920).
141. – I Mazzonis, tacciati di testarda caparbietà nell’opporsi a mutamenti reputati fatali, non riscossero gratitudine dagli altri industriali. Questi altri, ed erano i più fra i grossi, furono salvi dalla discordia e dalla irresolutezza degli assalitori. Il gruppo più antico era divenuto troppo numeroso e difficile ad essere maneggiato. Dopo essere tanto cresciuta nel dopo guerra (cfr. 7 e 137), la confederazione generale del lavoro aveva visto ancora crescere le fila dei suoi aderenti da 1.159.062 nel 1919 a 1.926.861 nel settembre 1920; di cui 890.000 erano lavoratori della terra, 200.000 erano edili, 160.000 metallurgici, 155.000 tessili, 68.000 addetti al gas, 60.000 lavoratori statali, 50.000 chimici, 50.000 impiegati privati, 30.000 lavoranti in legno, 25.000 ferrovieri, 23.500 lavoratori in pelli, 22.400 lavoratori dell’arte bianca, 22.000 tranvieri, 21.000 cartai, legatori ed affini. I capi, vecchi organizzatori, i quali, attraverso gli alti e bassi dei cicli economici, avevano veduto crescere a poco a poco il movimento operaio dai primi contrastati inizi e conoscevano quanto facili fossero gli sbandamenti nell’ora della crisi, erano sbattuti fra la creduta necessità di dire parole grosse nei comizi e la opportunità sentita di ottenere risultati concreti di salario e di orario migliorati, di garanzia di continuità di lavoro, in previsione dei tempi duri che essi vedevano avvicinarsi. Ma tra i 2 milioni di affiliati rumoreggiavano gli estremisti, dai comunisti che volevano le fabbriche in mano a consigli di operai, ai sindacalisti i quali deridevano il «pompierismo» dei vecchi organizzatori, accusati di essere più devoti alle loro situazioni personali, più affezionati ai grossi fondi di cassa i quali davano sicurtà di stipendio che alle masse operaie, di cui misconoscevano la capacità di lotta.
La politica intesa a guadagni piccoli e graduali come preparazione a maggiori conquiste future non trovava apostoli in momenti di aspettazione messianica. Le folle esagitate aspirano al più, al tutto. Che non si sa che cosa sia; ma in quell’estate 1920 prende il nome di «consigli di fabbrica», dichiarati cellule della nuova società comunista, emanazione diretta degli operai, forza fresca e nuova non contaminata dalla burocrazia delle associazioni sindacali, organi destinati ad assumere il controllo e poi la gestione diretta degli stabilimenti industriali. Alla scuola dei consigli, gli operai avrebbero imparato a governare la fabbrica.
In verità, i consigli non ebbero e non potevano avere alcuna virtù di rinnovamento morale e di addestramento tecnico. Furono scuola di lotta, la quale ebbe il suo centro a Torino, in quel nucleo di operai metallurgici e meccanici appartenenti alle industrie a cui la guerra era stata più larga di guadagni e che per continuare nella loro presente prosperità avevano maggior bisogno di protezione statale. In quel gruppo, i comunisti avevano fatto breccia, sì da straniarlo dalla vecchia federazione metallurgica (Fiom), la quale, sebbene accesa più della confederazione generale del lavoro, di cui faceva parte, e non aliena dal dar battaglia, vedeva con rincrescimento che le fosse presa la mano dagli esaltatori dell’operaio contro l’organizzatore, dell’azione diretta di fabbrica contro l’organizzazione nazionale dell’intiera massa metallurgica. Perciò, forse persuasa giovasse lasciar giungere qualche sperimento all’insuccesso, non si oppose al moltiplicarsi di scioperi, di cui il primo, durato dal 29 marzo al 23 aprile 1920, ebbe futilissima causa: lo spostamento della lancetta degli orologi interni di controllo effettuata arbitrariamente da membri della commissione interna di uno degli stabilimenti della Fiat in segno di protesta contro il mutamento dell’ora legale nei mesi estivi, provvedimento adottato in tempo di guerra in molti paesi belligeranti a risparmio nella spesa di luce artificiale e conservato in alcuni anche dopo, per la ovvia convenienza ed il verun scomodo. La direzione deliberò contro i colpevoli sanzioni disciplinari, essendo le quali parse minacciose verso il principio della commissione interna, gli operai presero possesso delle officine, ne scacciarono i dirigenti e vi rimasero per 3 giorni, insino a quando non ne furono espulsi dalla forza pubblica. La vertenza, imperniata sul punto se le commissioni interne debbano funzionare dentro o fuori dell’orario di lavoro e se gli operai abbiano il diritto, durante il lavoro, di conferire coi commissari, si estende a tutta la massa metallurgica e meccanica. Era palese l’intendimento operaio di mutare la disciplina verso i dirigenti in quella verso i propri eletti, sovvertendo così ogni possibilità di ordine e di continuità del lavoro nella fabbrica. Il 13 aprile lo sciopero diventa generale ed ha come meta la «costituzione degli organismi di officina per il disciplinamento autonomo della massa e per il controllo della produzione». Lo sciopero durò 11 giorni e, dice il cronista diligentissimo di quegli anni, «fu certamente per la sua estensione il più notevole movimento di solidarietà che si ricordi in Italia: tutte le officine chiuse; dei pubblici servizi continuarono a funzionare solo quelli più importanti ed in misura ridotta; scioperarono le guardie municipali e daziarie, i tranvieri, i ferrovieri, i postelegrafonici. Gli scioperanti superarono in complesso i 100.000. L’astensione dei ferrovieri dal servizio molto contribuì ad aggravare ed estendere il conflitto tanto più che tale astensione ebbe luogo non solo a Torino, ma in altre città del Piemonte ed interruppe anche più largamente le comunicazioni per il rifiuto dei ferrovieri di Liguria e Toscana di condurre treni su cui fossero soldati o agenti di pubblica sicurezza». Il governo si mantenne estraneo; e gli industriali diedero prova di «resistenza accanita assai più che negli altri conflitti di quel tempo e riuscirono pienamente vincitori, conseguendo il mantenimento del precedente regolamento per le commissioni interne e l’impegno che i rapporti fra queste e gli operai avrebbero luogo fuori dell’orario normale di lavoro, evitandosi così il perturbamento dell’opera produttiva», frutto dei «frequentissimi richiami a singoli operai» e delle «frequentissime assemblee generali con interruzione del lavoro, indisciplina delle maestranze, e perturbamento dell’ordinamento generale delle officine», a cui indulgevasi prima dello sciopero dalle commissioni interne. (Bachi, 1920, 343).
Per breve ora, dopo l’insuccesso primaverile di Torino, la vecchia prudente guardia riformistica della confederazione generale del lavoro, i D’Aragona, i Buozzi, eredi di Rigola, hanno il sopravvento sui giovanissimi scrittori dell’«Ordine nuovo», i quali vogliono fare la rivoluzione sociale attraverso i consigli di fabbrica. Al congresso metallurgico tenuto alla fine di maggio a Genova, «Buozzi è stato violento e sarcastico e spietato contro questi rivoluzionari cartacei. Ha detto che la rivoluzione non si fa promettendo agli operai il paradiso in terra, disabituandoli al lavoro, disorganizzando ed interrompendo per futili pretesti la produzione, provocando il fallimento del mondo, per istaurare sulla rovina di esso la dittatura del proletariato. Ed ha, candidamente, confessato la sua angosciosa preoccupazione che il trionfo del socialismo possa significare la necessità per i dirigenti di dovere, come fa Lenin, fucilare operai, molti dei quali sono portati ad immaginare che trionfo del socialismo voglia dire diritto di vivere senza lavorare; ed ha brutalmente ricordato che vivere senza lavorare non si può se non ci sono altri i quali lavorano per mantenere i fannulloni».
142. – Prima che le maestranze si riconciliassero col lavoro, diceva d’ uopo tuttavia che esse, attraverso una dura prova, imparassero la necessità di non distruggere la macchina esistente prima di crearne una nuova. «I rivoluzionari sono come i bambini; vogliono scomporre e fare a pezzi la macchina produttrice per vedere come è fatta dentro e nella illusione infantile di poterne rimettere a posto i pezzi meglio, senza gli attriti odierni che essi attribuiscono al capitalismo. Non si accorgono che solo l’esistenza ed il continuato funzionamento della macchina fanno vivere gli uomini. Può darsi, anzi è certo che la macchina sia imperfetta e funzioni con molti attriti. Tuttavia funziona e grazie al suo lavorare continuo gli uomini vivono. I medici, i quali conoscono la complicazione meravigliosa del corpo umano, i miracoli di adattamento per cui organi apparentemente minimi consentono, col loro tranquillo lavoro, la vita del tutto, talvolta rimangono terrorizzati al pensiero della morte improvvisa che potrebbe sopravvenire se uno solo di questi minuscoli organi cessasse di funzionare … Chi ripensi all’intreccio ancor più meraviglioso di forze e di funzioni, per cui la società vive, al delicatissimo e complicatissimo meccanismo creato da secoli di sforzi, il quale consente la vita ai 700, ai 500, ai 400 mila abitanti delle grandi città industriali e commerciali come Milano, Torino, Genova, rimane terrorizzato dall’idea delle sofferenze fisiche inaudite, della fame, delle malattie, delle pestilenze, delle morti che si abbatterebbero su queste agglomerazioni umane quando per qualche giorno o qualche mese fosse rotta la trama della vita economica, fosse spezzato il meccanismo dei trasporti, del credito, del lavoro che oggi consente di approvvigionare e far vivere le grandi città» (C.d.S., n. 127 del 28 maggio 1920).
Questo sperimento dello scomporre la macchina della produzione sociale si volle appunto compiere dagli operai durante l’estate e l’autunno del 1920.
Il nuovo mito in nome di cui l’esperimento fu tentato ebbe nome di «controllo» ed i mezzi adoperati furono l’ostruzionismo e l’occupazione delle fabbriche. L’inizio è dato dalla presentazione tra il maggio ed il giugno da parte delle quattro organizzazioni socialista, anarchica, interventista e cattolica di separati memoriali alla associazione metallurgica per addivenire ad una nuova sistemazione delle condizioni di lavoro. Tra le molte richieste, significativa quella della federazione metallurgica socialista (Fiom) di un aumento di mercede di lire 7,20 al giorno per i maschi adulti, su un medio salario preesistente di lire 18 compreso il caroviveri e di 12 giorni di ferie annue retribuite. Fondamento della richiesta: il rialzo del costo della vita e la conquista di simiglianti concessioni in altre industrie. L’organizzazione industriale (Amma) replica: essere già i salari dei metallurgici aumentati in ragione del crescere del costo della vita dimostrato dai bollettini statistici della città di Milano, non sospetti perche compilati da un’amministrazione socialistica; non essere le condizioni di altre industrie paragonabili a quelle della metallurgica e traversare questa una crisi profonda di ordinazioni, di mezzi finanziari, di scemata produttività del lavoro. La federazione controreplicando, nega il suo obbligo di dimostrare che le richieste operaie siano sopportabili dagli industriali. Costoro «avranno diritto di pretendere tale dimostrazione solo quando avranno concesso il diritto o la possibilità di controllare seriamente l’andamento delle aziende industriali». Discussioni e carteggi non valgono; il 13 agosto gli operai sono fermi nel chiedere aumento di salario per il cresciuto costo della vita; rigidi gli industriali nel negare miglioramenti non compatibili colla produttività del lavoro e le condizioni economiche dell’industria. La federazione metallurgica proclama l’ostruzionismo in tutti gli stabilimenti metallurgici, meccanici e navali d’Italia. Il 20 agosto la nuova tattica è spiegata chiaramente: gli operai, anche se licenziati, rimangono al loro posto; la produzione è ridotta al minimo determinato dall’osservanza ostentata e scrupolosa delle norme tecniche e regolamentari prescritte per il compimento dei singoli atti di lavoro. Se gli industriali, stanchi, proclamano la serrata, gli operai hanno l’ordine di penetrare a forza negli stabilimenti. Non più come con lo sciopero, l’affermazione del diritto del l’operaio di disporre della forza di lavoro, che è cosa sua; ma l’affermazione del diritto al posto di lavoro, da cui l’imprenditore non può cacciare l’operaio.
143. – Si camminava sul filo di un rasoio. Nonostante le raccomandazioni di calma dell’associazione padronale, un minimo incidente poteva suscitare vasto incendio. Il 30 agosto la direzione delle officine Romeo in Milano, insofferente per l’ostentato ostruzionismo, di sua iniziativa proclama la serrata. Immediatamente il comitato di agitazione della Fiom ordina agli operai di occupare lo stabilimento. Nel manifesto si legge: «nessuno abbandoni le officine e ognuno vi rimanga col preciso scopo di lavorare fino a quando sarà tolta la serrata in tutti gli stabilimenti. Gli industriali hanno per difesa la forza armata; dimostriamo che la nostra forza è superiore, è la forza del lavoro e la fede nella causa. Rimanete ai vostri posti, lasciate intatte le macchine, mantenetevi con fede nella battaglia». All’occupazione aderiscono gli organizzati nell’unione sindacale, ed a poco a poco essa si estende, anche laddove gli industriali non proclamano la serrata, a tutti gli stabilimenti metallurgici e meccanici specie nell’Italia settentrionale.
Grandi e piccoli stabilimenti, modesti laboratori sono occupati. Il mito dell’occupazione si impadronisce dell’animo della classe operaia, anche all’infuori della industria interessata nel conflitto. Tra la commozione vivissima dell’opinione pubblica, i comunisti veggono prossimo il giorno dell’instaurazione dell’ordine nuovo.
Le forze spirituali dei ceti dirigenti industriali si allentano; una parte dei tecnici è transfuga nel campo operaio. L’associazione generale dei tecnici delle industrie metallurgiche ed affini denuncia la diffida ricevuta dagli industriali di non entrare negli stabilimenti e di non prestare opera a pro del nuovo regime violentemente instauratosi nelle fabbriche, come «una precisa manovra intesa a far uscire i tecnici dalla loro linea neutrale di condotta per farsene un’arma contro gli operai» e riafferma «il proprio preciso intento di continuare a prestare la propria opera in officina a garanzia della conservazione dei mezzi di produzione», opera necessaria in un momento in cui «gli industriali mostrano di disinteressarsi completamente delle sorti del prezioso patrimonio collettivo di macchine ed attrezzature costituito dalle officine invase». Che le officine, gli impianti, le macchine fossero «prezioso patrimonio collettivo» è affermato, oltreché dai tecnici, diretti collaboratori degli industriali, dall’on. D’Aragona, uno dei più misurati capi della confederazione del lavoro: «l’occupazione degli stabilimenti attuata dagli operai in forma tranquilla e senza atti di sabotaggio, non costituisce un atto di violazione del diritto. Il lavoro ripreso regolarmente dimostrerebbe anzi il fermo proposito delle masse di non recare alcun danno all’economia nazionale, mediante una diminuzione della produzione
144. – Il passaggio dalla proprietà privata a quella collettiva, la fine dell’ordinamento sociale fondato sulla iniziativa individuale pareva avvenire così pacificamente, coll’acquiescenza del governo. L’occupazione non era, a chi guardava gli atti del governo, considerata atto illegale. A parole, assai remissivamente si teneva ancora fede all’ordine esistente. Il ministro del lavoro, on. Arturo Labriola, osservava «che nella controversia il governo ha sempre cercato di mantenere una posizione di perfetta neutralità ed ha fatto e farà tutto il possibile per vedere di ricondurre la lotta sul terreno della legalità, mediante la ripresa delle trattative; ma tutte le volte che vi siano tentativi, da una parte o dall’altra, di attuare mezzi arbitrari o violenti, si vedrà costretto a fare intervenire la forza pubblica in difesa del diritto privato o dell’ordine giuridico minacciato». Ma alle parole non rispondevano i fatti. «La forza pubblica – narra un testimone – assiste impassibile all’invasione degli stabilimenti, all’organizzazione di una nuova polizia, la quale difende il possesso degli stabilimenti con scolte, sentinelle, sequestro di persone; costruisce reticolati percorsi da forti correnti elettriche per impedire l’accesso agli stabilimenti ai vecchi proprietari ed alla forza pubblica. Che più! si collocano mitragliatrici all’entrata e sui tetti degli stabilimenti e la pubblica forza, mandata in spedizione notturna per cercare di sottrarre agli invasori un numero non piccolo di mitragliatrici ed un certo quantitativo di munizioni, è costretta a retrocedere dinanzi alle forze armate dell’esercito rosso, decise ad usare le armi, mentre evidentemente ai difensori dell’ordine vigente era vietato di farne uso» (C. d. S , n. 215 del 7 settembre 1920).
Il presidente del consiglio del tempo, on. Giolitti, strenuamente difese la politica assenteista del governo. Essere non meno di 600 mila gli invasori delle fabbriche ed impari le forze di polizia alla bisogna della difesa di tutti gli stabilimenti occupati.
Unico effetto della tentata difesa, il chiudere tutte le guardie regie, i carabinieri e la forza di polizia entro gli stabilimenti, togliendo loro la possibilità di mantenere l’ordine per le vie e le piazze. Gli operai essere decisi, in caso di conflitto colla forza armata a far uso delle armi accumulate nelle fabbriche; le quali si vide poi essere state copiose poiché, quando gli operai, sgombrando, presumibilmente ne recarono con sé la maggior parte, la polizia riuscì ancora a raccattare, oltre a parecchie migliaia di fucili, rivoltelle e bombe a mano ed armi bianche di ogni genere, cento tonnellate all’incirca di cheddite e di nitroglicerina. Grave dunque il pericolo che, in caso di sanguinoso conflitto, gli operai, prima di abbandonare gli stabilimenti, li devastassero ed in parte li distruggessero.
In verità, mancò all’una ed all’altra parte un capo deciso a valersi delle armi possedute. Gli occupatori non osarono rompere con un atto di violenta presa di possesso dei poteri pubblici l’incanto che costituiva l’ultima forza dello stato sorto dal risorgimento italiano. Se l’avessero osato, non avrebbero trovato resistenza, la repugnanza allo spargimento della benché minima goccia di sangue cittadino essendo radicatissima in coloro che da un ventennio avevano la somma responsabilità della cosa pubblica. Incerti intorno all’uso che sarebbe stato fatto della forza per la difesa degli ordinamenti politici esistenti, gli assalitori sapevano però che sangue non sarebbe stato sparso per la sola difesa di interessi economici, che la generazione politica sorta innanzi al 1900 reputava secondari e di cui apertamente diffidava. Per questa repugnanza a far uso delle armi fu, come sempre, sparso molto sangue di cittadini e di soldati, e quanto facile fosse, senza quella repugnanza, vincere la tracotanza delle plebi fatte sicure dalla impunità fu chiaro per la loro fuga disordinata nei pochi casi in cui qualche ufficiale, impaziente degli insulti da troppo tempo patiti, diede ordine ai suoi uomini di caricare, anche a semplice scopo dimostrativo, i violatori della legge.
Se l’offesa alla maestà della legge, al prestigio dello stato ed alla dignità degli uomini che lo rappresentano fu irreparabile, il calcolo dell’on. Giolitti fu dai fatti accaduti chiarito giusto. Egli afferma nelle sue memorie e non v’ha ragione di dubitare che tale fosse il suo proposito, di aver voluto «lasciare che l’esperimento si compiesse sino ad un certo punto, perché gli operai avessero modo di convincersi della inattuabilità dei loro propositi ed ai caporioni fosse tolto il modo di rovesciare su altri la responsabilità del fallimento»; ottenendo «l’ulteriore vantaggio di togliere agli stessi operai molte illusioni pericolose inducendoli a cominciare a diffidare delle parole lusinghiere di chi li spingeva ad esperimenti che avevano dato risultati ad essi dannosi»[xviii]. Mancò il capo capace di raccogliere la sfida mollemente lanciata da uomini di governo dimentichi che il loro dovere non è di lasciar compiere, ad ogni volgere del vento politico, pazze sperienze, ma di far osservare la legge esistente frutto secolare delle esperienze dagli uomini compiute in passato. Indecisi i dirigenti, persuasi anzi i più vecchi e sperimentati organizzatori della follia dello sperimento e di quella che essi chiamavano la «immaturità economica» delle masse lavoratrici, troppo imbevuti di vecchia civiltà per assumere senza raccapriccio la responsabilità della fame, degli stenti e della tirannia feroce a cui avrebbero trascinato per decenni il loro paese, se nonostante tutto avessero lasciato compiere lo sperimento comunista di cui essi già si erano disamorati; mancanti tuttora di organizzazione efficace i comunisti, capitanati da intellettuali usati allo scrivere e non al comandare e guasti dal consueto affollarsi di saltimbanchi politici avidi di voti ma paurosi di fucili anche sparati a salve, lo sperimento dell’invasione delle fabbriche si volse a danno degli occupatori. I quali erano entrati negli stabilimenti, persuasi che bastasse la loro presenza perché il capitale coadiuvasse il lavoro e consentisse la produzione.
Laddove il capitale è cosa inerte: mura macchine ed attrezzi che tecnici imprenditori amministratori soltanto fanno muovere; ai quali solo il credito e la fiducia danno anima e vita. Ingenuamente, in un primo momento, gli operai pensarono che solo l’ostinazione tenesse lontani i dirigenti: e vollero persino a viva forza trascinarne qualcuno negli stabilimenti occupati. Ma ai tecnici coatti mancava l’animo; ma agli improvvisati amministratori mancò il credito per acquistare nuova materia prima e combustibile e macchine nuove e mancò l’affiatamento colla clientela per vendere i prodotti. Avrebbe fatto d’uopo impadronirsi altresì dell’organizzazione commerciale, occupare le casse di risparmio e le banche; compiere in pieno l’esperimento della trasformazione comunistica. Opera di decenni e di privazioni dolorose; come si vide e si vede dove il comunismo trionfò. Ma in Italia, priva di carbone di cotone di lana di ferro, dove il ceto medio era assai più numeroso che in Russia, le incognite della trasformazione sarebbero state assai più. Si tentò di organizzare, entro le fabbriche, la lavorazione: si crearono commissioni interne per dirigere le maestranze, si ordinò agli operai di non guastare gli impianti, salvo fosse espressamente ordinato, e di non eseguire lavori per conto proprio; si disposero rapidi inventari e si vollero accuratamente registrate le operazioni relative alla gestione delle imprese. Ma, nonostante qualche entusiasta predicasse alla classe operaia la necessità di dare la dimostrazione della propria capacità al governo dell’industria, questa, abbandonata a gente non perita e non disciplinata, diede risultati di produzione insignificanti. La situazione poteva diventare veramente rivoluzionaria se i capi del movimento socialista avessero profittato della rivolta degli operai di fabbrica per muovere all’assalto del regime. Questo volevano a parole, taluni capì; ma quando l’11 settembre a Milano, gli organizzatori paghi della lotta nel campo economico vinsero con 531 contro 245 voti dati ai politici, i quali avrebbero voluto la battaglia integrale, ma avevano tratto a sé solo 409.569 voti di organizzati, astenendosi 93.625, i capi si rassegnarono facilmente.
La rivoluzione sociale non fu tentata e l’occupazione delle fabbriche in sé medesima ridotta, non poté durare, per mancanza di contenuto ideale.
145. – Trattavasi solo di negoziare un compromesso tra due parti mosse da uguali stimoli puramente economici: il desiderio degli industriali da un lato di salvar qualcosa dal naufragio al quale la proprietà privata sembrava votata, la stanchezza d’altro lato degli operai, oramai persuasi di non essere capaci a risolvere la situazione e bisognosi di salari, indussero gli animi al componimento. Questo fu agevole per i particolari economici; essendosi convenuto il 19 settembre si dovesse dare un aumento di 4 lire al giorno per gli adulti, 6 giorni di ferie annue retribuite, indennità di licenziamento agli operai aventi più di 3 anni di anzianità ed indennità di caroviveri variabile secondo i mutamenti del costo della vita. Più momentoso l’accordo sulla questione di principio. Le due confederazioni del lavoro e dell’industria si incontrarono, in seguito ad intervento del presidente del consiglio, la prima nel richiedere fossero modificati «i rapporti finora intercorsi fra datori di lavoro ed operai, in modo che questi ultimi, attraverso i loro sindacati, siano investiti della possibilità di un controllo sulla industria, motivato con l’affermazione che con simile controllo è suo proposito di conseguire un miglioramento dei rapporti disciplinari fra datori ed imprenditori d’opera ed un aumento nella produzione al quale è a sua volta subordinata una fervida ripresa della vita economica del paese»; e la seconda col non opporsi «che venga fatto agli stessi fini l’esperimento di introdurre un controllo per categoria di industrie». Il presidente del consiglio, preso atto dell’accordo, decretò il 15 settembre venisse costituita «una commissione paritetica, formata da sei membri nominati dalla confederazione generale dell’industria e sei dalla confederazione generale del lavoro; fra cui due tecnici o impiegati per parte, la quale formuli quelle proposte che possano servire al governo per la presentazione di un progetto di legge, allo scopo di organizzare le industrie sulla base dell’intervento degli operai al controllo tecnico e finanziario ed all’amministrazione della azienda».
L’annuncio dell’accordo sul principio del controllo e della nomina di una commissione incaricata di proporre le norme per la sua attuazione fece grandissima impressione, quasi si trattasse di una presa di possesso legale dell’industria da parte operaia; sopratutto all’estero, nei paesi anglosassoni, dove la parola «controllo» assume significato di padronanza effettiva. Né diversa era, sebbene nebulosamente concepita e non veduta in tutte le sue necessarie logiche conseguenze, l’intenzione della parte operaia, per la quale l’idea o mito del controllo era un travestimento dell’altra idea o mito del consiglio di operai padroni della fabbrica, gerita da industriali mandatari, nella stessa maniera come il contratto a compartecipazione di Soresina doveva preludere alla gestione della terra a mezzo dei contadini (cfr. parag. 133). Ma la idea originaria andò man mano attenuandosi, lungo gli interminabili dibattiti della commissione, così come prevedeva il capo del governo il quale, con la consueta bonaria stupefatta ingenuità, si meravigliava che altri si allarmasse per una parola la quale in Italia aveva tradizionalmente il significato di «vigilanza» o di «verifica».
Profonde apparvero senz’altro le divergenze tra le due parti. Volevano gli uni che il controllo fosse esercitato per ogni singola ditta da commissioni o consigli nominati dagli operai a quella appartenenti; laddove altri preferiva un controllo per singole industrie affidato a commissioni scelte dai sindacati operai. A rendere il controllo efficace, la confederazione del lavoro voleva che i controllori operai fossero ammessi nel consiglio di amministrazione delle società anonime e ad essi attribuiva, per le singole imprese, il diritto di «prendere visione di tutto l’andamento delle aziende»; ossia di esaminare i conti di ogni impresa, allo scopo di appurare i costi di produzione, i prezzi di vendita, i metodi di fabbricazione.
Limitato il diritto di scelta del personale da parte dell’imprenditore; la scelta fatta per ordine di anzianità di iscrizione in un registro di uffici di collocamento gestiti da sindacati operai; obbligo di dimostrare che il rifiuto eventuale di talun aspirante non fosse dovuto a motivi personali o politici o sindacali, sì a puri motivi tecnici; contestabili i licenziamenti dalla rappresentanza operaia.
Ben sapendo che vincoli così rigidi avrebbero recato grave onere all’industria, la parte operaia si preoccupò di renderli accettabili a mezzo di compensi durante la guerra già stati offerti a scemare il danno dei calmieri e delle requisizioni (cfr. parag. 117). La fantasia degli uomini nel campo dei ritrovati economici essendo limitatissima, la confederazione del lavoro propose nuovamente si limitasse il numero degli esercenti industria: «Tutti coloro che dopo due anni dalla entrata in vigore della legge sui controlli individualmente o in forma associativa intendono intraprendere qualsiasi lavorazione industriale dovranno rivolgere domanda di informazione alla commissione superiore di controllo per le industrie.
La commissione dovrà entro brevissimo tempo far conoscere a chi di dovere se la creazione di nuove industrie è necessaria ed utile in Italia o se è sconsigliata per qualsiasi ragione». Scriveva un commentatore: «in cambio del monopolio che la confederazione del lavoro si arroga di assoldare, licenziare, punire gli operai nelle industrie, in cambio del terroristico dominio che essa col controllo vuole assicurarsi sulle masse operaie, essa promette agli industriali «esistenti» il monopolio del mercato interno … Guai ai nuovi, guai a chi non esercitava già prima l’industria … Egli potrà impiantare un’impresa solo se la «superiore» commissione di controllo dirà che la sua impresa è «necessaria ed utile» al paese e se il ministro gli darà il permesso di esercizio». (C.d.S., n. 260 del 29 ottobre 1920).
La confederazione bianca dei lavoratori cattolici traduceva il concetto del controllo nell’antico ideale della partecipazione degli operai agli utili dell’azienda; il quale, raramente vantaggioso se dovuto a volontaria iniziativa di imprenditori entusiasti ed a collaborazione volenterosa di lavoratori di eccezione, si sarebbe trasformato, diventando obbligatorio, in irritante strumento di controllo pieno sull’azienda.
La confederazione generale dell’industria fece opera di critica e di resistenza a disegni che avrebbero resa ardua la vita delle imprese; ed ai suoi concetti finì sostanzialmente per inspirarsi il progetto governativo il quale imponeva un controllo centrale e non locale, quasi una vigilanza esercitata da un consiglio superiore del lavoro e dell’industria col raccogliere dati statistici intorno al costo delle materie prime, ai costi di produzione, ai metodi di amministrazione, agli utili. Non ammessa la partecipazione di controllori ai consigli di amministrazione; vietato ad essi di comunicare pubblicamente od a terzi i dati raccolti.
A nulla approdò tanto strepito di rivoluzione. Le fabbriche erano state occupate nel momento critico in cui il ciclo economico si infletteva dalla prosperità verso la crisi. I ribassi dei prezzi, la scemata operosità, la incipiente disoccupazione furono attribuiti dagli industriali italiani e dalla stampa quotidiana alle agitazioni operaie. In verità lo spirito rivoluzionario crebbe finché volsero favorevoli le circostanze economiche ed era frutto della esaltazione inflazionistica del dopo guerra; e venne calmandosi a mano a mano che quella esaltazione dava luogo a riflessioni liquidatrici. L’occupazione, venuta quando il vento mutava, non era del tutto riuscita sgradita agli industriali, a cui dava occasione di interrompere l’accumulazione di merce invenduta, attribuendo, rispetto ai clienti ed al pubblico, ai mestatori la colpa di ciò che si sarebbe voluto ma non si osava da sé fare. Coll’inasprirsi della crisi, la posizione operaia diventava come sempre prima e dopo, di semplice difesa. Un anno dopo, verso la fine del 1921, più non si parlava di «controllo» ossia di padronanza degli operai sull’industria; ma di «inchiesta». Si vuole studiare se le condizioni dell’industria richieggano davvero quella riduzione di salari che gli industriali ritengono necessaria. Cominciava l’esame di coscienza, che è arra sicura di rinascita.
[i] Per una critica contemporanea del mito dell’economia associata, cfr. la mia prefazione ad un sunto del libro Die Neue Wirtschaft, di Walter Rathenau pubblicato da Bruno Alessandrini in La Riforma Sociale, 1919, vol. XXIX, pagina 405 e segg.
[ii] Se danno in sostanza non ci fosse, non è possibile appurare finché non si sappia se, nonostante calmieri e razionamenti, i guadagni dei consorziati non siano stati di fatto superiori al normale.
[iii] Bonaldo Stringher, Relazione del direttore generale alla adunanza generale degli azionisti della Banca d’Italia, tenuta in Roma il 31 marzo 1917, p. 22.
[iv] Ettore Bravetta, I fabbri di guerra, Genova, 1930.
[v] Bonaldo Stringher, Relazione del direttore generale alla adunanza generale degli azionisti della Banca d’Italia, tenuta in Roma il giorno 30 marzo 1922, p. 34.
[vi] Nella versione fornitane sull’Avanti! del 5 dicembre 1920 dal prof. Attilio Cabiati, il quale lo ebbe sott’occhio.
[vii] L’autorizzazione data in quel torno di tempo al consorzio sovvenzioni su valori industriali a portare a 500 milioni il volume delle sue operazioni; l’aumento avvenuto di fatto di 350 milioni in quelle sovvenzioni; l’avvicinarsi della circolazione verso la fine del 1920 ai 22 miliardi sono altrettante prove dell’accelerato intervento statale a pro dell’industria.
[viii] Serpieri, La guerra e le classi rurali italiane, Bari, 1930, in questa collezione, p. 82.
[ix] M. Pantaleoni, nel dicembre 1918, ristampato in La fine provvisoria di un’epopea, Bari, 1919, pp. 92-93.
[x] Nel suo discorso alla camera del 26 giugno 1920, che riassumeva propositi precedenti e fu pubblicato poi in opuscolo col titolo per l’appunto di Rifare l’Italia!, Milano, 1920, p. 87.
[xi] Intervista con un corrispondente del «Secolo», riprodotta nel «Corriere della Sera», n. 313 del 13 novembre 1919.
[xii] Da un diligentissimo studio del dottor Giuseppe Rocca, L’occupazione delle terre «incolte» da parte delle associazioni di lavoratori, in «La riforma sociale», del maggio-giugno 1920, vol. XXXI, p. 221 e segg.
[xiii] Restituite, quando l’ondata degli invasori si ritirò, le terre ai Fortunato, il tentativo di occuparle fu ripetuto sullo scorcio del 1926 da un sindacato agricolo fascista di Lavello, il quale pretese che 240 ettari della tenuta di Gaudiano fossero «rimasti in completo abbandono». Il direttore della cattedra ambulante di agricoltura per la Basilicata, prof. G. Baudin, dimostrò che non trattavasi di incolti, ma di terreni utilizzati in armonia delle esigenze dell’insieme della tenuta. Ed i richiedenti erano tutti medi e piccoli proprietari, vogliosi di distruggere la fertilità dei migliori pascoli della valle dell’Ofanto a sussidio della incapacità di trarre partito dalle proprie terre. Il tentativo, perciò, cadde. Cfr. Giustino Fortunato, L’ultima avventura (gennaio-aprile 1927). Appendice al volume secondo di Pagine e ricordi parlamentari, editore Vallecchi, Firenze, 1927.
[xiv] A. Serpieri, La guerra e le classi rurali italiane, in questa collezione, p. 461 passim a 470.
[xv] B. Riguzzi e R. Porcari, La cooperazione operaia, Torino, 1925, p. 440.
[xvi] A. Serpieri, op. cit., p. 417 e segg.
[xvii] Le citazioni sono tratte dalla relazione del comm. Antonio Sansoni, consigliere delegato al consiglio d’amministrazione dell’Opera nazionale per i combattenti sull’esercizio 1921, Roma, 1922, pp. 26, 36, 45, 77.
[xviii] G. Giolitti, Memorie, vol. II, pp. 598, 600.