Opera Omnia Luigi Einaudi

Il regolamento per l’avocazione dei profitti di guerra allo stato

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/07/1921

Il regolamento per l’avocazione dei profitti di guerra allo stato

«Il Contribuente italiano», luglio-agosto 1921, pp. 201-203

In estratto: Varese, Stab. tip. Maj & Malnati, 1921, pp. 13-15

 

 

 

Il regolamento per l’avocazione dei profitti di guerra allo Stato approvato con R. decreto 27 marzo 1921 n. 319 può essere studiato sotto due punti di vista: a) in primo luogo, da quello delle differenze che intercedono tra le proposte della Commissione parlamentare e le norme seguite dal regolamento governativo; b) in secondo luogo, sotto il rispetto delle critiche che possono esser fatte ai concetti informatori della legge di avocazione del 24 settembre 1920 ed alla conseguente applicazione, che il regolamento ne ha fatto.

 

 

Trattasi di due punti di vista diversi. È probabile invero che tanto la Commissione parlamentare quanto il Governo abbiano creduto di interpretare esattamente il concetto informatore della legge 24 settembre 1920, e quindi le discussioni che su queste diverse interpretazioni possono farsi, non toccano, in nulla, il concetto della legge medesima; partono anzi dal presupposto che la legge stessa debba essere applicata. Invece le critiche che si fanno al regolamento ed insieme alla legge di avocazione sono critiche le quali hanno una portata più vasta e portano ad invocare lo

intervento del legislatore per modificare la legge medesima.

 

 

I.

 

Discutiamo prima intorno alla interpretazione della legge, partendo dalla premessa che questa debba essere mantenuta così come fu votata:

 

 

1. – Una prima differenza s’incontra nella formulazione del concetto dell’articolo 3. Questa estende l’applicazione dell’imposta e della sopraimposta dei profitti realizzati in conseguenza della guerra anche al di là del 30 giugno 1920, per alcuni profitti i quali vengono a maturare dopo quella data. Fin qui Commissione parlamentare e regolamento governativo sono d’accordo. Una divergenza si nota invece nello specificare quali possono essere i profitti avocabili, sebbene maturati dopo il 30 giugno 1920.

 

 

L’originario progetto governativo aveva creduto di differenziare questi redditi, definendoli come quelli che derivano da cause anteriori al 30 giugno 1920. La Commissione parlamentare ritenne che questa dizione fosse vaga, in quanto qualunque reddito potrebbe essere considerato derivante da una causa anteriore al 30 giugno 1920, essendo ben difficile di riscontrare un fatto qualunque, il quale non si ricolleghi storicamente ad altri fatti precedenti. Essa perciò volle specificare, dicendo che questi redditi non solo dovessero «maturare» dopo il 30 giugno 1920, ma dovessero essersi «prodotti» anteriormente a quella data e dovessero rientrare nel novero di quelli realizzati in conseguenza della guerra.

 

 

Il regolamento governativo accetta in parte la modificazione proposta dalla Commissione, modificazione, la quale, come si vede, sta tutta nel requisito della «produzione anteriore al 1920», ma invece di affermare semplicemente che questo dev’essere il fatto avvenuto, dice che devono essere assoggettati alla tassazione quei profitti, i quali, maturando dopo il 30 giugno 1920, derivino da cause produttive precedenti la stessa data.

 

 

La differenza in fondo non è di sostanza. Trattasi di una sfumatura: per la Commissione sarebbe occorso che i redditi medesimi si fossero prodotti anteriormente al 30 giugno 1920, sebbene maturati dopo; per il Governo basti che essi derivino da cause produttrici anteriori alla data stessa. Ma è una sfumatura di forma che può toccare la sostanza. Il testo della Commissione limitava l’arbitrio della Finanza, il testo del Coverno lo allarga.

 

 

Ora, tutto ciò che rende arbitraria l’opera dell’Amministrazione è condannabile. Certezza ci vuole, e non arbitrio, se non si vuole ridare al Governo i poteri assoluti e fare indietreggiare l’economia del Paese.

 

 

2. – Sostanzialmente la Finanza ha accettato le proposte di maggior specificazione, che erano state fatte dalla Commissione parlamentare, per quel che si riferisce alle spese ed oneri da detrarsi dall’ammontare netto; qualche differenza tuttavia rimane ed è molto importante. Manca la detrazione, la quale era stata proposta al n. 5 dell’art. 7, degli interessi passivi, che il contribuente dimostri di aver pagato all’estero e che siano inerenti ai redditi netti assoggettati alla avocazione.

 

 

Intorno alla giustizia della detrazione non vi è nessun dubbio; né il timore di eventuali frodi fiscali pare ragione sufficiente per non concedere la detrazione di una vera passività, di cui l’onere della dimostrazione spettava, del resto, al contribuente. Col sistema del regolamento governativo accade che il contribuente, il quale abbia contratto il debito all’estero ed abbia dovuto pagare gli interessi passivi su di esso si vede inoltre avocato allo Stato la medesima somma, come se oneri ed interessi fossero stati per lui un guadagno di guerra.

 

 

Rispetto alla detrazione del n. 6, relativa alle imposte e tasse pagate all’estero, la Commissione aveva proposto che la detrazione stessa fosse limitata a quelle che avessero inerenza esclusiva ai redditi netti avocabili, conseguiti in Italia. Il regolamento governativo concede la detrazione, ma la fa dipendere da altra condizione: che cioè l’imposta pagata all’estero si riferisca ad operazioni compiute all’estero; se le operazioni furono compiute in Italia, non tiene conto che esse siano state tassate all’estero e perciò, in questo secondo caso, l’onere della tassazione non è detraibile.

 

 

Il motivo addotto nella relazione ministeriale è il seguente: che è vero trattarsi di un doppio aggravio sullo stesso cespite, ma l’iniziativa della detrazione deve spettare allo Stato estero e non allo Stato italiano. Insomma lo Stato italiano deve concedere, secondo questa teoria, la detrazione delle imposte, pagate all’estero, sui redditi derivanti da operazioni compiute all’estero, non la deve concedere per le imposte straniere gravanti sui redditi prodotti in Italia. In questo secondo caso sarebbe lo Stato estero, il quale prima di tassare il reddito realizzato in Italia, deve detrarre, dal reddito stesso, le imposte italiane.

 

 

Qui occorre qualche osservazione. Una regola assoluta di giustizia per risolvere queste controversie non esiste; le interferenze tra le legislazioni tributarie di paesi diversi essendo numerose, a causa dei concetti diversi, i quali presiedono alla tassazione. Trattasi di compensazioni, che, a volta a volta, potranno verificarsi tra gli Stati contraenti in un’eventuale legislazione internazionale tributaria.

 

 

Il caso speciale dell’avocazione era diverso: qui non si tratta di una vera e propria imposta; è invece lo Stato italiano, il quale dichiara che certi redditi non devono rimanere presso coloro che li hanno percepiti, ma devono invece essere avocati al suo Erario. Ora lo Stato italiano dicendo questo, non può pretendere di avocare ciò che non esiste. Se il contribuente italiano ha pagato un’imposta all’estero non ha più il reddito relativo e questo non dovrebbe potersi avocare allo Stato.

 

 

L’essere il reddito derivante da operazioni compiute all’estero o compiute in Italia non ha alcuna rilevanza ai fini dell’argomento.

 

 

E un’altra osservazione può farsi ancora: in principio, se un reddito è derivato da operazioni compiute all’estero, quel reddito non è stato prodotto in Italia e quindi non è soggetto alla avocazione.

 

 

La detrazione perciò dell’imposta su un reddito non soggetto ad avocazione sembra un pleonasmo inutile. Il regolamento governativo ciò concedendo, in realtà, non ha concesso nulla. La importanza della detrazione è rilevante soltanto per i casi nei quali si fosse trattato di reddito avocabile e, in principio, come si è detto adesso, non è avocabile il reddito prodotto all’estero.

 

 

3. – La più grave differenza che si riscontra nel regolamento governativo è quella che riguarda la detrazione, che la Commissione aveva elencato al n. 7, quella cioè degli stipendi o salari correnti che sarebbero stati pagati al contribuente singolo e a ognuno dei soci di enti collettivi, i quali avessero effettivamente ed esclusivamente prestato la loro opera nell’azienda e per il tempo della prestazione avvenuta durante il periodo dall’1 agosto 1911 al 30 giugno 1920.

 

 

Qui non occorre ripetere le ragioni che furono ampiamente esposte nella relazione della Commissione per giustificare la proposta respinta dal Governo. È una gravissima macchia della nostra legislazione straordinaria sui sopraprofitti di non aver tenuto conto della sperequazione tra società anonime e contribuenti singoli o società commerciali personali. Col sistema governativo vengono ad essere avocati anche quelli che sono soltanto salari o stipendi correnti di coloro che hanno prestato l’opera in un’azienda. L’ingiustizia tocca principalmente la gran massa dei piccoli e medi contribuenti. La detrazione in parola non ha formato oggetto di richiesta da parte delle grandi associazioni industriali, ma la sua necessità non è perciò meno sentita da coloro che hanno dato, per tanti anni, opera assidua allo sviluppo della loro azienda e si vedono talvolta costretti persino a pagare le somme che essi hanno dovuto già spendere per il mantenimento proprio e della propria famiglia.

 

 

4. – All’art. 8 non fu accolta dal Governo la proposta, che la Commissione aveva fatto, di estendere, per analogia, i benefici concessi alle cooperative dalla legge 24 settembre anche a tutte quelle cooperative di produzione, legalmente costituite o di fatto, le quali non proponendosi scopo di privata speculazione attuassero nell’esclusivo interesse dei lavori i principi della cooperazione.

 

 

In fondo sotto altro aspetto si riproduce qui, la medesima disparità di opinione che già fu rilevata sopra per la detrazione dei salari e degli stipendi.

 

 

La legge 24 settembre, colla dizione vaga e volontariamente lata, consentiva di costruire logicamente un sistema di detrazioni per spese, così da considerare come profitti di guerra, soltanto ciò che nella realtà era profitto di guerra e non ciò che poteva essere considerato come modesto profitto di un’impresa da parte di soci lavoratori.

 

 

5. – All’art. 9 è ristabilito il concetto, respinto dalla Commissione, che, per le società commerciali, l’aumento di patrimonio imponibile non possa essere mai inferiore all’ammontare delle riserve costituite durante il periodo di guerra.

 

 

Nella relazione della Commissione furono già ampiamente esposte le ragioni per le quali l’introduzione del concetto delle riserve sia erroneo o inutile e nulla si deve aggiungere a quanto, in tale sede, fu scritto. Del resto il Governo, pur reintroducendo l’inutile concetto, ha dovuto riconoscere che esso poteva essere cagione di ingiuste tassazioni, in quanto ha dichiarato che dalle riserve devono detrarsi le somme che le società dimostrino non costituire partite tassabili come profitti di guerra o aumento di patrimonio. È adunque un inutile affaticamento l’onere della dimostrazione. Il principio accolto dal Governo riguardo alle società commerciali non ha altro risultato che di riuscire a ritrovare, per via indiretta, quella medesima cifra che già erasi dovuta accertare in via diretta. E invero, o le due cifre coincidono ed allora è inutile il concetto delle riserve o le due cifre divergono e, senz’altro, quella derivante dalle riserve deve essere considerata come erronea.

 

 

Non può quindi non lamentarsi che il Governo non abbia creduto di aderire al parere della Commissione che pure, in questo caso, erasi manifestata ad unanimità.

 

 

6. – All’art. 14 vengono soppresse tutte le proposte che la Commissione aveva fatto per accertare, in via d’abbonamento, l’imposta dovuta dall’industria solfifera. Anche qui non c’è che da rinviare alle argomentazioni scritte nella relazione, alle quali la relazione ministeriale nulla replica. Solo è da osservare che mentre la Commissione proponeva che l’avocazione, senz’altro, si effettuasse col metodo dell’abbonamento anche a carico dei proprietari delle solfare, il Governo, per ora, esenta dall’avocazione i proprietari medesimi, rinviando la tassazione dei profitti tassabili ottenuti dai proprietari delle solfare a un apposito disegno di legge.

 

 

A questo proposito, mi sia consentito di fare un rilievo ed è che il sistema della Commissione avrebbe definitivamente liquidato la questione della tassazione anche nei rispetti dei proprietari delle solfare, senza necessità di provvedimenti speciali, i quali non potranno non perturbare l’assetto delle imposte nei prossimi anni. Il disegno di legge che il Governo, dietro proposta della Giunta Generale del bilancio della defunta Camera, intende di presentare, si riferirà ai proprietari di terreni coltivatori diretti, ai proprietari di solfare, tonnare e saline. Non si sa quale forma possa presentare questo progetto, ma non si va errati affermando che i risultati finanziari di esso, saranno scarsissimi e forse negativi, dove almeno non si vogliano sollevare opposizioni e contrasti vivacissimi in tutto il mondo agricolo. Dato infatti il frazionamento grandissimo della proprietà in Italia, ove si mantenga fermo il concetto che devono essere avocate soltanto le eccedenze, oltre il reddito ordinario, già depurato da tutte le spese e oltre le prime venti mila lire di guadagno di guerra, per ogni anno, i contribuenti tassabili si ridurranno a pochissimi; la tassazione inoltre cadrebbe in un’epoca di ribassi di prezzi e dovrà già, a priori, tener conto delle circostanze che il Governo afferma nuove e di cui, per bocca del ministro delle finanze si è già dichiarato pronto a tener in conto rispetto degli industriali e dei commercianti. Il che significa rateazione dell’imposta e prudenza nell’accertamento dei profitti e delle perdite.

 

 

Ove si tenga conto di tutti questi fattori è chiaro che l’Amministrazione finanziaria sarà chiamata a fare un lavoro di peso grandissimo per ottenere dei risultati finanziari meschinissimi, invece di perdere tanto tempo in lavori archivistici intorno ad un passato ben diverso dal presente, non sarebbe meglio dedicare tutti i propri sforzi all’accertamento dei redditi attuali per la migliore distribuzione della imposta normale e della imposta complementare sul reddito? Non sarebbe stato meglio cercare di approfittare della occasione propizia per tassare, col consenso degli stessi proprietari di solfare, per abbonamento, il reddito di questi, che sicuramente sono la categoria la più importante di proprietari finora non tassati che ha ottenuto notevoli profitti di guerra?

 

 

7. – All’art. 15 è regolata forse la questione più importante che si presentava per l’avocazione; quella cioè del criterio da adottarsi per la rivalutazione delle consistenze patrimoniali al 30 giugno 1920.

 

 

Nella relazione della Commissione sono spiegate le ragioni, per le quali la commissione stessa aveva ritenuto di modificare il criterio adottato nel primo progetto del regolamento ministeriale. Le correzioni apportate erano le seguenti:

 

 

a)    invece di tener ferma la data del 30 giugno 1920, si era creduto opportuno di considerare questa del 30 giugno 1920 come una media dell’anno 1920, stabilendosi che la valutazione delle costruzioni e degli impianti dovesse farsi in base alla media dei prezzi correnti dell’anno 1920.

 

 

Il Governo non ha accettato questa modificazione ed è tornato di nuovo alla primitiva formula della data pura e semplice del 30 giugno 1920;

 

 

b)    la Commissione aveva considerato erroneo il criterio adottato nel progetto ministeriale, secondo cui, la valutazione doveva farsi in base ai prezzi di costruzione correnti alla data 30 giugno 1920, ritenendosi che invece fosse opportuno di aver riguardo al costo di costruzione e insieme alla capacità di rendimento degli enti da valutarsi.

 

 

Anche qui il Governo non ha accettato la proposta della Commissione ed è ritornata al concetto dei prezzi di costruzione. In verità poi la norma del regolamento, nella relazione ministeriale è interpretata con una certa ampiezza, affermandosi che il criterio fondamentale sia quello del prezzo di mercato, il quale dovrebbe al massimo coincidere, con il costo di costruzione. E si aggiunge che i funzionari finanziari dovranno però tener conto altresì della destinazione attuale e della utilizzazione degli impianti.

 

 

Qui importa fare una osservazione di carattere generale. In fondo, la Finanza, nelle istruzioni, accetta i criteri proposti dalla Commissione parlamentare, ritenendo che base della valutazione debba essere il prezzo corrente e che per valutare questi prezzi correnti si debba aver riguardo, da un lato, al costo di costruzione, dall’altro, alla capacità di rendimento. Ma mentre così accetta, nelle istruzioni, le proposte della Commissione parlamentare, si rifiuta però di accoglierle nel testo del regolamento. Quale interpretazione può e deve logicamente darsi di questa contraddizione tra la lettera del regolamento e le istruzioni, le quali dovrebbero illustrare il regolamento medesimo?

 

 

Ed a ragion veduta, si disse «contraddizione» perché non si può logicamente affermare che le istruzioni interpretino il regolamento e che tutti i concetti esposti nelle istruzioni derivino dal principio accolto nel regolamento. Il regolamento afferma un concetto che è quello secondo cui le rivalutazioni devono farsi in base al costo di costruzione corrente alla data del 30 giugno 1920. Le istruzioni affermano un concetto tutto diverso e cioè che le rivalutazioni devono avvenire sulla base dei prezzi correnti di mercato, di cui normalmente sarebbero un indice i costi di costruzione e, in casi speciali, la capitalizzazione dei redditi futuri.

 

 

Evidentemente tale contraddizione non può interpretarsi in nessun’altra maniera se non col timore che avrebbe la Finanza di dover riconoscere perdite troppo forti, qualora avesse formalmente affermato nel regolamento doversi accettare il giusto criterio della rivalutazione proposto dalla Commissione parlamentare. Non potendo far a meno di riconoscere la giustezza delle argomentazioni di quest’ultima, essa volle crearsi una difesa, nella lettera del regolamento, salvo poi di fatto, fare di volta in volta, delle concessioni ai contribuenti sulla base delle istruzioni.

 

 

Contro questo criterio legislativo, purtroppo assai consueto nella legislazione tributaria italiana, si eleva la obbiezione fondamentale dell’arbitrio. La legge d’imposta, formulata così, viola uno dei canoni fondamentali delle leggi d’imposta che è quello di esser chiara e precisa e di dire chiaramente e senza equivoci quale è l’onere a cui i contribuenti sono sottoposti. È un canone antico, che i trattati elementari di scienza delle finanze ricordano tutti e costantemente illustrano, facendolo rimontare al padre dell’economia politica, Adamo Smith. Dopo tanti anni non è certo argomento di lode, per la legislazione finanziaria italiana, dover ricordare ancora il canone della «certezza» che Adamo Smith aveva affermato contro gli arbitri e gli abusi della legislazione tributaria dell’antico regime. Il dilemma è chiaro: o si riconosce essere ingiusto il criterio di rivalutare gli impianti secondo il costo di costruzione e doversi invece tener conto dei prezzi correnti valutati in base ai criteri peritali normali del costo di costruzione e della capacità di rendimento ed occorre allora riconoscere, senz’altro, tale verità nel regolamento, ovvero si ritiene sul serio che il criterio da adottarsi sia quello del costo di costruzione, e in tal caso non si deve nelle istruzioni distruggere il criterio che nel regolamento si era affermato come unico accettabile. Fare altrimenti è rendere l’Amministrazione finanziaria, ossia una delle due parti, arbitra di accogliere ora l’uno ora l’altro dei due criterii, a seconda che più le conviene;

 

 

c)    la Commissione parlamentare, dopo lunghe discussioni, di cui nella relazione si da conto, aveva proposto di escludere dalla rivalutazione la scorta minima necessaria all’esercizio dell’industria, rivalutandosi invece l’eccedenza. Nessuna traccia vi è di tal proposta nel regolamento governativo;

 

d)    invece il regolamento governativo accoglie la proposta, fatta dalla Commissione, di non computare ai fini dell’avocazione nel reddito netto le somme versate a titolo di sopraprezzo sulle azioni nuovamente emesse, nel periodo dal 1 agosto 1914 al 30 giugno 1920. La Finanza ne trae però una conseguenza che è tutta sua, ossia dall’essere escluso il computo del sopraprezzo nel reddito netto ai soli fini dell’avocazione si deduce che il sopraprezzo medesimo deve essere incluso nel reddito netto ai fini dell’imposta e sovraimposta sui profitti di guerra.

 

 

Importa subito notare che questa illazione spetta esclusivamente alla Finanza; nessuna responsabilità, a questo riguardo, può essere attribuita alla Commissione parlamentare, la quale dichiarò esplicitamente, nella relazione, di non aver voluto dare alcuno giudizio, né in un senso né in un altro intorno al quesito della tassabilità o meno del sopraprezzo ai fini dell’imposta e sopraimposta sui profitti di guerra. A maggioranza la Commissione aveva deliberato di non aver veste alcuna per fare proposte riguardo alla imposta e sopraimposta sui profitti di guerra. Per questa ragione, essa, discutendo dell’applicabilità o meno del sopraprezzo, dovette porsi il limite assoluto, detto sopra, per cui la sua proposta aveva valore ai soli fini dell’avocazione. Ma da ciò non discende affatto che essa abbia voluto esprimere l’opinione che il sopraprezzo sia tassabile nei rispetti della imposta e sovraimposta sui sopraprofitti di guerra. A questo proposito disse soltanto di non aver competenza a pronunziarsi ed esplicitamente dichiarò che l’affermazione fatta ai fini dell’avocazione non doveva essere interpretata in nessun senso ad altri fini.

 

 

8. – L’art. 20 che riguarda il contenzioso presenta nel testo definitivo governativo, due rilevanti differenze in confronto al testo proposto dalla Commissione parlamentare:

 

 

a)    la Commissione aveva proposto di ristabilire il diritto del contribuente di ricorrere alla Corte di Cassazione di Roma per violazione e falsa applicazione della legge. Le ragioni evidenti di tale ristabilimento si leggono nella relazione e non occorre ripeterle. La proposta è invece nettamente respinta dal Governo;

 

b)    la Commissione aveva proposto di istituire, per le questioni delicatissime di rivalutazione di cui all’art. 15, una procedura speciale di perizia. Alla Commissione centrale delle imposte dirette doveva essere aggregato un funzionario degli uffici tecnici di finanza e questo funzionario doveva previamente sentire un Collegio di due tecnici, designati al ministro delle finanze dalle organizzazioni industriali e commerciali. Per evitare qualsiasi ritardo all’azione della Finanza, la Commissione proponeva di stabilire che il Collegio dei periti si dovesse costituire senza bisogno di invito da parte del Ministero e l’avviso del Collegio dovesse farsi entro un mese dalla ricevuta interpellanza. Anche questa proposta non è stata accettata dal Governo; del che sarebbe interessante sapere le ragioni.

 

 

9. – L’art. 23, relativo alla prescrizione dell’azione della Finanza per l’accertamento dei profitti di guerra, porta due non irrilevanti differenze colle proposte della Commissione:

 

 

a)    il termine normale della prescrizione che la Commissione parlamentare aveva ristretto dal 31 dicembre 1923 al 31 dicembre 1922 è riportato al 31 dicembre 1923;

 

b)    i termini di prescrizione, per i profitti di guerra maturati dopo il 30 giugno 1920, che il primitivo disegno governativo aveva dichiarato prorogati per un numero di anni pari a quello intercorso fra il 1921 e l’anno in cui i profitti stessi si realizzeranno, erano stati dalla Commissione fermati, in ogni caso, al 31 dicembre 1925.

 

 

Ciò allo scopo di impedire che su i contribuenti pendesse, per un numero indefinito di anni la minaccia di un accertamento per sopraprofitti, aventi causa anteriore al 30 giugno 1920, ma prodottisi dopo. Se entro il 31 dicembre 1921 la Finanza non riesce a scoprire che certi profitti si sono maturati e risalgono nella loro causa produttiva prima del 30 giugno 1920, vi è ogni ragione di ritenere che il rapporto di causa ed affetto tra guerra e profitti sia puramente immaginario.

 

 

Anche qui la tutela che la Commissione aveva escogitato contro l’arbitrio della tassazione fu respinta dal Governo.

 

 

10. – Agli articoli 26 e 27, i quali regolano la rateazione dell’imposta il Governo ha portato qualche stringimento di freni alle pur rigidissime proposte che la maggioranza della Commissione parlamentare aveva formulato. Nel caso della ripartizione in dodici rate, la Commissione aveva di fatto ritenuto non legittima la richiesta di una valida garanzia, trattandosi di una ripartizione normale, superiore a quella ordinaria delle sei rate, derivante della enormità dell’aliquota.

 

 

Il Governo ristabilisce la valida garanzia, con questa sola differenza in confronto alle due primitive proposte, che la garanzia invece di essere obbligatoria, in ogni caso diventa facoltativa ad arbitrio della Finanza.

 

 

Nel caso della rateazione in cinque anni, la maggioranza della Commissione aveva proposto che, pur essendo obbligatoria la prestazione di valida garanzia da parte del contribuente, le tasse e spese che il contribuente dovesse sostenere, per la detta garanzia, dovessero essere detratte per metà dal reddito soggetto ad avocazione. In realtà tutte queste tasse e spese avrebbero dovuto essere detratte poiché, giova qui ripetere un concetto fondamentale, l’avocazione non può portar via al contribuente nulla più del cento per cento del suo guadagno; se il contribuente per pagare le 100 lire deve sottostare a tasse e spese di 10, la avocazione gli dovrebbe portar via soltanto 90, altrimenti essa costringe il contribuente a pagare alla Finanza più di quanto egli abbia guadagnato. La maggioranza della Commissione aveva tuttavia ammesso che la detrazione dovesse farsi soltanto per metà allo scopo di non incoraggiare il contribuente a fare e simulare spese eccessive per ottenere la valida garanzia. La Finanza non accetta la proposta della Commissione e reputa di sottrarsi alla obbiezione di far pagare al contribuente più di quanto egli abbia guadagnato, concedendogli di registrare, con la tassa fissa di L. 5, gli atti stipulati ai fini di ottenere la valida garanzia.

 

 

In questo modo però, il problema non è risoluto, ma appena appena toccato; altre tasse, oltre quella di registrazione, possono cadere, in questa occasione, sul contribuente e sopra tutto cadono su di lui le spese per interesse e provvigioni necessarie a sopportarsi per ottenere la garanzia da parte di banchieri o privati.

 

 

Perciò l’art. 27 sancisce una evidente ingiustizia a carico dei contribuenti.

 

 

11. – Non si comprende bene la ragione per la quale all’art. 30 il Governo abbia lasciato cadere un’aggiunta, di grande rilievo, proposta dalla Commissione, secondo cui non vi sarebbe luogo all’applicazione di penalità, per la differenza di patrimonio avocabile che tragga origine da inammissibilità, perdite, onorari ed altre detrazioni.

 

 

Il principio è pacificamente accolto nella legislazione italiana per l’imposta patrimoniale e per quella complementare sui redditi e corrisponde a un criterio evidente di buona fede, sicché non appare chiara la ragione della sua esclusione.

 

 

II.

 

Passiamo ora alla seconda parte che è quella delle critiche che possono essere fatte ai concetti della legge di avocazione del 24 settembre 1920.

 

 

In verità, la critica più che alla legge del 24 settembre 1920 si deve rivolgere alla interpretazione che unanime il Governo e la Commissione parlamentare, almeno nella sua maggioranza, diedero di quella legge, la quale a chi l’avesse voluto interpretare razionalmente, avrebbe potuto fornire il mezzo di ricostruire, secondo criteri di equità, il sistema di tassazione dei profitti di guerra nel nostro Paese.

 

 

Naturalmente quando io dico ricostruire razionalmente, mi metto da un punto di vista puramente tecnico, partendo dalla premessa che i profitti di guerra debbono essere confiscati a favore dello Stato.

 

 

Questa è una premessa la quale potrebbe essere fondatamente ed ampiamente discussa. Per non lasciare equivoci di sorta sul mio modo di pensare in argomento, rilevo subito di passaggio che la premessa è del medesimo ordine di quella con la quale si arrivò all’amnistia dei disertori. Questi due provvedimenti, amnistia per i disertori ed avocazione dei profitti di guerra sono stati, è inutile ricercare se volutamente o inconsapevolmente, ordinati a due scopi essenziali:

 

 

a)    in primo luogo, di fare in guisa che in occasione di un’eventuale nuova guerra le diserzioni si moltiplicassero in modo, con la certezza della impunità, da rendere impossibile la costituzione di un esercito e quindi la resistenza del nostro Paese al nemico;

 

b)    l’avocazione completa dei profitti di guerra conduce per altra via a questo medesimo risultato: avvertendo tutti coloro, i quali in quella eventuale occasione saranno chiamati a produrre cose utili alla difesa dello Stato, che essi dal loro maggior lavoro e dalla diligenza posta nella fabbricazione non otterranno nessun utile.

 

 

Siccome è ben noto che gli uomini, quando lavorano per scopi economici, hanno di mira il guadagno, la legge di avocazione toglie ad essi, se non l’unica, la principale spinta che essi avevano a produrre; onde si ottiene nuovamente lo scopo di privare il Paese di mezzi di difesa. Queste sono constatazioni oggettive, le quali hanno per scopo di mettere in luce, come i due provvedimenti dell’amnistia ai disertori e dell’avocazione dei profitti di guerra abbiano per scopo ed effetto, quello di consegnare il nostro Paese, nella futura guerra, se e quando verrà, impotente nelle mani del nemico. E siccome la previsione di questo fatale effetto, che si avrebbe in quella eventualità non può a meno di esercitare un’influenza sull’avverarsi del fatto medesimo, così sono chiare, se non le finalità volute e consapute, almeno quelle facili a prevedersi dei due provvedimenti inscindibilmente connessi l’uno all’altro.

 

 

Unica spiegazione logica del secondo provvedimento è questa: che l’avocazione dovesse compiersi per modo da non rompere la molla ad un maggior lavoro da parte dei produttori. Togliendo a questi soltanto il sovrappiù oltre a un compenso sufficiente, si voleva evitare che nell’animo delle moltitudini l’amor di patria fosse sopraffatto dall’ira contro gli arricchiti in tempo di sacrifici nazionali. Questo fu invero il fondamento della legge; e non sarebbe stato impossibile attuare la legge in modo da ottenere l’effetto socialmente desiderabile, di impedire il divampare dell’odio di classe e nel tempo stesso da non distruggere l’incentivo a produrre intensamente da parte degli industriali. Chi scrive, parlando in una delle assemblee legislative, aveva indicate le condizioni da osservarsi affinché l’avocazione non producesse gli effetti medesimi dell’amnistia ai disertori; ma non si volle usare delle facoltà: facoltà che la legge 24 settembre 1920 dava all’uopo e che, se bene usate, avrebbero evitato che gli effetti della previsione di una confisca uguale a quella presente in una futura guerra fossero disastrosi per la salvezza del Paese.

 

 

Bastava partire dalla premessa che dovessero essere avocati tutti e soltanto i profitti di guerra. La legge del 24 settembre 1920, avrebbe potuto essere interpretata in maniera da raggiungere quasi del tutto lo scopo or ora detto. Ed invero quella legge poneva un unico limite: che non potevano essere assoggettati a valutazione se non i contribuenti indicati nell’art. 1 dell’allegato B al decreto Luogotenenziale 21 novembre 1915, n. 1643. Questo unico limite, posto esplicitamente nella legge, voleva dire che l’avocazione riguardava soltanto le categorie dei contribuenti che fino allora erano stati assoggettati alla imposta e sopraimposta di guerra, e non potevano invece esservi sottoposti quegli altri contribuenti che tale imposta fino a quel momento non pagavano; e cioè i professionisti, gli operai, i salariati, i proprietari di terreni coltivatori diretti, i proprietari di solfare e tonnare.

 

 

Già fu veduto, come per una estensione della lettera della legge, i proprietari di solfare avrebbero potuto essere compresi nell’orbita della tassazione, sicché esenti dall’avocazione sarebbero rimaste soltanto alcune categorie di contribuenti che non saranno mai tassati perché troppo potenti politicamente, come i professionisti, gli impiegati, i salariati e la gran massa dei piccoli e medi proprietari rustici coltivatori diretti, o avrebbero dato e daranno un contributo finanziario trascurabile, come i grandi proprietari coltivatori diretti ed i proprietari di tonnare. Riguardo ai grandi proprietari diretti, si può anche aggiungere, a chiarimento di quel che è stato detto, che la maggior parte dei grandi proprietari non sono coltivatori diretti, ma avendo affittato, per un canone in denaro, i loro fondi, non hanno ottenuto profitti di guerra, ottenendoli, in vece loro, gli affittuari che già per la legge vigente sono soggetti all’imposta sui sopraprofitti ed all’avocazione.

 

 

Dunque la legge del 24 settembre 1920 imponeva un unico limite alla Finanza e questo d’importanza fiscale trascurabile; per tutto il resto la dizione della legge era tale che il Governo avrebbe potuto innovare profondamente sulle regole fin qui seguite in materia di tassazione e di profitti di guerra, tanto perciò che si riferiva alla definizione del profitto, come alle detrazioni, al capitale investito ed a qualunque altro degli elementi, da cui la tassazione dipende. L’ art. 2 invero della legge medesima, con novità rilevabile, stabiliva e dava al governo del Re complessi poteri, sentita una Commissione di tre deputati e senatori, per stabilire i termini e i modi di pagamento, per accelerare l’accertamento dei sopraprofitti di guerra, per tutto quanto altro riguarda la esecuzione della legge e le relative sanzioni penali con facoltà di coordinamento, modificazione, abrogazione di disposizioni legislative vigenti.

 

 

Poteri di questa fatta avrebbero potuto e dovuto essere adoperati per togliere le incongruenze e le ingiustizie sia a carico della Finanza come dei contribuenti, che si erano andate accumulando negli anni di guerra e nella frettolosa applicazione che si era fatto del concetto di tassare i profitti di guerra. E si sarebbe, così facendo, potuto ridurre al minimo possibile i danni che l’avocazione produrrà, come sopra si accennò, nella mente degli industriali e commercianti il giorno, che possiamo deprecare lontanissimo ma che potrebbe essere vicino, dello scoppio di una nuova guerra. La legge di avocazione avrebbe potuto, in fatti, e dovuto essere costituita in maniera da confiscare ai contribuenti soltanto il loro guadagno, cosicché essi, in avvenire non avrebbero potuto fare alcun assegnamento di lucro in occasione di una guerra, ma sarebbero almeno stati sicuri contro il pericolo di confisca del patrimonio che essi possedevano anteriormente allo scoppio della guerra medesima e sicuri altresì di un’equa rimunerazione per il lavoro prestato ed il capitale impiegato nell’impresa.

 

 

Invece, per concorde volere del Governo e anche della Commissione parlamentare o almeno della maggioranza di questa, la legge di avocazione, alla pari di quelle precedenti sui sopraprofitti, è stata congegnata in maniera tale:

 

 

a)    che il guadagno avocato non equivale al supero oltre il reddito ordinario, ma è un’altra quantità completamente diversa ed arbitrariamente determinata;

 

b)    che non si è tenuto conto della svalutazione della moneta, provocata dall’abbondante emissione di carta moneta fatta dallo Stato, cosicché lo Stato prima falsifica la moneta, ossia riduce la lunghezza del metro, con cui si misurano i valori ed ottiene così che tutti i valori espressi in un metro corretto diventano nominalmente più elevati e si giova quindi di tale effetto prodotto dalla sua stessa mala politica monetaria per portar via ai contribuenti una parte del patrimonio che essi possedevano prima, col falso pretesto che essi si siano arricchiti;

 

c)    che per ottenere scopi considerati di pubblica utilità il Governo, in un primo momento, promette la esenzione delle imposte per certe somme, costituenti profitti di guerra; in un secondo momento, pentito, e ragionevolmente, della ingiusta concessione accordata, revoca questa, ma la revoca in modo tale da portar via al contribuente somme maggiori del valore attuale degli impianti, in cui le somme esentate da imposta obbligatoriamente si erano investite.

 

 

Trattasi di gravi affermazioni, le quali corrispondono, in tutto, a verità.

 

 

Che la somma tassata ed ora avocata, a titolo di profitto di guerra, non abbia se non un rapporto vago con il vero profitto di guerra è dimostrato dalla definizione che si volle dare, in principio e tenacemente conservare poi, del profitto di guerra medesimo.

 

 

Il profitto di guerra fu concepito invero come una differenza fra le somme monetarie lucrate durante la guerra e le somme monetarie lucrate, in media, nei due anni anteriori al 1914.

 

 

Lasciamo da parte la questione su cui ripetutamente nella relazione della Commissione parlamentare si è richiamata l’attenzione, e cioè che il primo termine della differenza era un termine arbitrario, legale e non reale, essendosi assunto, come reddito ordinario, non quello che effettivamente si otteneva prima della guerra ma quello che risultava accertato ai fini dell’imposta di ricchezza mobile.

 

 

Trattasi di un punto importantissimo, ma che può essere considerato come secondario, in confronto degli altri, di cui ora si dirà.

 

 

Supponendo anche in fatti che si fosse riusciti a scoprire la cifra esatta del reddito ordinario ante bellico, la differenza tra questa cifra ed il reddito netto totale, ottenuto durante gli anni di guerra, non avrebbe dovuto essere considerato reddito di guerra, se non con molte cautele:

 

 

1. – Si sarebbe dovuto tener conto del diverso significato della parola «lira» nei diversi anni dal 1914 in poi. Il fatto che un reddito ante bellico (1912-1913) di 10 mila lire passò a 15, 20, 30, 40, 50, 60 mila lire nei sei anni di guerra, non è sufficiente a far considerare come reddito di guerra la differenza tra le 10 mila e le maggiori cifre ottenute dopo. Siccome in tutti questi periodi la lira oscillò grandemente di potenza di acquisto, sarebbe stato necessario e di stretta giustizia, ridurre prima tutte queste cifre a un comune denominatore. La legge per la perequazione fondiaria dell’1 marzo 1886, n. 3682, stabiliva all’art. 14 che nella valutazione dei prodotti agrari da farsi sulla media dei tre anni di medio prezzo, compresi nel dodicennio 1874-1885, si dovesse tener conto del disagio medio della carta. Questo principio fondamentale stabilito in seguito a proposta di uomini insigni, tra cui basti ricordare Angelo Messedaglia, indicava la via che si sarebbe dovuto seguire anche oggi, se invece di una legge demagogica di espropriazione si fosse voluto compiere opera di giustizia tributaria. I redditi dei diversi periodi avrebbero dovuto essere valutati non in lire di carta ma in lire ridotte ad un qualunque denominatore con un coefficiente razionale di riduzione. Si poteva discutere intorno al coefficiente di riduzione da adottarsi e poteva sembrare anche ragionevole accogliere, invece che il concetto di una riduzione in base al disaggio medio della carta in confronto del franco, lira sterlina o dollaro, una riduzione in base alla potenza di acquisto della lira di merci e derrate e servizi utili ai bisogni dei consumatori; si sarebbe potuto cercare un numero indice del rincaro medio della vita fondato su indagini dell’Ufficio nazionale o degli Uffici municipali del Lavoro.

 

 

Non trattavasi di difficoltà insuperabili, anzi di problemi già discussi e già risoluti, con discreta soddisfazione degli interessati. Ma il concetto fondamentale di un paragone dei redditi nei diversi periodi con un metro fisso fu negato.

 

 

Il sistema adottato, giova ripeterlo perché si tratta di una verità evidente bensì, ma ostinatamente negata dal legislatore, condusse a questa conseguenza; che lo Stato, prima falsifica la moneta e così necessariamente raddoppia, triplica, quadruplica le cifre nominali dei redditi monetari e poi interviene a dire che tutto il soprappiù nominale oltre le cifre originarie di reddito, costituisce un guadagno di guerra; il quale raggiro non depone a favore della buona fede e della probità dello Stato legislatore e tassatore.

 

 

2. – Si sarebbe dovuto tener conto della intensità del lavoro compiuto nei diversi periodi. Se Tizio con un lavoro doppio ed intenso, con un lavoro prolungato riesce ad ottenere un reddito doppio nel 1915 e 1916 in confronto del 1913, la sua rimunerazione non cessa di essere una rimunerazione normale.

 

 

Non era impossibile di trovare un criterio di misurare il reddito non in cifra assoluta ma in relazione alle unità di lavoro compiuto. Se un fornitore dello Stato si contenta, per ogni metro di stoffa, venduta all’Intendenza militare, di guadagnare lo stesso numero di centesimi o di lire che guadagnava prima della guerra e anzi forse di meno, si può attribuirgli un guadagno di guerra quando il guadagno sia esclusivamente dovuto al fatto che egli con miglior impiego di capitale e di lavoro produsse e vendette allo Stato il doppio ed il triplo di metri di stoffa?

 

 

Di ciò invece non si tenne alcun conto e anzi si volle persistere nel concetto per cui agli industriali e commercianti privati non venne concessa alcuna detrazione per stipendio o salario attribuiti ad essi stessi ed alle loro famiglie. Sono già spiegate nella relazione della Commissione parlamentare quali sono le conseguenze gravissime dell’applicazione pura e semplice delle norme regolatrici della imposta di ricchezza mobile alla materia, in sostanza tutta diversa, della tassazione dell’avocazione dei profitti di guerra. Salvo che per le società cooperative, formalmente riconosciute, il capo di un’intrapresa o i soci forse numerosi di un’intrapresa, non hanno diritto a dedurre dal reddito nessuna somma a titolo di stipendio o salario. Può accadere perciò che sia confiscata, a titolo di guadagno, persino la somma che il contribuente ha già dovuto spendere per il mantenimento di sé stesso e della propria famiglia, secondo un tenore di vita forse non superiore a quello dell’operaio dell’opificio medesimo.

 

 

3. – Si sarebbe dovuto tener conto della diversa età delle imprese alla data 1 agosto 1914. Vi erano imprese le quali, a quella data erano già arrivate in una condizione, che in un linguaggio tecnico si potrebbe chiamare di regime, intraprese, le quali funzionavano e procedevano già regolarmente, utilizzando in pieno il proprio capitale e la propria organizzazione. Per queste imprese, il confronto «alle condizioni dette sopra» tra i redditi degli anni di guerra e i redditi degli anni 1912-1913 poteva dare un’idea del vero guadagno di guerra. Ma vi sono altre imprese, le quali, alla data del 1 agosto 1914 si trovavano ancora in pieno sviluppo; capitali cospicui erano stati impiegati, era stata creata la organizzazione tecnica, finanziaria e commerciale, ma per la giovine età dell’impresa i frutti da essa non avevano potuto ottenersi in pieno. Ogni intrapresa economica passa attraverso a queste diverse fasi; prima bisogna fare la seminagione e poi si può mietere nel campo seminato. È evidente in queste ultime imprese che, se anche il reddito nel 1915 e 1916 e negli anni successivi fosse cresciuto, l’incremento non poteva essere considerato dovuto alla guerra, ma era invece il frutto naturale dell’incremento progressivo della intrapresa.

 

 

Anche di questi fattori, salvo rarissimi casi, non si tenne conto veruno, di guisa che la tassazione e poi l’avocazione viene a colpire redditi che con i guadagni di guerra non avevano nessuna relazione logica.

 

 

4. – E qui si accenna all’ultimo e forse più grave errore commesso nella definizione del reddito ordinario e conseguenti guadagni di guerra, quello cioè per cui fu considerato reddito ordinario una somma uguale all’8% del capitale investito.

 

 

Ripetute volte ebbi già occasione di insistere sulla erroneità del concetto di considerare come sovrareddito o reddito ottenuto con poco sforzo, per conseguenza tassabile in maniera speciale, quello che supera una determinata percentuale sul capitale investito. L’effetto di questa disposizione è di concedere un premio e di stabilire un potente interessamento ad aumentare il capitale investito ed a ridurre la percentuale del reddito netto ottenuto su quel capitale.

 

 

Il legislatore si è proposto – anche qui ripeto cose altrove già dette – l’assurdo intento di negare una verità universale che ha nome di legge del minimo mezzo; per cui la natura stessa e gli uomini cercano di ottenere il massimo risultato facendo il minimo sforzo. La legge del minimo mezzo governa il mondo fisico e naturale; tutte le applicazioni della tecnica, tutte le invenzioni industriali, meccaniche sono ispirate a questo concetto. Alle persone ragionevoli era sempre sembrato finora degno di lode quell’industriale, il quale riuscisse ad utilizzare al massimo il suo capitale, quando, a parità di somme investite otteneva un provento maggiore. Tra due industriali che hanno impiegato un milione di lire per ognuno ed il primo dei quali riesce appena ad ottenere 10 mila lire di reddito netto, mentre l’altro ne ottiene 100 mila o 200 mila, è benemerito del Paese il secondo e non il primo.

 

 

Colla legislazione dei sopraprofitti di guerra e dell’avocazione il legislatore è venuto a dire il contrario. Ha detto al primo industriale incapace e neghittoso: tu godrai completamente dei frutti della tua intrapresa, ed ha detto invece al secondo intelligente ed intraprendente: tutto ciò che produrrai al di là delle 80 mila lire di reddito netto, sarà avocato all’Erario pubblico.

 

 

I risultati di questa insana politica tributaria tendono ad essere quelli che si potevano facilmente prevedere:

 

 

a)    innanzi tutto l’industriale non ha più nessun interesse a produrre un reddito superiore alle 80 mila lire, per ogni milione di capitale; produrre di più sarebbe lavorare a vuoto senza nessun scopo economico e non vi è una persona ragionevole che consenta di lavorare a vuoto. Possono opinare altrimenti soltanto coloro i quali rivolgono la loro attività a fare discorsi e chiacchiere inutili, destinate a non lasciare alcuna traccia;

 

b)    in secondo luogo, il contribuente il quale è in grado di far produrre al proprio capitale più dell’8%, ad esempio il 16%, si dorrà di dover dare l’eccedenza oltre l’8% allo Stato, e per non dargliela si sforzerà a crescere la somma del capitale investito, portando, ad esempio, il capitale da uno a due milioni. In tal modo egli assicurerà al secondo milione di lire un reddito dell’8%; e l’operazione sarà conveniente fin quando il contribuente riesca a trovare il milione di lire ad un saggio inferiore all’8%. Nasce perciò una tendenza all’ingrossamento dei capitali, impiegati a vuoto, senza che essi siano, nella realtà, necessari all’esercizio dell’industria. L’impiego di questo capitale è necessario allo scopo di non lasciarsi portar via dallo Stato la eccedenza oltre l’8 per cento.

 

 

Se non in tutto, in notevole parte, l’incremento di capitali delle società anonime, di cui nelle statistiche ufficiali si mena così gran rumore, come se si trattasse di un indice del progresso economico del nostro Paese, è dovuto a questa causa artificiosa; esso non è l’indice di un progresso effettivo anzi è l’indice di un cattivo ed improduttivo impiego dato al limitato ammontare di capitale di cui il nostro Paese ha la disponibilità. Il secondo errore fondamentale della legge 24 settembre 1920 è quello che si riferisce alla valutazione degli impianti al 30 giugno 1920. Su di ciò ho già detto precedentemente, facendo rilevare le differenze tra le proposte della Commissione parlamentare e le norme del regolamento governativo. Ma né la Commissione parlamentare, nella sua maggioranza, né a fortiori il Governo vollero guardare fino in fondo il problema della rivalutazione; tenendosi stretti alle regole che già erano state dettate, a poco a poco, per la imposta sui sopraprofitti di guerra, rinunziarono a quella visione d’insieme che pur sarebbe stata consentita dalla legge, qualora questa fosse stata interpretata non restrittivamente ma con quella larghezza logica che l’art. 1 e sopratutto l’art. 2 consentivano.

 

 

L’art. 1, farraginoso, poco chiaro, folto di affermazioni indipendenti le une dalle altre, cosicché un autorevole parlamentare con un semplice esercizio di analisi logica, poté affermare che nel solo primo comma di esso, ossia in non più di sei linee di stampa erano conglobati sei concetti diversi, affermava tuttavia un criterio fondamentale ed è che oggetto dell’avocazione dovessero essere i profitti di guerra realizzati nel periodo 1 agosto 1914-30 giugno 1920. Affermava cioè quell’articolo l’unicità del periodo di tassazione, la inscindibilità delle perdite e dei guadagni ottenuti in quel periodo di tassazione. Siccome poi l’art. 2 affidava al Governo la emanazione delle norme per la esecuzione del principio generalissimo, affermato nell’art. 1, ben poteva il Governo, ove avesse avuto il chiaro concetto di quello che erano i profitti di guerra, emanare disposizioni le quali potessero raggiungere lo scopo.

 

 

Ciò non fu fatto e non fu fatto perché si partì sempre, nei successivi periodi, da ipotesi empiriche ed arbitrarie intorno a quel che dovesse essere l’andamento futuro dei prezzi e dei guadagni ottenuti dagli industriali e dai commercianti.

 

 

Vi fu un periodo, in cui il legislatore immaginò e qui si ripetono le testuali parole che si leggono a pagina 56 delle istruzioni ministeriali che «cessata la guerra, i prezzi normali sarebbero notevolmente discesi, cosicché le maggiori somme spese dagli industriali, in confronto al prezzo normale di acquisto o di costruzione degli enti patrimoniali sarebbero andate perdute». Il legislatore immaginava adunque, non si sa per qual motivo, che la fine della guerra dovesse essere l’inizio di un capitombolo dei prezzi.

 

 

La cosa è assurda perché se la guerra si fosse fatta senza ricorrere a gonfiamenti monetari e ad aperture di credito bancario, non ci sarebbe stata alcuna ragione per un aumento di prezzi, come di fatti non aumentarono i prezzi durante altre guerre diversamente condotte dal punto di vista tributario. Ed è chiaro perciò, come la fine della guerra non segnando automaticamente la deflazione monetaria e lo sgonfiamento del credito non dovesse affatto portare a un ribasso dei prezzi. Ma il legislatore, partendo da una teoria economica sbagliata, ne dedusse senz’altro, in un primo periodo, sbagliatissime conseguenze intorno alla necessità di concedere larghe esenzioni tributarie.

 

 

In un secondo periodo essendosi riconosciuto che i prezzi non erano precipitati tumultuariamente, si ritorna indietro e si aboliscono tutte le detrazioni, tutte le esenzioni prima concesse. Come dicono le istruzioni ministeriali si ordina una rivalutazione al 30 giugno 1920 «diretta a ricuperare tutto ciò che in conto ammortamento o deperimento è stato concesso nella esecuzione dei singoli accertamenti fondati, come si è detto, sul presupposto di una perdita di valore che l’andamento dei prezzi ha poi dimostrato non essere avvenuta». La politica tributaria procede così a sbalzi, facendo previsioni puramente gratuite e accorgendosi poi che le previsioni assurde non avevano riscontro nei fatti e ogni volta, legiferando in maniera empirica e necessariamente feconda di pericolose conseguenze.

 

 

La prima volta la previsione sbagliata aveva condotto a concedere esenzioni larghissime, le quali provocarono sprechi su larga scala, investimenti antieconomici ed aumenti inutili di capitali; la seconda volta per la sorpresa avuta al vedere che le previsioni non si erano verificate, il legislatore grida, come Giosuè dinnanzi alle mura di Gerico: fermati! al tempo, ordinando al tempo economico di fermarsi al 30 giugno 1920 e pretendendo di chiudere un ciclo economico entro due date, di cui la prima soltanto, quella dell’1 agosto 1914, può razionalmente e storicamente considerarsi sicura, mentre la seconda, del 30 giugno 1920, ogni momento più si chiarisce essere stata e dover essere necessariamente un dato arbitrario non coincidente col termine del ciclo economico.

 

 

Tutti i dati che si posseggono, fino a questo momento, intorno ai fenomeni economici della guerra, sono concordi nel concludere che il ciclo economico della guerra non è ancora finito.

 

 

Esso si può dividere in due parti, di cui la prima comincia all’1 agosto 1914 e culmina all’incirca nel primo semestre 1920. In Italia i dati che si posseggono intorno all’andamento dei prezzi farebbero ritenere che precisamente intorno al 30 giugno 1920 si sia verificata la punta massima della curva dei prezzi.

 

 

Fino a quel momento i prezzi e quindi i guadagni monetari, attraverso oscillazioni più o meno ampie andarono aumentando. A partire da quella data, comincia il secondo periodo del ciclo, che è il periodo discendente, in cui a mano a mano i prezzi si contraggono e comincia una discesa che è ignoto quando possa trovare il suo termine. Nulla o poco si sa intorno al livello del nuovo equilibrio economico che andrà formandosi in un momento futuro. Tutto ciò che si può dire è che il livello dell’equilibrio futuro dei prezzi sarà un livello più basso, di quello che si era toccato nel punto culminante e forse alquanto più elevato del livello iniziale di partenza anteriore all’1 agosto 1914.

 

 

La legge di avocazione scinde arbitrariamente l’unico ciclo economico che va dall’1 agosto alla data futura ancora ignorata, in due periodi ed afferma che il periodo di guerra fu soltanto il primo. In questo modo l’Erario dello Stato viene a partecipare ai guadagni monetari che si sono verificati nel primo periodo e si rifiuta di partecipare alle perdite che le stesse intraprese subirono e subiranno nel secondo periodo per effetto della riduzione dei valori. Qui non si fa questione di accertamento individuale, di più o di meno. Si può ammettere in punto di fatto, che le perdite del secondo periodo abbiano ad essere inferiori ai guadagni del primo periodo; ma tutto ciò non ha nulla a che fare con la formulazione della legge; è pura applicazione da parte delle Autorità fiscali. L’errore fondamentale della legge sta nell’aver fatto quella separazione artificiale, stabilendo al 30 giugno 1920 le colonne di Ercole del periodo di guerra. Si può affermare che la Finanza non fece altro che applicare alla tassazione straordinaria di guerra concetti che normalmente e pacificamente erano adoperati nella tassazione di pace, sebbene non senza gravi inconvenienti. Era tollerabile che in tempo di pace arbitrariamente si scindesse il tempo, che è unico e che non ha mai un inizio e un termine, in periodi fissi annuali ; e si rifiutassero le compensazioni tra un periodo ed un altro, perché operando altrimenti nessun accertamento avrebbe potuto mai diventare definitivo. Gli inconvenienti che pur esistono in tempi normali sono tollerabili in quanto la tassazione è moderata ed il contribuente ha un margine di utile su cui può fare assegnamento negli anni in cui gli utili ci sono. Le regole però del tempo normale dovevano essere abbandonate per la tassazione straordinaria, specialmente quando la tassazione giunse sino all’estrema aliquota del 100 per cento. Qui il legislatore, il quale voleva avocare tutti i profitti di guerra, avrebbe dovuto preoccuparsi di fissare il periodo della tassazione in maniera corrispondente ai fatti, così da poter riuscire realmente all’accertamento di quello che per le singole intraprese furono i risultati complessivi del periodo di guerra.

 

 

La divisione artificiosa dell’unico periodo in due sotto periodi ha questo preciso significato: che l’Erario tende ad assorbire tutta la differenza tra i prezzi bassi iniziali e i prezzi massimi toccati nel giugno 1920, lasciando poi i contribuenti alle prese col ribasso consecutivo dei prezzi, ossia lasciandoli più poveri che non nel momento iniziale.

 

 

La conclusione a cui si è arrivati è talmente contraria alla equità che ufficiosamente il Governo ha già riconosciuto, in dichiarazioni pubbliche per bocca del suo ministro delle finanze, la necessità di ritornare sul mal fatto. Tuttavia la Finanza non ammette di essere stata in colpa, ma afferma che mutarono le circostanze dopo il 30 giugno 1920 e che quindi è ragionevole tener conto di queste mutate circostanze.

 

 

Giova notar subito che le leggi finanziarie specialmente in una materia così gelosa, come è quella delle imposte dirette, non devono fondarsi sul caso fortuito delle circostanze mutevoli di momento in momento, ma devono essere razionalmente codificate in guisa da poter essere applicate anche quando mutano le circostanze. Bastava che si tenesse fermo il concetto così bene scolpito all’art. 17 della legge 1 marzo 1886, n. 3682, della perequazione fondiaria, che è quello di misurare perdite e profitti sulla base dello stesso metro monetario.

 

 

Non le circostanze mutarono, ma rimase ferma, incrollabile la ostinazione della Finanza nel voler commettere cosa ingiusta a danno dei contribuenti, prevalendosi di una perturbazione monetaria che lo stesso Stato aveva cagionato colla sua abbondante emissione di carta moneta. Fino ad oggi questa condotta scorretta è tornata a vantaggio della Finanza, ma può darsi che in avvenire, ove la lira italiana si rivaluti, il precedente così posto, torni, in altri campi diversi da questo della tassazione dei sopraprofitti, di gravissimo danno per l’Erario. E che si tratti di una volontà determinata a prevalersi a proprio profitto ingiusto della perturbazione creata nei rapporti monetari dal raccorciamento del metro è evidente da quanto si legge a pag. 73 delle più volte citate Istruzioni ministeriali. Quivi dovendosi dare le regole per calcolare le eventuali perdite o guadagni di valore delle navi mercantili derivanti dalla differenza tra il costo di costruzione o il prezzo di acquisto delle navi ed il corrispondente valore corrente al 30 giugno 1920, si insiste nel raccomandare agli Uffici di Finanza che il raffronto tra i due periodi sia «fatto sempre tra i due prezzi in lire italiane». Così se trattasi di navi acquistate all’estero «bisognerà raffrontare il prezzo in nostra moneta al cambio della data di acquisto, col prezzo attuale in nostra moneta, che la nave aveva sul mercato italiano al 30 giugno 1920, e se ai fini del raffronto viene invocato dalla Ditta il prezzo corrente del naviglio all’estero al 30 giugno 1920, bisognerà che il prezzo sia ragguagliato in moneta italiana al cambio del 30 giugno predetto».

 

 

Queste parole meritano di essere riprodotte perché sono la codificazione ufficiale della teoria del pubblico latrocinio. Un tale acquista nel 1915 una nave al prezzo di 20 lire sterline, a tonnellata, quando le lire sterline battevano sulle trenta lire italiane, così che il prezzo di acquisto fu di 600 lire italiane. Al 30 giugno 1920 il prezzo o valore corrente in lire sterline, era, per ipotesi, rimasto invariato, in 20 lire sterline per tonnellata; ma poiché le lire italiane si erano deprezzate e ne occorrevano cento per comprare la lira sterlina, il prezzo di ogni tonnellata era salito a 2000 lire italiane. Un piroscafo da carico di 8000 tonnellate valeva ugualmente, ad ambedue le date, 160 mila lire sterline. In lire italiane esso valeva nel 1915 4.800.000 e al 30 giugno 16.000.000. Il contribuente italiano ha una nave, la quale non solo è rimasta identica fisicamente ma che conserva, in moneta non ottima ma discreta, lo stesso valore di prima. In realtà egli ha perso anche dal punto di vista del valore qualche cosa, perché la lira sterlina ha un valore minore di quello che avesse prima; ma trascurando per semplicità ed abbondanza questo punto, si può affermare però con certezza che il contribuente non ha guadagnato nulla. Lo Stato italiano con la sua politica monetaria, con l’aver portato la circolazione da 4 a 20 miliardi di lire, ha invece svalutato le lire italiane e per questo motivo afferma che il contribuente italiano ha guadagnato la differenza tra i 4 milioni ed 800 mila lire di prima e i 16 milioni di dopo e lo costringe a pagare la differenza ossia costringe il contribuente a pagare più dei due terzi del valore della cosa sua e a rimanere con meno di un terzo della nave originaria. Se poi la nave, come è accaduto di fatto, è nuovamente diminuita di valore e oggi o fra breve tempo varrà di nuovo le 4.800.000 lire per cui era stata acquistata, ciò non monta nulla agli occhi della Finanza.

 

 

Essa ha fissato che la data del 30 giugno fosse la data terminale del ciclo economico della guerra. Domani spinta dall’evidenza dei fatti fisserà un’altra data, che sarà del 30 giugno 1921 o del 30 giugno 1922, con conseguenze imprevedibili e che soltanto per caso potranno corrispondere a giustizia.

 

 

Non per questa via si potrà porre riparo al difetto fondamentale della legge, ma esclusivamente col criterio indicato dal Messedaglia, ossia con la riduzione dei prezzi in carta moneta deprezzata a prezzi in moneta buona, equivalente alla moneta anteriore al 1 agosto 1914.

 

 

Solo con questo criterio possono essere risolute le questioni relative alla valutazione delle navi, degli impianti industriali, delle scorte, dei combustibili, del monte merci, questioni che sono di massima e che devono essere affrontate con un criterio non contingente, non empirico e variabile di momento in momento, ma capace di sormontare per virtù propria le mutevoli difficoltà che non potranno a meno di sorgere col verificarsi di nuove circostanze per ora imprevedibili, che nessun studioso serio potrebbe mai azzardarsi di prevedere e che non è ufficio del legislatore di prevedere né di pretendere di fermare a una data fissa.

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