La terra ai contadini e l’esperimento degli istituti ospitalieri di Milano
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 05/07/1919
La terra ai contadini e l’esperimento degli istituti ospitalieri di Milano
«Rivista di Milano», 5 luglio 1919, pp. 263-276
A proposito di Giovanni Gaggi, La terra ai suoi coltivatori in una trasformazione del patrimonio delle istituzioni pubbliche di beneficenza, «L’Ospedale Maggiore», 31 marzo 1919, pp. 45-57
Intorno al problema della terra ai contadini poco di sostanzioso vide la luce, nonostante l’imperversare della carta stampata, durante questi ultimi tempi in cui se ne ricominciò a parlare; e se ne togli una elegantissima prefazione di Giustino fortunato al volume, prezioso per saggi insegnamenti, dell’Azimonti su L’Agricoltura nel mezzogiorno (Bari, Laterza, 1919), e lo studio, ricco di riflessioni pensate e di paralleli storici, del Prato su «La Riforma Sociale» (gennaio-febbraio 1919) non si saprebbe davvero che cosa ricordare, che sia meritevole di essere letto. Il che dimostra come purtroppo le cose si facciano in Italia senza preparazione ed alla cieca, se fu possibile dar vita ad una vasta vociferazione sui giornali, a progetti di legge di iniziativa parlamentare e, poi, al solito, ad un decreto legislativo, il quale dedicando 300 milioni di lire all’opera nazionale tra combattenti, faceva entrare nell’ordine delle effettuazioni un’idea, della quale non si sa precisamente che cosa essa sia e di cui non paiono studiati né il contenuto, né i limiti, né le condizioni ed intorno a cui le sole persone che pensatamente ne discorsero manifestarono insistenti dubbi, fondati sull’esperienza storica ed avanzarono proposte di temperata applicazione.
Fortunatamente, di contro al programma malpratico che il legislatore volle imporre, portando da fisime da tavolino, all’opera nazionale tra combattenti e che ne renderanno arduo il cammino (vedi una mia critica in Il primo esperimento di terra ai contadini in «Corriere della Sera» del 20 aprile 1919), il buon senso degli italiani va attuando un programma serio di passaggio della terra ai contadini, nel modo più rapido, meno costoso, meno impacciato e più fecondo che si conosca. Molti privati proprietari, con o senza mediatori, vendono le loro terre ai contadini. Coloro che vendono sono medi o grandi proprietari, i quali hanno perso l’abitudine di occuparsi direttamente dei loro fondi, i quali, dimorando in città, per ragioni di professione o di impiego, e, talvolta, per semplice fastidio della vita rustica, ricavano appena il 2 od il 3%, ai prezzi attuali, dalla terra, mentre veggono la possibilità di cavare dallo stesso capitale il 5 od il 6% con impieghi in consolidati di Stato od in titoli industriali. Coloro che comperano sono in primo luogo grandi industriali arricchiti dalla guerra, i quali però si rivolgono quasi soltanto alle vaste tenute non suscettive di frazionamento. Ma sono sovratutto, sia per numero che per estensione, fittabili, mezzadri, piccoli proprietari, gente di campagna la quale ha guadagnato parecchio durante questi anni e vuole investire i risparmi, tenacemente accumulati, nell’unica maniera di investimento da essi apprezzata che è la terra. Costoro pagano a contanti o con breve respiro. saranno ottimi proprietari, perché lo erano già prima o perché prima avevano imparato la non facile arte della coltivazione. Essi pagano la terra ad alto prezzo, se badiamo allo stupore dei vecchi proprietari di vedersi offrire 100.000 lire per un fondo che loro rendeva 3 o 2 o forse 1 mila lire; ma l’acquistano a prezzi ragionevoli se riflettono al maggior reddito netto che essi saranno capaci di ricavarne ed al sovrareddito straordinario sperato negli anni correnti, che loro permetterà di ammortizzare in pochi anni una discreta parte del prezzo d’acquisto.
Io non dubito di asserire che, se il legislatore non ci metterà le mani per imbrogliare la matassa, se non si vorranno fare da noi sperimenti alla russa, il cui risultato sarebbe di regalar la terra a chi non sa trarne profitto, con danno gravissimo della collettività, questi anni dal 1918 in poi avranno fatto di più per il frazionamento della grande e della media proprietà, e per la diffusione della piccola proprietà coltivatrice di quanto non si sia fatto in un buon quarto di secolo prima. E quel che più monta, questa grandissima trasformazione sociale, – vera rivoluzione, capace di mettere il posto di una classe troppo raffinata di proprietari, abituata oramai alla vita degli uffici e dei caffè cittadini e propensa agli investimenti cartacei una nuova classe di rustici, vigorosi, sani, avari, egoisti, che «sentono» la terra e la amano ferocemente e la faranno prosperare – si sarà compiuta solo laddove essa tecnicamente ed economicamente era possibile e vantaggiosa.
Poiché questa è la differenza fra il programma della terra dei contadini che si vorrebbe fare attuare dallo Stato e per virtù di leggi e quello che si attua da sé per l’interesse delle parti: che il primo si indirizza alle cosidette terre incolte, ai latifondi, i quali ripugnano alla piccola proprietà coltivatrice e danno luogo, ove non sia preceduto va un vasto e lunghissimo lavoro preparatorio, a disinganni irrimediabili; mentre il secondo si rivolge alle terre già coltivate intensamente od almeno discretamente, provvedute di strade, di caseggiati rustici, di piantagioni, coltivate da contadini, i quali hanno già acquistato un certo grado di indipendenza economica e di capacità direttiva. La rivoluzione francese fu il maggiore sperimento conosciuto finora nella storia di attuazione del programma della terra ai contadini; ma è dimostrato irrefutabilmente che l’esperimento riuscì perché da oltre un secolo i contadini già compravano terra via via gradatamente espropriavano, pagando, i vecchi proprietari incapaci e rendevano se medesimi atti al governo della proprietà. Dopo il 1789 compirono l’opera, pagando il prezzo, or vile ed ora adeguato a seconda del corso degli assegnati e dei bisogni pubblici, allo Stato invece che alla nobiltà ed al clero. Ma l’opera non sarebbe riuscita ed i fuorusciti ritornati dopo Waterloo avrebbero potuto riprendersi le terre, invece di doversi contentare dell’indennità del miliardo, se si fossero trovati di faccia non una nazione di contadini agiati e capaci, ma una moltitudine di proletari, a cui la terra fosse stata regalata dallo Stato, coll’unico risultato di farla da essi derubare con una coltivazione sfruttatrice e poi abbandonare per pochi quattrini all’usuraio del villaggio.
Tra l’azione dello Stato, finora compiuta a caso, senza studi preparatori e con risultati nulli e, se non si cambia metodo, probabilmente cattivi e quella varia, attiva ed efficace degli interessi privati, v’è in Italia posto per una reazione intermedia: quella delle Opere Pie e degli Enti morali in generale, grandi proprietari di terre, ad essi tramandate dalla pietà di benefattori.
Da ogni parte si muovono incitamenti alle opere pie affinché vendano i loro terreni a contadini od a cooperative agricole, facendo presente, insieme al vantaggio sociale della diffusione della proprietà, la convenienza di liberarsi da un’amministrazione rustica alla quale esse sono poco adatte, e la quale necessariamente falcidia i non elevati redditi netti che le tenute danno come canone d’affitto e di investire con un frutto spesso doppio il capitale ricavato in titoli di consolidato, di facilissima e tranquilla amministrazione.
Sono siffattamente grandi i vantaggi della diffusione della proprietà coltivatrice, dove essa è possibile e conveniente, che sarei tentato ad accettare senz’altro la tesi della convenienza della alienazione per le opere pie se l’ossequio alla verità non imponesse di fare su tal punto le più espresse riserve.
Se guardiamo al momento presente, la convenienza è indubbia. L’opera pia aliena per 1 milione di lire una tenuta, che sfrutta scarsamente 30.000 lire di canone netto d’affitto, falcidiate probabilmente da 500 lire di stipendi alla burocrazia necessaria per sorvegliare ed amministrare; ed investe il ricavo in consolidato 5% con un frutto netto, ai corsi odierni, di 55.000 lire all’anno. Il guadagno c’è, indubbio e rilevante; sono tanti letti in più che possono mantenersi nell’ospedale; tanti vecchi in più che possono essere ricoverati all’ospizio; o ragazzi ricevuti alla scuola. Ma l’opera pia non è, come il privato proprietario, un essere mortale. Il privato bada a sé ed ai suoi figli. Saprà destreggiarsi nel trovare il migliore investimento che conservi il suo patrimonio; e se non ci riesce, il danno sarà tutto suo. Le opere pie sono enti indefettibili; hanno vita perpetua; debbono pensare alle generazioni future e lontane almeno altrettanto bene come alle generazioni presenti; non hanno libertà di scelta negli investimenti.
Praticamente, l’unico impiego che sia loro consentito, quando vendono terre o case, è il consolidato di Stato. Delle case non discorro: è un pessimo investimento, che tende a diventare sempre più cattivo, per il crescente odio pubblico e la persecuzione legislativa contro i padroni di casa.
Qualunque impiego è preferibile e fa correre meno rischi di quello edilizio. Ma il confronto tra terre e consolidato non va posto nel modo semplicistico che per lo più si tiene: di un paragone semplice fra 25 e 55 mila lire di reddito. Non certo io partecipo alle critiche correnti, che per intenderci chiamerò «disfattistiche», contro l’impiego in consolidato. Esso è un impiego sicuro, tranquillo, immune da imposte. Nel caso delle opere pie il titolo è anche, naturalmente, immune dall’imposta progressiva sul reddito, la quale colpisce solo le persone fisiche per il complesso dei loro mezzi di godimento e non le persone giuridiche. Fin qui, tutto bene. ma l’opera pia vive nei secoli e non può chiudere gli occhi dinnanzi al grande fatto storico della degradazione dell’unità monetaria, in Italia della lira. La lira nei secoli deprezza. Durante la guerra, essa è deprezzata in modo rapidissimo; talmente rapido che è probabile una certa ripresa. Ad avere la potenza d’acquisto di prima la lira non tornerà tuttavia più. Il fatto non è peculiare alla guerra presente. Anche in tempo di pace, attraverso a vaste oscillazioni, la lira va degradando. un opera pia, la quale due secoli or sono avesse venduto una tenuta per 1 milione, acquistando un reddito di 55 mila lire (dico lire per indicare quella moneta dall’allora che, in peso d’oro o d’argento equivarrebbe alla lira odierna) oggi avrebbe probabilmente un reddito di sole 35.000 lire nominali. Ciò per effetto di conversioni, volontarie, perfettamente legittime, anzi prova della forza finanziaria e della solvibilità perfetta dello Stato. In Inghilterra – e cito lo Stato che ebbe una maggiore continuità di vita – quel reddito si sarebbe ridotto a 25.000 lire nominali. Per giunta, le 55.000 lire del 1719 e le 35.000 o le 25.000 lire del 1919 non sarebbero paragonabili; la potenza d’acquisto della lira essendo almeno ridotta ad un terzo di quella originaria. In realtà il reddito, tradotto in cose utili ai malati, ai ricoverati ai ragazzi, si sarebbe ridotto da 55 a circa 10 mila lire. Fra due secoli saranno forse 5 mila lire. Alla lunga si ridurrà a zero, dato il continuo svilimento della moneta. Che cosa si ricava ora dai redditi in moneta assicurati da enti morali (ecclesiastici) nel medioevo?
Pressoché nulla. Anche quando, attraverso mille anni, quel reddito fu sempre percepito ed è tuttora riscosso – e se ne noverano esempi – il reddito che aveva un tempo un notevole significato, oggi l’ha perduto affatto. Il reddito, quando sia fisso e determinato in moneta, attraverso i secoli si volatilizza. Se invece l’opera pia ipotetica del 1719 avesse osservato il suo fondo rustico del valore d’allora di 1 milione di lire e del reddito di 25 mila lire, le cose sarebbero andate ben diversamente. Probabilmente quel fondo rustico varrebbe oggi 10.000.000 di lire ed il reddito sarebbe di 250.000 lire. Facciansi ipotesi pure meno ottimiste; ma nelle grandi linee, il fatto storico è questo. Il reddito sarebbe aumentato sicuramente e notevolmente come quantità monetaria e sarebbe perlomeno rimasto invariato come potenza d’acquisto. L’opera pia potrebbe oggi conseguire i suoi fini altrettanto bene come li conseguiva nel 1719.
Vuolsi affermare, con ciò, che mai, in nessun caso convenga alle opere pie vendere le loro terre ai propri contadini? La illazione sarebbe esagerata. I vantaggi sociali del frazionamento della proprietà possono essere tali, il prezzo di vendita così favorevole, da far propendere all’affermativa. In generale può affermarsi che le opere pie non siano capaci di trarre dalla terra i frutti di cui essa è suscettiva; e quindi può reputarsi vantaggioso alla collettività che esse si disfino di una amministrazione a cui esse sono disadattate. Non devono d’altro canto chiudere gli occhi dinnanzi al fatto non controverso della degradazione della lira ed alla falcidia sicura che a distanza di secoli colpirà e redditi degli enti.
Non basta fidarsi della pubblica carità per colmare i vuoti; che la carità può rimanere sorda all’appello ed è dovere di saggi amministratori farne astrazione. Due vie d’uscita si presentano: 1) la creazione di un titolo speciale di debito pubblico, inconvertibile ed espresso il lire variabili, ossia in unità monetarie trasformabili in un numero maggiore o minore di lire effettive a seconda delle variazioni della potenza d’acquisto della moneta. Qualcosa di simile alle rendite in grano od in natura, che la sapienza del medio evo aveva inventato per ovviare ai danni gravissimi delle variazioni monetarie e che inconsultamente il nostro Codice civile diede facoltà di commutare in rendite in denaro; 2) finché un siffatto titolo non si crei, ed io non voglio tacere che la sua istituzione da luogo a problemi complessi ed ardui, gli amministratori delle Opere Pie dovrebbero almeno considerare al 25% del reddito del consolidato acquistato con il ricavo della vendita delle terre, come non esistente; ed accantonarlo, esso è di nuovo il 25% del reddito degli accantonamenti successivi, ogni anno in perpetuo. In tal modo ogni anno il reddito monetario dell’Opera Pia aumenterebbe e col suo aumento compenserebbe la degradazione progressiva del valore della lira. Costanza e prudenza fanno d’uopo per seguire tal politica puramente conservativa del patrimonio dei poveri; ma solo a questa condizione ed entro i limiti indicati parmi debba essere confortata di appoggio l’odierna tendenza alla alienazione dei fondi rustici da parte delle opere pie.
Queste riflessioni volgevo nella mente leggendo nella rivista L’Ospedale Maggiore del marzo 1919 una assai istruttiva relazione dell’avv. Giovanni Gaggi in La terra ai suoi coltivatori in una trasformazione del patrimonio delle istituzioni pubbliche di beneficenza.
A buon diritto questa monografia del Gaggi deve aggiungersi a quelle citate del Fortunato, dell’Azimonti e del Prato come un serio contributo alla soluzione del problema della terra ai contadini. Senno di amministratore, conoscenza dei contadini e della terra, temperanza oculata di vedute si congiungono insieme per fare delle non molte pagine del Gaggi una lettura raccomandabile a coloro che scrivono ed a quelli che dall’ufficio loro sono chiamati a legiferare ed a fare.
Il Gaggi discorre di quanto fecero allo scopo di dar la terra ai contadini gli Istituti ospitalieri di Milano, i quali sono senza dubbio notabili tra i maggiori proprietari rustici d’Italia. Posseggono invero essi un patrimonio immobiliare rustico costituito da 131 poderi dall’estensione complessiva, esclusi i boschi non dissodati né dissodabili, di Ettari 9690,0,2, di cui 8023,87,12 irrigui e 1666,13,10 asciutti.
Il primo sperimento di contatto diretto tra gli Istituti ed i coltivatori si ebbe nel 1891, quando in due poderi si abbandonò l’antico sistema dell’affitto complessivo ad un solo fittabile, il quale a sua volta sublocava o dava la terra a partecipazione ai contadini, addivenendo all’affitto diretto ai contadini medesimi, con la garanzia del pagamento del canone annuo convenuto in una intiera ed unica rata anticipata all’inizio della locazione triennale. Occasione a ciò fu la crisi agricola di bassi prezzi che nel 1891 s’era accentuata e raggiunse il suo punto critico alcuni anni dopo, sicché non si trovarono più affittuari, i quali assumessero la locazione agli antichi canoni. Gli Istituti mercé l’affitto diretto ai contadini riuscirono invece a mantenere il canone complessivo quasi invariato in confronto a quello di prima. Incoraggiati dall’esempio, ad ogni scadenza di locazione in tutti i poderi non irrigui si seguì il medesimo sistema, con grande vantaggio dei coloni ed insieme dell’amministrazione. Quanto a questa, in 22 poderi asciutti, di cui solo alcuni in parte irrigati dal canale Villoresi, e dell’estensione di ettari 1595,17,30 percepivansi dai 23 grossi fittabili un canone annuo di 139,112 lire. Furono i fondi frazionati, a date variabili dal 1891 al 1913, tra 539 contadini. Il canone percepito nel primo triennio di frazionamento fu di lire 202,080,60; e nel triennio ora in corso è di lire 209,248,15. I contadini hanno pagato meglio dei grossi fittabili sia perché i prezzi delle derrate agrarie crescevano, sia perché essi lucravano in confronto al canone di sublocazione od alla quota di partecipazione dovuta al fittabile intermediario. L’indipendenza acquistata dal colono, il quale sa di poter tenere per sé tutto il prodotto della terra coltivata, coll’unico obbligo del canone in denaro, li ha spinti ad intensificare la produzione, li ha resi assidui ed attenti uditori delle lezioni impartite dai professori ambulanti di agricoltura, li ha trasformati in una classe scelta e prospera di contadini laboriosi; intelligenti, forniti di macchine agricole perfezionate, e provveduti di discreti risparmi. Mentre prima l’opera pia locatrice doveva non di rado trarre in giudizio fittabili insolventi, mai in 27 anni d’esperimento dovette essa agire giudizialmente contro i contadini affittuari, sempre scrupolosi osservatori dei loro impegni verso l’Istituto locatore. Le stesse sostituzioni delle famiglie coloniche scomparse per la perdita del capo o degli elementi più validi e più capaci per l’esercizio della piccola azienda rurale avvennero sempre dappertutto colla maggiore facilità e nelle forme più ordinate ed amichevoli.
L’affitto diretto era, nel concetto dell’amministrazione, la preparazione necessaria ad una trasformazione ulteriore. Due locazioni novennali devono trascorrere affinché in contadino acquisti l’istruzione agricola, la preparazione tecnica e commerciale e la capacità finanziaria per potere, con speranza di successo, diventare proprietario del piccolo podere coltivato.
Proprietari agricoli coltivatori non si nasce, si diventa. Non basta un decreto, una largizione improvvisa a trasformare in piccoli proprietari milioni di contadini nullatenenti. La storia delle censuazioni dei terreni demaniali e comunali nell’Italia meridionale ne è una prova lacrimevole: si diedero centinaia di migliaia di quote ai contadini, e questi le graffiarono coll’aratro chiodo, le derubarono della fertilità accumulata da secoli, e poi le rivendettero a poco prezzo ai grandi proprietari ed agli usurai del luogo, ricostruendo quella grande proprietà che si voleva abolire. dar la terra ai contadini in dono significa darla a risparmiatori e spreconi, a diligenti e inabili, a gente innamorata della terra e conscia della irregolarità e lentezza dai suoi rendimenti ed a gente che immagina di aver fatto fortuna, diventando proprietari, ed ai primi disinganni, subito si disanima ed impreca allo Stato donante e pretende nuovi aiuti e nuove provvidenze.
Non così accade quando un periodo intermedio di affittanza ha potuto consentire una scelta fra i contadini aspiranti alla proprietà, ed ha potuto creare in essi le condizioni del successo, che sono la lunga pratica della coltivazione ed il possesso di un risparmio sufficiente a pagare una parte rilevante del prezzo d’acquisto.
Già con 39 su 42 coloni affittuari di uno dei poderi dell’Ospedale maggiore di Milano, fu possibile definire le condizioni di vendita dei piccoli poderi loro rispettivamente assegnati, già si ebbe il versamento di una rilevante somma a titolo cauzionale. Per uno dei 3 rimanenti si attende il ritorno delle trattative opportune, e per gli altri 2 fa d’uopo procedere innanzi a definire una contestazione circa i limiti dei rispettivi lotti. In complesso, il prezzo di vendita convenuto è notevolmente superiore a quello, già buono, offerto da piccoli speculatori per l’acquisto in blocco.
Al primo esperimento di vendita, altri seguiranno a mano a mano che pei terreni asciutti l’amministrazione avrà potuto procedere alla sistemazione dei poderetti da vendersi, in guisa che ognuno di essi abbia una sufficiente dotazione di fabbricati rustici e sia una unità agricola bastevole al lavoro di una famiglia. Non occorre invero soltanto formare prima il contadino capace di acquistare; occorre anche che il podere sia adatto ad una economia indipendente. Perciò il frazionamento del latifondo è destinato quasi sempre all’insuccesso. non si può dividere la tenuta di 1000 ettari in 100 apprezzamenti di 10 ettari l’uno e darli a 100 contadini. Se c’è una casa sola centrale, se non vi sono strade, se mancano pozzi, aie, alberi, se la terra si presta ad una sola coltura, ciò che si regola è una landa, che non serve a nulla. Il contadino sfrutta per alcuni anni e poi la pianta lì. Il contadino compera il poderetto con casa, fienile, stalla, portico, pozzo, aia, alberi ombrosi, strada di accesso, apprezzamenti delimitati e di varia cultura, capaci di assorbire il lavoro suo e della famiglia per tutto l’anno: compra l’unità agricola in una parola e con molta ragione preferisce pagare questa a caro prezzo piuttosto che ottenere in regalo o quasi la superficie nuda, la quale in mano sua sarebbe improduttiva.
Perciò, anche, bene a ragione l’avv. Gaggi dimostra come il frazionamento, possibile per i fondi asciutti appaia, se non impossibile, più ardua impresa per i fondi irrigui. Questi invero costituiscono una unità agricola ben più ampia di quella che è adatta per i poderi asciutti. Per questi ben 539 piccoli poderi si crearono su 1595 ettari di terreno, all’incirca 3 ettari per ogni podere. Il podere irriguo ha limiti ben più ferrei al suo frazionamento. La necessità tecnica di tenere sistemati i terreni in estesa superficie per il lento fluire su di essi del pelo d’acqua, la non convenienza di moltiplicare canali e roggie, la impossibilità di abbondare in case rustiche, quando l’allevamento delle mucche da latte e l’impianto di latterie richiedono capitali cospicui fanno si che l’unità di cultura debba essere ben più estesa di quella minima possibile nei terreni asciutti. Poterono gli Istituti ospitalieri frazionare il podere Mirasole di ett. 245,48,30, affittato prima dell’11 novembre 1908 per lire 44.55 di canone annuo in due minori: Mirasole di ettari 177,36,70 affittato il lire 34.000 annue e Montalbano di ettari 69,54,40 affittato il lire 13.500 con un aumento del 30 per cento circa. E così il podere Resentera di ett. 216,80,00 affittato per L. 32.000 annue fu l’11 novembre 1909 frazionato in Resentera di ett. 117,00,01 locato pel canone di L. 21.500, Castelnovedo di ettari 69,82,00 per L. 11.800 e Casello X di ett. 29,97,60 per L. 4850, con un aumento del 20 per cento circa nel reddito. Trattasi pur sempre di medi ed ampi poderi, non adatti alla piccola proprietà coltivatrice; né sarebbe conveniente distruggere la fertilità della terra e ritornare a forma di sfruttamento antiquate soltanto per ostinarsi a creare un ceto di piccoli proprietari laddove esso non può prosperare. Il Gaggi non esclude di potere in certi casi, dove la cosa è tecnicamente possibile, moltiplicare le case coloniche anche nei poderi irrigui e disciplinare opportunamente l’uso delle acque di irrigazione. Ma anche nell’ipotesi più favorevole la superficie minima del podere non potrà mai scendere al disotto delle 400 o 500 pertiche milanesi (circa 30 ettari). Media proprietà dunque, non piccola.
Ed anche entro siffatti limiti e oltre alla non facile impresa di sistemare l’uso delle acque di irrigazione, vi ha da un lato il problema non indifferente della spesa per le necessarie costruzioni, coi criteri speciali per tali frazionamenti, di stalle, banchi, aie, concimaie, casse coloniche, ecc., per ciascuno degli apprezzamenti e dall’altro quello pure notevole dei capitali occorrenti al colono affittuario per le scorte vive e morte e per le dotazioni d’impianti.
Il costo dell’ettaro varia moltissimo dopo l’esecuzione di tutte queste opere, specie ora che le costruzioni edilizie sono tanto dispendiose; e ben presto giunge il momento in cui esso grava troppo sulla produzione. Né d’altro canto è possibile farne estrazione, perché senza assoggettarsi a quel costo l’impresa agricola non vive.
Degne di riflessione sono le avvertenze che gli esperimenti fatti hanno consigliato agli Istituti Ospitalieri di Milano rispetto alle modalità della vendita ai coloni. Riproduco, quasi con le stesse parole, il dettato del Gaggi.
Sono da escludere il sistema della vendita per asta pubblica e quello per licitazione privata; adottando invece il metodo della trattativa privata collo stesso colono affittuario, riservando un’eventuale gara tra i diversi offerenti per ogni singolo lotto soltanto nel caso di risultato negativo della trattativa piccola. Per evitare dannose lungaggini di pratiche amministrative è opportuno richiedere l’autorizzazione prefettizia a tale procedimento insieme alla approvazione da parte dell’autorità tutoria dei preliminari di vendita già stipulati coi coloni acquirenti. Inoltre deve ritenersi sempre preferibile il patto del pagamento da parte del colono acquirente dell’intiero prezzo all’atto della stipulazione dell’istrumento definitivo di acquisto, stabilendo quest’ultimo per una data possibilmente anteriore o coincidente con quella della convenuta decorrenza del godimento dell’immobile per l’acquirente, ad evitare corresponsioni di interessi e per semplificare i necessari conti di conguaglio per le imposte e per gli eventuali pesi reali gravanti il fondo. Qualora però l’acquirente chiedesse di poter pagare una sola parte del prezzo all’atto dell’istrumento e di pagare il residuo a termine o mediante rate annuali di ammortamento, sembra consigliabile richiedere il pagamento immediato di almeno una metà del prezzo e la stipulazione da parte dell’acquirente di un polizza di assicurazione sulla vita coll’Istituto nazionale, per la quale quest’ultimo si obblighi, in caso di morte dell’acquirente, a versare il residuo prezzo di acquisto che risulterà dovuto a quella data. Qui si palesa l’opportunità dell’intervento del legislatore, il quale potrebbe anche agevolare le vendite, con attenuazioni delle esorbitanti imposte sulle trasmissioni a titolo oneroso, la quale oggi sono di tanto ostacolo alla libera commerciabilità della terra ed al suo trapasso in mani più adatte ad utilizzarla.
Gioverebbe altresì, a facilitare l’accesso alla terra da parte dei contadini, l’intervento degli Istituto di Credito fondiario i quali potrebbero integrare l’acconto versato dall’acquirente per almeno una metà del valore del fondo, con un mutuo per la parte residua ammortizzabile a lunga scadenza. Le pratiche dovrebbero essere iniziate, d’intelligenza cogli acquirenti, dalle opere pie venditrici, in guisa che esse siano conseguite col minor costo e sovratutto col minor fastidio di documenti e di perizie per i contadini non abituali a procedure complicate. Così pure il Gaggi ritiene che potrebbe essere fecondo l’intervento di Istituti di credito agrario per sovvenire ai contadini i capitali necessari per l’acquisto delle scorte e per la gestione agricola, mutui che dovrebbero essere garantiti sulle scorte stesse, sugli strumenti e sui prodotti del lavoro.
Non altrettanto entusiasta egli si dimostra del proposito messo innanzi da parecchi scrittori e uomini politici di vendere non ai contadini direttamente ma a cooperative agricole già costituite o da istituirsi fra contadini. Se le cooperative hanno da assumere esse la coltivazione delle terre si presentano i quesiti: nei poderi asciutti è davvero possibile e conveniente la coltivazione collettiva laddove la pratica dimostra la possibilità e la convenienza della coltivazione individuale? Non si perdono in tal guisa tutti i vantaggi della piccola proprietà; e non si crea artificiosamente un proletariato, sia pure di cooperatori braccianti, in luogo della auspicata classe di contadini forti, vigorosi ed indipendenti economicamente e socialmente?
Se poi la cooperativa deve essa stessa procedere alle rivendite parziali ai contadini «non si vede la utilità pratica di fare eseguire da altri le divisioni e le trattative coi singoli coloni che l’opera pia può fare direttamente essa stessa, evitando che si introducano eventualmente in tali operazioni elementi dirigenti le cooperative che siano estranei alla classe dei coltivatori diretti del podere e dannose influenze di partiti politici, le quali tornerebbero a danno dell’opera pia venditrice nella gara elettorale dei partiti alla vantata tutela più o meno efficace degli interessi dei contadini».
Parole d’oro, le quali vanno meditate in tempi di infatuazione per i nomi e per le organizzazioni d’ogni fatta, anche non rispondenti a necessità effettive. Le cooperative potranno giovare in seguito, in regime di proprietà frazionata, per l’acquisto delle macchine agricole, dei concimi, delle semenze, per l’assicurazione mutua del bestiame, per la vendita in date circostanze, dei latticini nella vicina grande città. Potranno giovare per assumere l’affittanza collettiva dei poderi irrigui, il cui frazionamento sia impossibile per le ragioni già esposte. Ma occorrerà siano cooperative costituite tra i coltivatori medesimi del fondo, tecnicamente istruiti e capaci di gestione collettiva. Non dovranno essere un pretesto per ottenere affitti a condizioni di favore, con danno dei fini pubblici che le opere pie proprietarie perseguono e dei medesimi coloni abituati così a sperare il successo più degli intrighi e dalle corruzioni politiche che dalla propria attitudine a far senza del fittabile intermediario pur pagando quel più alto canone che al fittabile sarebbe parso conveniente pagare.
Ho riassunto fedelmente l’esposizione del Gaggi su quanto è già stato fatto ad opera delle istituzioni ospitaliere di Milano per risolvere il problema della terra ai contadini. L’esperimento concorda con quanto ci dice la storia economica. il passaggio della terra ai contadini per essere durevole e giovevole alla collettività deve essere:
- graduale. Una classe di contadini proprietari non si improvvisa. Si forma attraverso una lunga educazione e selezione;
- parziale. Non tutte le terre si prestano al frazionamento. Il Gaggi distingue tra quelle irrigue e quelle asciutte, tra quelle provvedute e quelle sprovviste di case rustiche ed accessori. Si potrebbe continuare. Sono frazionabili le terre di collina e di montagna, meno quelle di pianura. Più le terre alberate, meno quelle nude. Più quelle provviste di strade, meno quelle che ne sono prive. Più le terre dove la popolazione usa già vivere sparsa nelle compagne, assai meno quelle in cui i contadini vivono agglomerati nei grossi borghi. Più quelle a coltura promiscua, meno quelle a cultura specializzata od unica.
Nel mezzogiorno, nelle Puglie, nella Sicilia, il frazionamento potrebbe essere un regresso. Mentre oggi si può passare laggiù dall’agricoltura estensiva alla grande industria agricola con macchine, il frazionamento significherebbe in certe zone il ritorno a forme barbare di sfruttamento del suolo.
È probabile che il motto «la terra ai contadini» possa prendere in certe zone agricole (Puglia, Sicilia) solo la forma di una estensione graduale del grosso e brutto borgo nella campagna circostante. Bisognerà forse creare sobborghi estesi, con casette sparse e provvedute di un ettaro di terreno ciascuna, forse meno, da cintarsi a muro o con reti metalliche, quasi orti e giardini, in cui si coltivino piante da frutta, agrumi, mandorli, consociati ad ortaggi primaticci.
Il latifondo circostante permarrà e, trasformato in impresa agricola- industriale moderna, assorbirà la mano d’opera lasciata libera dalle cure dell’orto famigliare.
- costosa. Riesce quel contadino il quale ha prima risparmiato il gruzzolo atto a pagare almeno metà del valore del fondo. Questa è la pietra di paragone delle serietà e della capacità dell’uomo. Gli Stati Uniti, il Canadà, l’Australia, l’Argentina furono colonizzati così. L’emigrante europeo non balzò d’un tratto alla proprietà della terra. Sarebbe andato incontro all’insuccesso. Cominciò ad imparare la lingua, quando non la sapeva. In ogni caso fece il bracciante vagabondo. Iniziò poi contatti colla terra all’epoca della mietitura. Poi divenne garzone stabile nella fattoria agricola. Mise qualche soldo da parte. Con questo si azzardò ad assumere a mezzadria un terreno già provveduto di casa, di strumenti, di scorte e di bestiame. Risparmiò ancora. Divenne fittaiolo per conto suo. Finì, dopo parecchi e spesso molti anni, per ottenere dallo Stato la concessione gratuita od a poco prezzo di un podere suo proprio. Se avesse cominciato di qui, sarebbe morto di fame. Che cosa farsene di un terreno senza casa, senz’alberi, da dissodare e da ripulire da erbacce, sterpi, arbusti o boschi? Con che metodo coltivare? Ultimo gradino di un lungo tirocinio, la conquista della terra riesce. Il contadino ha esperienza, ha buoi, possiede carri, scorte, macchine agricole; ha comperato bell’e fatto il capanno in cui vivrà per un anno finché non si sarà costruita la casa.
Può aspettare; e frattanto lavorare, lui ed i figli che sono venuti su. Sa come dissodare, come schiarire la terra. In due o tre anni egli è proprietario contento e prospero. Così si formarono i milioni di farmers nord-americani che sono il nerbo della repubblica delle stelle e del dominio del Canadà. Così, nei secoli, sorsero la democrazia terriera di Francia e quella, non inferiore, che popola gran parte del Piemonte. Così; e non con le chiacchiere insulse della divisione rapida del latifondo tra i reduci della guerra.