Opera Omnia Luigi Einaudi

In lode del profitto

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1956

In lode del profitto

Prediche inutili, Torino, Einaudi, 1956, pp. 171-193

 

 

 

Gli obbligazionisti, portatori di un diritto ad un reddito fisso, garantito dall’ente emittente e gli azionisti percettori di quella parte del saldo netto, eventuale ed incerto, del conto esercizio dell’impresa, che il consiglio di amministrazione non vorrà mandare a riserva, sono guardati dall’opinione comune con occhio assai diverso; i primi con favore, i secondi con sospetto, come fossero speculatori e profittatori. Si commiserano bensì i debitori oppressi dal pagamento di interessi fissi del 6, del 7, del 10 per cento, ma non si osa invocare, a lor sollievo, il ripristino dei limiti legali all’usura, ben ricordando come, a statuire massimi di interesse, si impauriscono i risparmiatori e si rarefà l’offerta del risparmio. Ma tuttodì si propongono e di tempo in tempo si approvano leggi le quali vietano il pagamento di dividendi in eccesso di quelli distribuiti in un qualche tempo precedente, assunto arbitrariamente come tipico o, se si tratti di un’impresa nuova, in eccesso di quel 5 o 6 per cento sul capitale versato, che si ritiene «giusto»; e si istituiscono tributi sulle eccedenze, oltre un cosidetto ammontare normale, dei redditi distribuiti e, in misura maggiore o minore, anche di quelli non distribuiti.

 

 

Il profitto, ossia il guadagno ottenuto oltre ciò che si reputa «equo» compenso al capitale, è considerato con occhio avverso, quasi fosse un furto compiuto a carico di qualcuno. Si lodano gli enti istituiti allo scopo di compiere operazioni economiche senza lucro; e negli Stati uniti il fisco tratta con favore e persino esenta da imposte gli enti che avendo inserito negli statuti divieto di dividendi ai soci, possono vantarsi di essere no-profit e meritare privilegi negati agli enti afflitti dalla lebbra del profitto.

 

 

Là dove talune imprese sono nazionalizzate o municipalizzate in virtù di un piano, come si volle in Italia per le ferrovie o le tranvie o le imprese del gas e della luce, od anche per circostanze accidentali, come accadde per le imprese I.R.I., si loda quelle di esse che riescono ad emettere prestiti, sovratutto se non fanno appello alla garanzia dichiarata dello stato – quella tacita essendo ovvia -; né si reputa abbominando il pagamento di interessi ai portatori di obbligazioni. Mentre si invocano limiti od imposte straordinarie sul supero dei dividendi oltre il «normale», non si esita ad obbligarsi a pagare interessi fissi sulle obbligazioni emesse da imprese nazionalizzate, anche quando, per le condizioni del mercato, il saggio di interesse uguaglia la media dei dividendi distribuiti ad analoghe imprese private. Il pagamento degli interessi ai portatori di titoli di debiti pubblici e guardato bensì con allarme dai ministri del tesoro, i quali si preoccupano del peso crescente per il bilancio dello stato, ma si loda il patriottismo dei risparmiatori, che vengono in aiuto della cosa pubblica. Gli interessi sul debito pubblico, con gli interessi delle obbligazioni e sulle altre specie di indebitamento delle imprese pubbliche e private sono il grosso di ciò che si paga al capitale. Quando si dice che sono la maggior parte, si intende fare un confronto fra ciò che si paga in ragione fissa (interessi) e ciò che si paga in ragione variabile (dividendi) su titoli i quali possono o potrebbero essere emessi al portatore ovvero al nome. Ma i creditori sono detti «risparmiatori» e sono considerati ruote necessarie del meccanismo economico. Se qualcuno non producesse risparmio, come potrebbero operarsi investimenti pubblici e privati? Negli stati comunisti si emettono ogni anno prestiti pubblici, ai quali è versato, senza scandalo, un interesse, sotto nomi in verità, a quel che si può capire, finti di rimborsi al di là del versato, di premi estratti a sorte e simili. Se gli stessi risparmiatori, invece di pretendere la libbra di carne pattuita alle inesorabili scadenze convenute sul titolo all’interesse fisso del 5 o 6 o 7 per cento, sottoscrivono un’azione la quale reca solo il diritto ad un dividendo incerto e variabile prelevato eventualmente sul guadagno o profitto dell’impresa, se profitto ci sarà e nei limiti in cui si otterrà, ipso facto il risparmiatore da benemerito si fa avido speculatore, infame capitalista e sfruttatore dei lavoratori. Negli stati nei quali è stata voluta la nominatività delle azioni allo scopo principale di conoscere il reddito riscosso od il capitale posseduto dagli azionisti, non si è esteso l’istituto della nominatività alle obbligazioni; quasiché se un tale ricava un reddito di un milione di lire da azioni sia dannabile alla geenna se non ne dichiara l’ammontare all’ufficio delle imposte, laddove a chi ottiene il medesimo reddito da obbligazioni e da titoli di debito pubblico si consente di dare al titolo posseduto la forma al portatore, implicitamente dichiarandosi che egli può, col consenso tacito del legislatore, contravvenire senza rischio al suo obbligo di dichiarazione del reddito.

 

 

La differenza di trattamento fra il reddito di minore (dividendi da azioni) e quello di maggior importanza numerica totale (interessi da debito pubblico e da obbligazioni) dimostra che la giustizia nella ripartizione del carico fiscale è mero pretesto adottato dal legislatore per il raggiungimento di altri fini.

 

 

Quali le ragioni del diverso atteggiamento rispetto a due istituti, i quali pure hanno comune il connotato di essere un compenso ai fornitori di risparmio?

 

 

Un motivo è sostanziale: ed è che al pagamento degli interessi non si muovono, neppure nei paesi di osservanza comunistica, critiche economiche e morali. Si danno, anche qui, eccezioni, come quando in taluni paesi male amministrati da tiranni o da filibustieri, l’interesse è pattuito su 100, ma il debitore ha ricevuto in verità solo 50, il resto essendo spartito fra mezzani, ladri pubblici e simigliante genia. Ma sono eccezioni, rare nei paesi di civiltà occidentale; sicché l’opinione pubblica media ne fa astrazione ed è disposta a riconoscere il buon diritto del risparmiatore a riscuotere gli interessi pattuiti. Invece, i profitti, sono in una certa misura, per lo più non irrilevante, goduti da imprese privilegiate da protezioni doganali, da quote e contingenti che limitano la concorrenza, da preferenze, legali o di fatto, negli appalti, da monopoli creati o tollerati dalla legislazione. Per imprese privilegiate non intendo cioè quelle le quali godono soltanto del privilegio generico della proprietà, ossia di un connotato proprio di qualunque pagamento al capitale, sia detto interesse ovvero profitto. Faccio cioè qui astrazione dalla dottrina che afferma essere il compenso al capitale originato da uno sfruttamento o supersfruttamento del lavoratore, da un lavoro non pagato. Il privilegio, di cui parlo, è quello che deriva da una situazione particolare, la quale consente all’imprenditore di ottenere, con l’aumento dei prezzi di vendita dei suoi prodotti, con il divieto ai concorrenti di entrare nel mercato, con la possibilità di sotto-remunerare talune categorie di paria create dalla legge o dal costume, un profitto superiore a quello che è dovuto alla sua iniziativa, alla sua intraprendenza, alla sua capacità di organizzazione, al suo intuito dei desideri dei consumatori, alla sua attitudine a scoprire o prontamente adottare nuovi metodi o congegni produttivi.

 

 

La distinzione fra profitti di impresa e profitti di monopolio non è tuttavia così netta, che i monopolisti ed i loro trabanti non cerchino di confondere le idee facendo passare le critiche ai profitti di monopolio come fossero rivolte ai profitti di impresa ed accusando i critici di essere nemici della iniziativa privata e della libertà economica. D’altro canto gli antimonopolisti, mossi dal legittimo desiderio di giovare alla cosa pubblica, non avvertono abbastanza chiaramente ed abbastanza sovente che essi, nel combattere i profitti di monopolio, intendono esaltare e difendere i profitti di intrapresa. L’incertezza nel linguaggio, in questo campo, è simile a quella che si riscontra nel parlare di agrari e di agricoltori. Gli «agricoltori» si noverano a milioni e sono gente per lo più occupatissima a trarre frutto modesto da lavori spesso duri e altrettanto e spesso più intelligenti e più rischiosi di quelli proprii della grandissima maggioranza degli altri lavoratori del braccio e della mente. Tuttavia, poiché esistono anche “agrari”, che conoscono le loro terre per i fitti che, stando in città, ne traggono, costoro, tuttoché diminuiti notabilmente di numero e di forza economica, figurano grosso nel linguaggio ordinario pubblicistico e politico; sicché sono parimenti scarsi coloro i quali, paventando di essere tacciati di monopolismo, osino difendere gli industriali e coloro che, per timore di essere vilipesi come agrari, non offendano i tanto più numerosi agricoltori. Avverto perciò che il confronto fra l’interesse o reddito fisso e certo e il profitto variabile ed incerto è raffronto che qui di seguito è compiuto fra l’interesse in genere e il profitto di intrapresa. Per «interesse» intendo cioè, data la scarsa importanza delle eccezioni, l’interesse senza aggettivi ed invece intendo per profitto la sola parte di esso che è profitto di intrapresa, abbandonando alla sua mala sorte il profitto di monopolio. Avverto altresì che, per correttezza di linguaggio, invece di «interesse» adopererò per lo più la parola «reddito fisso»[1].

 

 

Il favore comunemente dimostrato da politici e da pubblicisti per i portatori o percettori di redditi fissi, e, si aggiunge talvolta, per i «poveri» percettori di redditi fissi, deriva anche in parte e quasi inconsapevolmente, dalla constatazione che i redditi fissi non sono affatto fissi, ma furono negli ultimi quarant’anni, siffattamente ridotti, da risultare quasi evanescenti rispetto ai redditi convenuti prima del quarantennio. Si lodano i risparmiatori, ma sotto sotto sono sovratutto lodati per la loro ingenua credenza nella stabilità della unità monetaria che l’esperienza dimostra essere destinata nei secoli a svalutarsi progressivamente. Invano taluno ha cercato di dimostrare la convenienza degli enti pubblici e dei privati ad obbligarsi a pagare gli interessi dei debiti in oro, e cioè in una moneta purtroppo anch’essa instabile, ma soggetta solo a variazioni dovute al fatto di Dio, che l’esperienza dimostra relativamente moderate e non a quelle dovute al fatto del Principe, che sono imprevedibili e furono talvolta ampie sì da trascorrere dall’unità allo zero. Persino agli americani l’obbligo di rimborsare dopo un numero fisso di anni lo stesso dollaro oro, dello stesso peso e titolo, che si era ricevuto al momento del prestito, parve un rischio incomportabile; ed a nulla valse osservare che il rischio era alla lunga largamente bilanciata dal vantaggio dell’acquistato credito e della certa diminuzione del saggio di interesse per quei debitori i quali avessero dimostrato di volere far fronte agli impegni contratti nella misura convenuta. Invano, che i «giuristi dell’imperatore» dimostrarono, con rigoroso ragionamento, essere vero quel che gli economisti considerano sofisma evidente: che il dollaro è sempre dollaro, anche se rappresentato da un pezzo di carta svalutata in potenza d’acquisto, e che la lira sterlina di carta non convertibile in oro, anche se ridotta ad un quinto o meno della potenza d’acquisto posseduta al principio del secolo, è sempre una lira sterlina, e che il marco è sempre il marco, anche se quello d’una volta vale zero via zero.

 

 

I risparmiatori posseggono un’arma di difesa contro la svalutazione della moneta; il rialzo nel saggio di interesse sui prestiti a scadenza relativamente lunga. Se la tendenza al ribasso nel saggio di interesse, la quale pareva accentuarsi nel primo decennio del nostro secolo, è oggi nettamente rovesciata, se dai saggi del 2 per cento, al quale Inghilterra e Stati uniti riuscivano allora a collocare prestiti, si è passati, per stati reputati solidi, al 4 ed al 5 per cento e, nei paesi di mera buona reputazione, al 6 e 7 per cento; se le obbligazioni fondiarie dal frutto del 3,50 per cento sono salite nell’Europa occidentale al 5 ed al 6 per cento, una delle cause – non è compito di questo scritto analizzarle tutte – è indubbiamente la istintiva difesa del risparmiatore contro il rischio della svalutazione monetaria della sorte principale e degli interessi dei capitali dati a prestito. Se si faccia astrazione degli altri coefficienti del rischio del dare a prestito a lunga scadenza, ad es., superiore all’anno; e se si considera soltanto il rischio della svalutazione, la difesa del risparmiatore è perfetta se il saggio di interesse convenuto è uguale al saggio netto giudicato dal mercato atto a rendere la domanda del risparmio uguale all’offerta, aumentato del rischio di svalutazione. Supponiamo, a cagion d’esempio, che il saggio netto di interesse necessario per uguagliare, in un dato paese e per mutui di quel tale debitore, privato o pubblico, per una certa durata, ad ipotesi di 5 anni, sia del 3 per cento. È questo cioè il frutto «reale», in moneta stabile, netto da ogni rischio, che il mercato considera sufficiente, in quel paese, per quel debitore, e per quella scadenza, a remunerare il risparmio dato a prestito. Il saggio «apparente» può essere, forse notevolmente, più alto, suppongasi del 6 per cento. Per passare dal saggio apparente al saggio reale occorre dedurre in primo luogo gli «altri» rischi: di ritardi nei pagamenti degli interessi e dei rimborsi di capitali, di litigiosità del debitore, di bancherotte, di concordati, non ignoti anche per i debitori pubblici; e supponiamo per semplicità e per non imbrogliare le idee che da codesti «altri» rischi si faccia astrazione e debbano perciò essere calcolati a zero. L’ipotesi è azzardata, ma non inverosimile, non essendo ignota la specie dei debitori scrupolosi e puntualissimi, che i creditori hanno in grande stima e da cui paventano vogliano un bel giorno restituire la somma ricevuta a prestito. Occorre dedurre dunque dal lordo od apparente 6 per cento soltanto il rischio della svalutazione monetaria. Tra i tanti e tutti incerti metodi di calcolare il rischio monetario, suppongasi si ritenga preferibile quello tratto dall’aumento annuo nei prezzi al minuto delle cose comunemente consumate dal ceto dei risparmiatori. È evidente che se il risparmiatore al principio dell’anno investe 100 lire quando le 100 lire acquistavano 100 unità di beni o merci od oggetti consumabili; ma prevede che, per acquistare alla fine dell’anno le stesse 100 unità di beni occorrerà spendere 103 lire, egli non può contentarsi di ricevere un frutto di 3 lire. Alla fine dell’anno egli stringerebbe un pugno di mosche; ché le 103 lire gli servirebbero appena ad acquistare la stessa roba che al principio dell’anno acquistava con 100 lire. Se vuole ottenere un frutto del 3 per cento dal capitale, è necessario che egli pattuisca un saggio di interesse apparente del 6 per cento, di cui 3 lire copriranno il rischio di dovere pagare tutto più caro e solo 3 lire sono il vero reale reddito netto.

 

 

Chi perda e chi guadagni nelle previsioni del rischio di svalutazione non è certo. Nel secolo scorso, all’incirca dal 1814 al 1914, che fu un tempo di moneta abbastanza stabile, il saggio «apparente» si andò avvicinando al saggio «reale»; ed alla fine i due saggi, sotto questo rispetto, quasi si confondevano l’un l’altro, per la lealtà dei governi nel mantenere la moneta stabile. Dal 1914 ad oggi la tendenza è mutata; ed i risparmiatori non sono in generale riusciti ad aggiungere al 3 per cento, o saggio reale d’interesse, quel che sarebbe stato necessario per coprire il rischio di svalutazione. In certi momenti l’aggiunta, oltre il 3 per cento reale, avrebbe dovuto essere del 100, del 1.000 per cento non ad anno ma a giorno; cosa chiaramente impossibile e di fatto mai accaduta. Se il saggio reale è 3 per cento ad anno ed il saggio apparente è 6 per cento, sono avvantaggiati i creditori se il rischio di svalutazione, reso manifesto dall’aumento del costo della vita, è solo del 2 per cento. Essi devono dedurre dal 6 soltanto il 2 per cento, restando con un reddito netto reale del 4 per cento, superiore a quello del 3 per cento che il mercato reputa normale. Se invece il rischio di svalutazione fu del 4 per cento, è avvantaggiato il debitore, il quale, pagando il 6 per cento, sotto deduzione del 4 per cento, necessario per pareggiare sostanzialmente il ricevuto e il restituito, se la cava con un 2 per cento di interesse reale. Nel tempo dal 1914 al 1956 il vantaggio in generale restò ai debitori e il danno ai creditori. Oggi, il vantaggio per i debitori sta scemando e così il danno per i creditori; ma il ritorno all’equilibrio è lento, perché i rischi di svalutazione (guerre, rivolgimenti politici e sociali, spese pubbliche e private crescenti oltre quanto sarebbe consentito dalla necessità di prelevare dal reddito un risparmio sufficiente a coprire le esigenze di nuovi investimenti richiesti dall’aumento della popolazione e da quello dei bisogni) non sono venuti meno.

 

 

Il ritorno al costume monetario proprio dello stupido secolo decimonono non appare ancora, sebbene augurabile, del tutto sicuro; e fino a quel momento i possessori di redditi fissi, e cioè i risparmiatori-creditori godranno del favore dell’opinione pubblica, istintivamente bene disposta verso coloro i quali siano vittime incolpevoli di un danno reputato dai più immeritato.

 

 

Non è quella ora esaminata la sola ragione dell’antipatia dimostrata verso gli azionisti, incolpati insieme coi proprietari di terre, gli industriali, i commercianti e gli intermediari di avere preferito investimenti non soggetti o meno soggetti al rischio della svalutazione. Qual colpa hanno, si esclama, i portatori di un titolo di stato acquistato prima del 1914 per 100 lire, che pure qualcosa valevano, ed oggi, avendolo tenuto, posseggono le stesse 100 lire, che valgono, suppergiù, ad acquistare la trecentesima parte di quel che allora si comperava? E qual merito hanno coloro che nello stesso tempo acquistarono terre o case o macchinari industriali o fondi di commercio pagando 100 lire (od un multiplo di esse) ed oggi le stesse valgono 300 volte tanto, ossia 30.000 lire? Perché noi, che perdemmo senza colpa, non siamo rimessi in pristino? Perché gli assicurati sulla vita, i quali hanno sudato sangue per acquistare il diritto a ricevere in vecchiaia un capitale di 100.000 lire, quanto bastava per vivere, col reddito, onestamente il resto della vita e lasciare ai figli un modesto patrimonio, e si videro recapitata una somma nominalmente uguale a 100.000 lire, ma del valore sostanziale di pochi soldi, non avrebbero diritto ad un indennizzo?

 

 

Qui non discuto il problema intricatissimo e reso ogni giorno più complicato dal trascorrere del tempo; constato soltanto che la diversa sorte toccata, nel tempo corso dal 1914 al 1945 e che ancora continua oggi, spiega in parte la simpatia con cui dai più si guarda ai percettori di redditi fissi e la antipatia dimostrata verso coloro i quali cercarono di salvarsi dagli effetti della svalutazione monetaria.

 

 

Gli aspetti assunti dalla antipatia non sono sempre ragionevoli; come quando, scambiando il salvamento dal danno per guadagno, si opina che azionisti, proprietari e simili, per ciò solo che non sono stati danneggiati, meritano di essere soggetti, in aggiunta a quelle generali le quali colpiscono ambedue le specie, fissa o variabile, di reddito, a particolari imposte create a bella posta in loro contemplazione o, come, più appropriatamente, dicevasi un tempo, in loro odio. Imposte, le quali non possono manifestamente riferirsi al reddito, perché le imposte generali, sia proporzionali sia progressive, colpiscono il reddito nel suo ammontare attuale; sicché se, per trattarsi di reddito fisso, esso è rimasto a 100, gravano su 100 con l’aliquota propria di 100, ad ipotesi 1 per cento; e se invece, per trattarsi di reddito variabile da azioni, fu moltiplicato per 300, tassano 30.000, con l’aliquota 5 per cento propria delle 30.000. Il reddito fisso paga dunque 1 e quello variabile 1500, che pare sia diversità atta a tener conto della svalutazione. Così accade parimenti per le imposte di successione e per quelle di registro, le quali sono anch’esse proporzionate ai valori correnti di 100 e 30.000.

 

 

Una aggiunta alle imposte generali, le quali, ad esempio, colpisse col 20 per cento – ma per lo più i sostenitori suoi vorrebbero aliquote assai più alte, del 50 e del quasi 100 per cento, trattandosi, a parer loro, di arricchimento immeritato – l’eccedenza del valor capitale attuale, supponiamo 30.000, in confronto al valor capitale antico, del 1914, supponiamo 100, non trova spiegazione se non quella addotta sopra dai sostenitori: trattarsi di arricchimento immeritato. Il che è erroneo, perché se è vero che il portatore del titolo a reddito fisso, che possedeva dianzi 100 ed oggi le ha conservate, in realtà possiede poco più di 30 centesimi antichi ed è stato spogliato del suo avere, è erroneo dire che colui il quale ha investito nel 1914 il risparmio 100 in azioni a reddito variabile ed oggi, conservandole intatte, ha un patrimonio del valore di 30.000, abbia guadagnato. In realtà ha conservato il suo: possedeva 100 lire antiche nel 1974 possiede oggi 30.000 lire attuali uguali a 100 lire antiche 1914. Vero è che l’uno ha perduto, a causa del fatto del Principe, quasi tutto il suo e l’altro, sottraendosi alle conseguenze del medesimo fatto, lo ha conservato. Per lo più lo ha conservato solo in parte, essendo rari i casi in cui, tempestivamente e senza rischio, i risparmiatori abbiano potuto scegliere investimenti non soggetti a svalutazione monetaria. Se fosse razionale colpire con particolari imposte, in aggiunta a quelle generali, le quali sopra si vide essere attissime a tener dietro alle variazioni dei valori monetari, la eccedenza di 30.000 su 100, si sarebbe affermata una regola nuovissima che cioè si debba tassare il contribuente in ragione, non dei redditi e degli arricchimenti conseguiti, ma in ragione delle minori perdite sofferte in rapporto a chi più perdette. Il fatto del Principe (svalutazione monetaria) ha fatto perdere ai danneggiati quasi tutto il posseduto, riducendo le 100 lire attuali ad una trecentesima parte del valore di quelle antiche aventi il medesimo valore numerico? Tutti coloro che in parte od in tutto si salvarono dal danneggiamento, e investirono le stesse 100 lire in modo che il loro titolo di proprietà oggi vale, a seconda del successo nello sfuggire ai colpi dei governanti, 1.000 o 10.000 o 20.000 o 30.000 lire, siano obbligati a versare al Principe, che arrecò il danno, tutta o parte della minor perdita sofferta. Ecco aprirsi un vasto campo alla fertile inventiva dei progettisti tributari: si consigli al Principe di svalutare ogni tanto la moneta e subito è creata nuova materia imponibile. Se il principio è valido, esso è valido sino al punto da considerare arricchimento tutto l’eccesso delle 30.000 sulle 100. Sino a quando i contribuenti non siano ridotti tutti a possedere solo le 100 nominali d’un tempo, la giustizia tributaria non è soddisfatta e importa procedere nell’opera santa di perequazione.

 

 

Ferdinando Galiani aveva già mirabilmente scolpita questa maniera di procacciare materia imponibile al Principe, consigliandogli di imitare, senza spesa, Federico Guglielmo di Prussia nella mania di ammettere nella sua guardia solo i soldati di gran statura, possibilmente i più alti del mondo:

 

 

Se un principe desideroso di aver soldati di alta statura, non volesse soggiacere alla spesa che il morto Re di Prussia fece, un ministro accorto potrebbe accontentarlo così. Proporgli di dar fuori una legge, in cui si stabilisse che il palmo non si componesse più di dodici ma di sole nove dita. Ecco che in una notte tutti i suoi soldati, i quali erano andati a letto quali di cinque quali di sei palmi alti, si risveglierebbero miracolosamente allungati chi di otto chi di nove. Che se questa altezza non contentasse ancora le vaste idee del sovrano, con un’altra legge si potrebbero di nuovo slungare e prima di sette braccia, poi di sette pertiche e finalmente di sette miglia l’uno, se si volesse, si potrebbero far diventare (Della moneta, ed. Niccolini, p. 188).

 

 

Anch’io, al pari del Galiani, «conosco che ognuno ride a quel ch’io dico»; ma pur son questi i ragionamenti fatti dai giustizieri tributari, mossi dalla mania di andar scoprendo dappertutto immeritati arricchimenti.

 

 

L’odio teologico contro il profitto ed in generale contro i redditi incerti e variabili non giunge sempre al nominalismo del quale, prendendone spasso, favella Ferdinando Galiani. Talvolta si appiglia alla sostanza e, trasportando alle cose quel che è opinione invalsa per le persone, inventa, per tassarle, eccedenze di profitto delle imprese come se ad esse si potessero applicare i criteri di progressività proprii dei sovrappiù del reddito totale delle persone fisiche.

 

 

È norma universalmente applicata nelle legislazioni tributarie odierne ed anche nella nostra che l’imposta sia graduata, al disopra di un minimo esente, a seconda dell’ammontare del reddito totale della persona fisica; cosicché, essendo esente il reddito del contribuente sino, suppongasi, alle 600.000 lire all’anno, egli sia gravato coll’1 per cento se il suo reddito è di 1 milione, col 5 se è di 10 milioni, col 10 se il reddito tocca i 100 milioni, e così aumentando, sino ad un massimo del 50 per cento per i redditi di un miliardo o più. Il tipo di imposta così descritto, può essere discusso nei particolari, nella progressione delle aliquote, nella base imponibile, se di entrata o di spesa, normale od effettiva; ma è accolto, in principio, a fondamento dei sistemi tributari contemporanei.

 

 

I giustizieri tributari propugnano un ben diverso tipo di progressività, le cui specie sono cangianti, ma sempre inspirate dall’invidia, molla fortissima delle azioni umane.

 

 

In tempi non remoti e nuovamente oggi, alcuni di essi muovono, armati della scure tributaria, alla difesa dei loro elettori piccoli bottegai, invocando supplementi di imposte a danno dei grandi magazzini, dei negozi a catena, ed esenzioni per i piccoli, i quali posseggono una sola bottega e attendono a spacciare un solo articolo. Altri, più accorti, non osano farsi paladini aperti di chi si dimostra inetto ad attirare, con servizi migliori, il pubblico al suo negozio; ed affermano di non voler colpire l’impresa grossa in sé stessa, ma unicamente i guadagni esuberanti o sproporzionati rispetto al capitale investito.

 

 

L’impresa, come ente separato dai suoi pochi o molti o moltissimi comproprietari o soci od azionisti, ed in aggiunta a quel che saranno chiamati a pagare, con l’imposta generale personale progressiva, azionisti o soci o comproprietari, non deve pagar nulla se il suo reddito non supera il 6 per cento del capitale investito, ossia se non supera 60 milioni su un miliardo investito; se supera il 6 per cento ma non 18 per cento, paghi però il 10 per cento sul dippiù; se supera 18 ma non il 10 per cento, paghi il 20 per cento sulla eccedenza oltre 18 per cento e così via dicendo.

 

 

La proposta viola il canone di cosidetta giustizia tributaria universalmente accettato, il quale dice che le imposte gravano sulla persona e non la cosa; perché solo le persone godono redditi e soffrono il pagamento delle imposte; solo le persone sono parte dello stato; solo rispetto ad esse lo stato può affermare che esse hanno una maggiore o minore capacità contributiva. Il principio può essere discusso nei particolari; ma risponde a certe esigenze della logica. Non è invece logico dire: pagheranno il 10 per cento sui 10 milioni ottenuti più dei 60 tanto le imprese con pochi o molti azionisti; sicché, attraverso l’espediente della tassazione dell’impresa pagheranno il 10 per cento tanto gli azionisti che dei 10 milioni riscuoteranno 6 mila lire, quanto coloro che, per essere più grossi azionisti, ne riceveranno 600 mila o 6 milioni.

 

 

A norma dei canoni pacifici della impostazione progressiva, il concetto è privo di qualsiasi spiegazione relativa alla maggiore o minore capacità di pagare degli uomini contribuenti. La spiegazione bisogna cercarla nel concetto che le eccedenze di reddito oltre il normale meritino di essere, solo perché «eccedenza», tassate di più: nulla sino al 6 per cento del capitale investito, il 10 per cento fra il 6 e l’8, il 20 per cento fra l’8 e il 10 e via crescendo.

 

 

L’idea nasce da un sentimento: quello dell’odio verso le eccedenze. L’odio è proprio dell’uomo che non ama il rischio, che si contenta di redditi determinati e sicuri, e crede che guadagnar di più del normale sia, per definizione, il male, sia la rapina, sia l’arricchimento indebito. Può darsi che la rapina ci sia quando l’eccedenza è frutto di monopolio, di privilegio di sussidi o favori o vincoli legislativi. In questi casi però importa impedire la nascita del reddito medesimo, non delle sole eccedenze.

 

 

Ma se il reddito è dovuto alla iniziativa, alla capacità, alla intraprendenza, la tassazione delle eccedenze è veramente cosa barocca e stupida.

 

 

Essa contraddice la legge fondamentale della condotta razionale umana: quella del minimo mezzo. La legge del minimo mezzo comanda agli uomini di ottenere, da un dato mezzo, il massimo risultato possibile, e non il minimo e non il mediocre e non il minore del massimo. Si scelgono le sementi le quali fruttano, a parità di superficie occupata, di fatica durata, di concimi adoperati, una messe abbondante e non una scarsa. Si adopera lo strumento che diminuisce la fatica, non quello che la cresce; si adotta la macchina che ottiene l’istesso prodotto con 5 invece che con 10 operai. Chi si comporta diversamente deve essere eliminato, perché reca danno a sé ed alla collettività.

 

 

Dobbiamo forse, in omaggio al demagogo tassatore, dire: se tu imprenditore ti limiti ad organizzare i fattori produttivi così da ottenere, con l’investimento di un miliardo di lire, appena 60 milioni di reddito netto, tu sarai, come imprenditore, salvo dal tributo speciale che io, farneticando, ho inventato. Ma se tu sei capace di ottenere dallo stesso miliardo un frutto netto di 80 milioni, pagherai sull’eccedenza di 20 milioni oltre i 60, un’imposta di 2 milioni; se otterrai 90 milioni, pagherai il 10 per cento sui primi 20 milioni di eccedenza e il 20 per cento sugli ulteriori 10 milioni; e, così via via crescendo, quanto più utilizzerai bene i tuoi impianti, i tuoi lavoratori, la tua organizzazione commerciale, tanto più gravemente sarai tassato.

 

 

Non si viola, con metodi dettati dall’odio sciocco contro il successo, soltanto la legge cosmica universale del minimo mezzo, si offendono i criteri comuni del buon senso; si premiano gli inetti e si multano i capaci, i valorosi, gli intraprendenti.

 

 

L’odio contro il variabile, contro le eccedenze, contro quel che si dilunga dal normale assume aspetti, che descriverli tutti sarebbe discorso troppo lungo. Importa guardare, al di là dei suoi connotati sentimentali demagogici, alla sostanza del contrasto fra i due tipi di reddito dei redditi certi e fissi (da obbligazioni, da titoli di debito pubblico, da crediti ipotecari, ecc. ecc.); e dei redditi incerti e variabili (da azioni, interessenze, quote mezzadrili, profitti industriali e commerciali, rendite di terre condotte in economia).

 

 

Il reddito fisso è un onere per l’impresa debitrice pubblica o privata. Se un’impresa ha un debito obbligazionario di 100 milioni al 6 per cento, ogni anno deve impostare in bilancio sei milioni per interessi e sarà gran mercé se riuscirà a contenere nel 3 per cento gli oneri addizionali per quote di ammortamento delle obbligazioni e delle spese iniziali di emissione e delle provvigioni agli assuntori e per rimborso delle imposte formalmente gravanti sugli obbligazionisti. Il saldo netto attivo del conto esercizio deve almeno giungere a nove milioni, prima che si possa dire di avere ottenuto un guadagno netto d’impresa. Vada bene o vada male l’annata, si venda o non si venda con margine, bisogna far saltar fuori i nove milioni; gli obbligazionisti devono essere pagati, il fisco non aspetta, le spese ed il capitale debito devono essere ammortizzati alle scadenze convenute.

 

 

Il profitto o dividendo o quota di partecipazione o quota residua del prodotto della terra condotta in economia non è invece un evento necessario. Se si guadagna, se i prezzi sono buoni, se essi lasciano un margine, se le imposte non divorano troppa parte del prodotto lordo, se tutti questi se ed altri ancora sono positivi, l’azionista, l’industriale, il commerciante, il proprietario coltivatore diretto ha un reddito. Il reddito è un residuo eventuale.

 

 

Il dividendo o profitto può talvolta acquistare l’apparenza di reddito fisso, se gli amministratori negli anni sfavorevoli, nei quali il saldo attivo del conto esercizio consentirebbe di distribuire solo il 5 od il 3 invece del solito 10 per cento o magari ordinerebbe di non distribuire nulla, preferiscono mantenere il dividendo al 10 per cento, prelevando la differenza dalle riserve accumulate in passato. Essi possono così decidere per ottime ragioni, come il desiderio di non rendere troppo notoria la vicenda meno favorevole dell’annata, il legittimo interesse di serbare intatto il credito della società o la giusta preoccupazione di non scemare il reddito di azionisti, abituati a far calcolo su quel dividendo quasi consuetudinario. Gli amministratori, così operando, compiono azione corretta, poiché, se in passato prudentemente non hanno distribuito, a titolo di dividendo, tutto il saldo conseguito negli anni buoni, appunto allo scopo di disporne, negli anni cattivi, per uguagliare nel tempo i dividendi distribuiti agli azionisti e mantenere intatta la reputazione dell’impresa, essi operano saggiamente e non violano alcuna norma morale o giuridica.

 

 

Che se, invece, essi distribuiscono dividendi che non furono conseguiti né oggi né ieri, essi conducono alla rovina la società e meritano di essere colpiti con le sanzioni che i codici prevedono in questi casi di mala condotta.

 

 

Tutte due le specie di reddito, sia quello fisso come quello variabile, sono legittime. Chi ama la certezza, chi vuol dormire sonni tranquilli, chi ama riscuotere ad ogni anno o ad ogni sei mesi la sua brava somma fissa, acquista obbligazioni, affitta il fondo, incarica il debitore di versare a sue spese l’imposta di ricchezza mobile allo stato ed, alle convenute scadenze, incassa le cedole degli interessi maturati, le rate dei fitti di case e di terreni e non si preoccupa del modo come sono andate le cose dell’impresa, delle cui sorti, buone o cattive, egli si è contrattualmente disinteressato.

 

 

Chi invece non teme il rischio e sa che chi non risica non rosica, chi ha l’ambizione di far qualcosa, chi si sente di condurre un’impresa a prosperità, chi ama il successo, a costo di qualche ansia e di notti rese bianche dal pensiero di una cambiale in scadenza che non si sa se la banca vorrà rinnovare, con o senza decurtazione, costui si rassegna al rischio di annate, nelle quali il conto profitti e perdite non lascia margine a distribuzioni di dividendo agli azionisti e di quote di reddito ai comproprietari o consoci, perché spera che, se il successo arride, se le annate delle vacche magre lasceranno il posto a quelle delle vacche grasse, il suo beneficio non si limiterà al 4 od al 6 od al 9 per cento del capitale investito, ma forse toccherà mete più alte, del 20 e del 50 per cento.

 

 

In quel giorno, gli uomini della certezza, della tranquillità, dei tagli delle cedolette a date fisse saltano fuori e, aiutati dal coro degli sfaccendati, gridano all’usura, alla speculazione, al guadagno immeritato e spropositato. A noi un misero 6 per cento ed agli sfruttatori del nostro capitale, a coloro, che senza il nostro risparmio sarebbero tuttora piccoli artigiani incerti se sul desco familiare la moglie appronterà minestra e pane, il 20, il 50 e più per cento di utili!

 

 

Ambe le categorie sono necessarie. Il risparmiatore contento dell’interesse fisso è utile all’imprenditore che può allargare così il giro dei suoi affari, ed a sua volta l’imprenditore dà al risparmiatore la garanzia di pagargli l’interesse convenuto e di rimborsargli il capitale mutuato, grazie al capitale suo proprio che egli ha investito in aggiunta, correndo il rischio di perdite e di mancati guadagni.

 

 

Il problema, empirico, è di non oltrepassare il punto critico: 100 milioni di obbligazioni sono sicuri se gli azionisti versano a loro volta 100 milioni, capaci di costituire un bastevole cuscinetto di copertura dei rischi per le obbligazioni. Il cuscinetto è vieppiù tranquillante se al di là dei 100 milioni di obbligazioni che bisogna ad ogni costo servire di interessi, di spese e di ammortamenti, il capitale di rischio giunge a 200 milioni di azioni. La perdita deve essere davvero grossa se a subirne i contraccolpi non bastano i 200 milioni e se, dopo avere saltato i dividendi su 200 milioni di capitale azionario, si sia in imbarazzo per riuscire a pagare l’interesse sui 100 milioni di obbligazioni.

 

 

Invece, se le obbligazioni sono di 200 milioni e le azioni toccano solo i 100, una mutazione non eccezionale nei prezzi e nei saldi di esercizio facilmente annulla non solo il margine utile per i dividendi delle azioni, ma mette in forse anche il servizio degli interessi fissi alle obbligazioni.

 

 

Il punto critico in ogni impresa sta nella giusta metà o più in qua o più in là fra il capitale garantito a reddito fisso ed il capitale di rischio a dividendo variabile? Nessuna regola è sicura; ma se un’opinione empirica ha valore, direi convenga dare al capitale-rischio un luogo maggiore che al capitale-assicurato; più grosso cioè al capitale proprio dell’impresa che a quello ottenuto a prestito da terzi (cambiali, debiti in conto corrente, obbligazioni, ecc.).

 

 

Sovratutto importa dar gran luogo al capitale-rischio al punto di vista del vantaggio generale o collettivo. Non è ancora abbastanza diffuso il convincimento che il mondo moderno sta subendo un processo inavvertito e progressivo di irrigidimento. Dirigismo, collettivismo, nazionalizzazione, burocratizzazione, ingrossamento delle imprese, proporzione crescente degli impiegati di ufficio in confronto agli operai addetti ai lavori di fabbrica, protezionismi, contingentamenti, pensioni di vecchiaia, assicurazioni contro gli infortuni, pieno impiego, prezzi minimi a favore di industrie (agricoltura) reputate, al punto di vista economico, sociale, politico e militare, particolarmente importanti, sono manifestazioni della tendenza degli uomini ad evitare rischi e incertezze; ad accollare alla collettività, oltre l’onere del provvedere alle malattie, alla vecchiaia, agli infortuni, all’educazione dei figli, anche quello di assicurare la vita alle attività economiche esistenti.

 

 

A queste tendenze degli uomini alla sicurezza, alla vita tranquilla, alla ripugnanza crescente verso il pensiero del futuro, alla fuga dalle campagne determinata non soltanto dal benefico desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita, ma anche dalla scarsa propensione ad affrontare le conseguenze della siccità e della pioggia, della neve invernale e delle calure estive, del gelo, dell’umido e del secco, della grandine e della bufera e dall’impazienza di aspettare oltre la fine settimana a toccare la mercede del lavoro compiuto, mercede che nelle campagne occorre attendere pazientemente per mesi e per anni; al desiderio umano della sicurezza si oppone la tendenza sempre più accentuata del meccanismo economico a mutare rapidamente, a trasformarsi nei suoi congegni e nei suoi procedimenti. In un mondo nel quale le invenzioni si succedono alle invenzioni, nel quale si parla di stabilimenti senza operai, dove le macchine lavorano da sé, sotto la sorveglianza di pochi tecnici, la tendenza degli uomini a chiedere sovratutto sicurezza e a sottrarsi al rischio appare uno dei massimi pericoli che minacciano l’umanità.

 

 

La tecnica e l’economia comandano di mutare; l’uomo vuole essere ancorato a qualcosa di fisso. Legislatori e governanti moltiplicano i legami, i vincoli perché anch’essi sono uomini e sentono il bisogno umano della certezza, della continuità, della perpetuità. In tal modo, vincolando ed irrigidendo, scema la elasticità del meccanismo economico, crescono i punti di rottura, aumentano le probabilità di crisi e di rivoluzioni. Se le giunture elastiche vengono meno; se le ossa si irrigidiscono, saldandosi insieme, come può l’uomo muoversi, mutare, adattarsi alle esigenze mutevoli delle nuove invenzioni le quali si incalzano senza tregua?

 

 

Condizione essenziale per conservare all’organismo economico un grado di elasticità corrispondente alle esigenze ed alle urgenze delle mutazioni richieste dall’inventività umana e dalla necessità di provvedere ai bisogni continuamente crescenti di una migliore vita umana, è la esistenza di un cuscinetto atto a sopportare ed attenuare gli urti ché nel delicatissimo meccanismo distributivo derivano dall’irrigidimento della più parte dei suoi congegni. Sono fissi i salari, le pensioni, gli interessi passivi, le imposte; tutte le remunerazioni dei partecipanti al prodotto tendono ad essere determinate in misura prestabilita da contratti collettivi e talvolta da leggi coattive non derogabili per volontà delle parti; le leghe dei lavoratori del braccio e della mente tendono a sottrarre salari e stipendi alle variazioni nell’ammontare, nella periodicità e nella durata che sono imposte dalla variazione dei prezzi. Dove è il cuscinetto, dove è il volano il quale ancora consente una certa elasticità al sistema? Che cosa rimane ancora di elastico, di adattabile alle variazioni del prodotto totale sociale, di un prodotto che è il risultato del moltiplico di due variabili, il prezzo unitario dei beni o dei servizi prodotti e il numero delle unità dei medesimi servizi, variabili alla loro volta determinate da infinite altre quantità in gran parte anch’esse variabili? Ben poco gli onorari dei servizi dei professionisti liberi, i guadagni degli esercenti arti e mestieri indipendenti ed il profitto degli imprenditori. La massa degli onorari va diminuendo a mano a mano che le professioni libere sono sostituite da organizzazioni pubbliche (casse mutue malattie, infortuni, patrocinio gratuito, lavori pubblici eseguiti a mezzo di geometri ingegneri ragionieri remunerati a stipendio), a mano a mano che le imprese ingrossano ed, invece di ricorrere all’opera di professionisti ed artigiani liberi, istituiscono uffici legali e tecnici proprii. Il profitto che è frutto misto di capitale e lavoro nelle imprese piccole e medie, si muta, diventando l’impresa più grossa, per la parte più vistosa, in reddito fisso di salari e stipendi pagati ad operai ed impiegati, di interessi versati ai provveditori di capitali sotto forma di obbligazioni e di mutui; e solo quel che resta (dividendi ad azionisti e profitto di singoli imprenditori) serba la natura di cuscinetto ammortizzatore dei colpi delle variazioni dei prezzi.

 

 

Il meccanismo produttore diventa sempre più complicato e grandioso e nel tempo stesso il cuscinetto, il volano regolatore acquista dimensioni proporzionatamente sempre più piccole. Il legislatore dal canto suo, intende coll’opera sua diuturna a modificare la distribuzione del prodotto totale sociale, a favore della quota fissa e a danno della quota variabile. Imposte, sussidi statali, assicurazioni obbligatorie sono tutte congegnate in modo da gravare di meno sui redditi fissi di salario e di investimento pubblico o semipubblico e di più sui redditi variabili, onorari di liberi professionisti, guadagni di artigiani e profitti di imprenditori. I sussidi statali che un tempo si dicevano di assistenza ospitaliera e di carità ed ora assorbono quote notabili del reddito totale sociale e sono diventati obbligatori (assicurazioni sociali) sono riservati quasi in tutto ai salariati percettori di redditi fissi; ed a gran stento, in qualche paese (Inghilterra) ma non nel nostro, i liberi professionisti ed esercenti arti e mestieri sono riusciti, assai limitatamente, a far riconoscere il proprio diritto a non essere tassati due volte: una volta sul reddito prodotto ed una seconda volta sul frutto del risparmio di parte del medesimo reddito; ma la parziale riduzione della sperequazione è compenso solo apparente ai sussidi che, in aggiunta alle minori imposte, si danno a coloro, i quali hanno il privilegio di vivere di salari e stipendi fissi.

 

 

Il processo di irrigidimento del meccanismo economico è forse inevitabile ed in massima è anche vantaggioso. Una società socialmente stabile deve tendere a dare sicurezza di vita alla grandissima maggioranza degli uomini, i quali non amano e non sono in grado di sopportare l’incertezza, non desiderano correre rischi e non saprebbero affrontarli. È non solo inevitabile, ma è vantaggioso che i servizi comuni resi dallo stato diventino sempre più numerosi e varii e ricchi: che la istruzione gratuita o quasi gratuita dalle prime scuole elementari si allarghi a quelle professionali e medie e giunga sino a quelle superiori ed universitarie; che gli enti pubblici forniscano alla collettività servizi, prima ignoti, di luoghi di ricreazione, bagni, parchi, giardini, teatri, concerti, ecc.; che le assicurazioni sociali tolgano agli uomini le preoccupazioni relative ad un minimo di vita normale. L’elenco non è chiuso ed è destinato ad allungarsi.

 

 

Ad una condizione: che non si raggiunga il punto critico. Importa conservare una certa proporzione, di cui l’ottima può essere determinata solo da un’esperienza sempre rinnovata, fra la quota fissa rigida del prodotto sociale totale e quella elastica variabile. Alla collettività importa sia serbata in vita, a condizione di parità con i componenti la maggioranza, la minoranza di uomini disposti a vivere incertamente, a correre rischi, a ricevere onorari invece di salari, profitti invece di interessi.

 

 

Importa, perché non esiste una alternativa; gli uomini della minoranza sono necessari perché il meccanismo economico, sociale, morale, intellettuale di una società viva e progressiva è necessariamente soggetto a rischi; perché la vita medesima è mutamento, è variazione continua, è un succedersi di crisi, di alti e di bassi, di transizioni continue.

 

 

Sì; si può immaginare una società in cui nessuno corra rischi; in cui siano aboliti professionisti liberi, artigiani indipendenti, imprenditori in cerca di profitto. Abbiamo in tempi moderni conosciuta quella società, ed essa ha posseduto e possiede una ideologia. Gli uomini si sono chiamati Mussolini, Hitler, Stalin; l’ideologia ha assunto diversi nomi, ma tutti si riassumono in una formula: il tiranno conosce e, conoscendola, afferma la verità, la verità vera, quella verità a cui tutti devono rendere omaggio. Non v’ha dubbio. Il tiranno, a mezzo dei suoi funzionari può assicurare la vita a tutti, può abolire l’incertezza, può attenuare le variazioni del reddito, facendone gravare l’onere su tutti, eccetto sui suoi privilegiati; può sostituire ai professionisti liberi, agli artigiani e lavoratori indipendenti, agli imprenditori in cerca di profitto, i suoi servitori, i suoi letterati, i suoi scienziati, i suoi dirigenti nella banca, nell’industria, nell’agricoltura, può renderseli affezionati assegnando ad essi quote elevate del prodotto sociale totale; ma la sua non può non essere se non una tirannia, livida e lurida tirannia, destinata alla lunga alla morte del pensiero ed alla rovina della società intera.

 

 

L’alternativa è chiara. Gli onorari liberamente pattuiti e pagati in compenso di un servizio eventualmente reso dal professionista, i guadagni incerti degli artigiani e dei commercianti, ed i profitti aleatori degli imprenditori debbono continuare ad esistere, se il sistema economico voglia serbarsi elastico, atto a subire l’urto delle variazioni continue della tecnica, delle invenzioni industriali; se si vuole che la società umana muti e cresca. Il profitto è il prezzo che si deve pagare perché il pensiero possa liberamente avanzare alla conquista della verità, perché gli innovatori mettano alla prova le loro scoperte, perché gli uomini intraprendenti possano continuamente rompere la frontiera del noto, del già sperimentato, e muovere verso l’ignoto, verso il mondo ancora aperto all’avanzamento materiale e morale dell’umanità.

 

 

Il profitto può essere abolito; è possibile abolire le crisi e le variazioni economiche; ma dobbiamo incaricare qualcuno di compiere il lavoro che oggi è ancora in gran parte ufficio dei professionisti e degli artisti liberi, degli artigiani indipendenti, degli imprenditori liberi. Al ceto mobile e vario degli imprenditori noi possiamo sostituire l’esercito dei funzionari dirigenti, dei regolatori del piano, degli ordinatori di quel che si deve produrre e consumare. Facciamolo; ma ricordiamo che, così deliberando, d’un tratto per atto di volontà rivoluzionaria, o per lento pigro consenso dato a predicazioni che si dicono avanzate e coraggiose e sono brutta e frusta eredità del passato, noi avremo creato un regime tirannico; e ricordiamo anche che in nessuna epoca storica, è esistita una tirannia tanto piena e tanto perfetta come quella alla quale, volontariamente o inavvertitamente ci stiamo avviando. Nemmeno nella Roma post diocleziana, l’irrigidimento della società economica giunse al punto, al quale, sorpassando con leggerezza indicibile il punto critico, la avviano i dirigenti, i municipalizzatori, i nazionalizzatori, gli statizzatori, i socializzatori d’oggi. Eppure, l’irrigidimento imperfetto della società romana della decadenza fu una delle cause della rovina dello stato. I barbari germanici non durarono fatica ad abbattere il colosso. Sembrava ancora vivo; ma le sue membra, regolate e legate e vincolate dallo stato onnipotente ed onnipresente, più non erano in grado di combattere.

 

 



[1] In verità, se sono interesse le 5 lire pagate ogni anno al portatore di un titolo di debito pubblico del capitale di 100 lire e queste 5 lire sono una quantità numerica determinata, la parola «interesse» si usa meglio nel senso di «saggio di interesse» e questa non è una quantità, ma un «rapporto» tra reddito e capitale, un legame tra il presente e il futuro. Ad evitare equivoci fra le due accezioni della parola, preferisco usare la terminologia «reddito fisso».

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