Scuola e libertà
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1956
Prediche inutili, Torino, Einaudi, 1956, pp. 13-58
Non è mio proposito discutere né l’ordinamento scolastico proprio di un determinato sistema legislativo; né l’interpretazione delle norme stabilite nelle costituzioni e nelle leggi vigenti in questo o quello stato. Intendo invece indagare quale ordinamento rispetti meglio il principio della libertà.
Il principio di libertà non coincide con i principî accolti tradizionalmente dai gruppi o partiti che sono definiti in un dato paese come liberali; e, a cagion d’esempio, non coincide necessariamente con i principi che nel tempo del risorgimento diventarono norma giuridica nella legge Casati ed in quelle che su di essa, in prosieguo di tempo, si innestarono. Nella lotta, che durante il risorgimento ed il post-risorgimento si combatté dallo stato contro la chiesa, dal regno unitario contro i fautori degli antichi regimi, parve e forse era informata al principio di libertà la legge Casati e quelle che poi la seguitarono e variamente la attuarono.
Una discussione la quale assumesse a punto di partenza l’ordinamento che dal 1860 al 1922 era stato elaborato con fatica meritoria ed era comunemente reputato liberale, potrebbe essere feconda; ma non è quella che qui si vuole compiere. Volendo fare astrazione dai connotati che a poco a poco furono accolti nella legislazione scolastica italiana nel tempo detto liberale, non dò del principio di libertà alcuna definizione, che sarebbe, come accade di ogni definizione, assai pericolosa. Quel che sia, nella soggetta materia, il principio di libertà, dovrà risultare dal contesto medesimo della discussione.
A limitare il campo di questa, giova anche dir subito che essa non toccherà dell’insegnamento nelle scuole elementari, sì di quello nelle scuole medie ed universitarie. Se anche opinabile, la esclusione si spiega per due ordini di considerazioni. In primo luogo il costo della istruzione elementare, divenuta in ogni paese civile gratuita, universale ed obbligatoria, ha fatto sì che soltanto lo stato, intendendo per “stato” ogni maniera di ente pubblico territoriale od istituzionale fornito del potere di imposta, può assumersi l’onere di farvi fronte. Di fatto, senza contrasti notabili, è riconosciuta allo stato la prerogativa di fornire l’istruzione elementare. La gratuità dell’insegnamento elementare ha costretto la scuola privata a vivere al margine di quella statale. Essendo l’istruzione elementare gratuita, la scuola privata vive se soddisfi a particolari esigenze familiari, alle quali lo stato appaia disadatto. Del resto – ed è questa la seconda considerazione – né lo stato oppone in Italia obbiezioni grosse alla concorrenza privata, detta tra noi scuola materna, né la scuola privata troppo si lamenta del privilegio oneroso dello stato, anche perché l’insegnamento elementare offre scarso campo alle battaglie di idee che sono vive nelle scuole medie ed universitarie. Sebbene, anche nelle scuole elementari, si tenda ad allargare il campo dell’insegnamento ed alle antiche materie del leggere e scrivere e del far le quattro operazioni si siano aggiunti il disegno, il canto, la ginnastica e più in là, alcune nozioni di storia, di geografia, di diritti e doveri e simiglianti, trattasi pur sempre di nozioni elementari, che non mutano in misura notabile, solo perché si frequenti la scuola privata invece di quella pubblica. Le ragioni del preferire l’una all’altra non muovono, salvo in alcune contrade, ad esempio della Francia o del Belgio, dove sono vive le lotte religiose, da contrasti ideali, ma da circostanze pratiche: la vicinanza alla casa, la assistenza post-scolastica, il numero ristretto degli scolari in ogni classe, le amicizie o relazioni tra le famiglie degli scolari e simiglianti.
Il contrasto tra la scuola statale e quella privata nasce alla fine delle scuole elementari, che in Italia sono, per ora, quelle di cui la frequenza è obbligatoria. A questo punto le vie partono e si possono distinguere due tipi distinti sì, ma non tanto che si possa affermare che in alcun paese civile si attui perfettamente il monopolio statale ovvero esista piena libertà di insegnamento e di concorrenza da parte di istituti pubblici e privati. Si può affermare solo che l’un tipo informa in modo prevalente l’ordinamento scolastico in un gruppo di stati, laddove il secondo tipo prevale in un altro gruppo di stati. I due ordinamenti possono essere provvisoriamente denominati franco-italiano ed anglosassone, senza che si voglia con ciò riferirsi ai concreti ordinamenti esistenti di fatto nei due gruppi di paesi. Il riferimento sarebbe improprio, perché l’ordinamento italiano odierno non è lo stesso di quello francese; né si può affermare che esistano “ordinamenti” nei varii paesi anglosassoni, simiglianti a quelli che si possono costruire per deduzione dalle leggi vigenti nei due paesi latini. La denominazione ha soltanto per iscopo di riassumere sinteticamente alcuni essenziali connotati dei due sistemi, scelti non perché ognuno di essi sia in se stesso univoco, ma soltanto perché le caratteristiche le quali distinguono l’un tipo dall’altro, sono più notabili delle particolari variazioni che dentro ognuno di essi si riscontrano.
Tra i due ordinamenti assunti come tipici, sono osservabili altri sistemi scolastici: quello svizzero, nel quale la varietà è data dalla esistenza dei cantoni, gelosi della loro autonomia scolastica, sicché la confederazione non ha osato sinora andar oltre alla istituzione del Politecnico di Zurigo, università e scuole medie essendo riservate ai cantoni ed ai comuni; o quello germanico, dove la persistenza di recenti tradizioni di stati sovrani è cagione di spiccate originalità locali. Le recenti esperienze nei paesi comunisti sono ancora troppo scarsamente conosciute perché si possa andare al di là di una generica affermazione di rassomiglianza, con tratti più decisi, al tipo franco-italiano. Il quale, per brevità e per doveroso riconoscimento di paternità, meglio si dovrebbe dire napoleonico; ché la nascita del nostro ordinamento bene si può fare risalire a Napoleone, anche se in questo come in tanti altri campi, egli abbia sovratutto dato ordine sistematico ai principi legislativi che già l’antica monarchia aveva a poco a poco affermato e la rivoluzione aveva logicamente perfezionato.
Quale la logica dell’ordinamento napoleonico? Allo stato spetta il diritto e il dovere di provvedere all’insegnamento. Spetta ad esso e ad esso soltanto perché lo stato è il rappresentante della volontà generale. «Il principio di tutta la sovranità, – sta scritto nell’articolo primo della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino premessa alla costituzione del 14 settembre 1791 – risiede essenzialmente nella nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare alcuna specie d’autorità la quale non emani espressamente dalla nazione». Soltanto lo stato, emanazione della volontà generale della nazione, può insegnare o delegare ad altri il compito dell’insegnamento. Soltanto lo stato può quindi istituire o riconoscere istituti di insegnamento. Ginnasi, licei, scuole medie in generale, università, istituti universitari, accademie sono creati o riconosciuti dallo stato. Soltanto un’autorità pubblica può garantire la bastevolezza e la imparzialità dell’insegnamento. Soltanto lo stato può assicurare, scegliendoli per pubblico concorso, insegnanti adatti a formare la mente ed il carattere dei giovani. Soltanto insegnanti capaci danno garanzia che i giovani siano, dopo esame rigoroso ed imparziale, promossi meritamente dall’uno all’altro grado di scuola; ed infine licenziati con dichiarazione di conseguita maturità. Soltanto lo stato può dare ai diplomi ed alle lauree concesse dagli stabilimenti di istruzione pubblica valore legale, sicché solo ai diplomati e laureati si riconosca la facoltà di esercitare arti o professioni o coprire uffici pubblici. Discende dalle premesse ora poste il diritto e il dovere dello stato di determinare i programmi di insegnamento nei diversi ordini della scuola media acciocché sia certo che il giovane licenziato da una di esse possegga le nozioni proprie di essa, qualunque sia l’istituto il quale abbia rilasciato il diploma. Non può, ad esempio, la maturità liceale avere un significato diverso da provincia a provincia, da liceo a liceo. Uguale il programma, identici i criteri per la valutazione del profitto, uguali le prove, scritte ed orali, alle quali i giovani sono sottoposti per il conseguimento del diploma. Se questo deve dare diritto alla iscrizione alle scuole di ordine superiore, secondario od universitario; se i diplomi di licenza, maturità e laurea debbono dare uguali diritti di ammissione ai pubblici concorsi, uguale deve essere il tirocinio fornito, uguali le prove subite, uguale la materia di ogni disciplina, sulle quali la prova è stata superata.
Grazie agli scopi prevalenti nell’indagine scientifica ed alla maggiore maturità mentale dei giovani, i programmi di studio possono avere nelle scuole universitarie un contenuto più sobrio di quello delle scuole medie. Laddove qui si esige che i programmi di insegnamento nelle diverse discipline, dalla lingua e letteratura italiana al latino, al greco, alla matematica e a tutte le altre giudicate utili o necessarie alla formazione del giovane, siano uniformi per tutto lo stato ed acconciamente graduati da uno scalino all’altro del tirocinio scolastico, cosicché il giovane possa spostarsi da una scuola ad un’altra, dalla scuola di una città alla scuola di un’altra città senza essere posto in condizione deteriore o privilegiata rispetto ai suoi compagni di studio; nell’ordine universitario si impone libertà più ampia. La scuola universitaria forma lo studioso, ma nel tempo stesso ricrea e perfeziona la scienza. L’apprendimento dei principi noti non può scindersi dalla ricerca e dalla scoperta di nuove verità. Quindi i programmi si riducono all’enunciazione del titolo della disciplina: diritto romano, diritto civile, economia politica, fisiologia umana, clinica medica ecc. All’insegnante spetta l’ufficio di dar contenuto al titolo della disciplina, contenuto variabile a seconda delle sue attitudini scientifiche e didattiche. Ma lo stato deve stabilire un elenco di discipline, alcune delle quali obbligatorie ed altre facoltative, sino ad un numero minimo su cui si debbono subire esami singoli, prima della prova finale per il diploma di laurea. Come può immaginarsi altrimenti che lo stato certifichi solennemente che il giovane meritò di essere proclamato dottore in giurisprudenza quando gli studi compiuti e gli esami lodevolmente superati certificassero che egli studiò soltanto scienze economiche e statistiche? L’esigenza del valore legale attribuito ai diplomi impone che il giovane superi un minimo di prove atte a dimostrare che egli possiede quella preparazione della quale il diploma rende testimonianza. Perciò nell’ordinamento scolastico di tipo napoleonico, lo stato impone, per ogni specie di diploma, la qualità ed il numero delle discipline ed altresì affida alle autorità universitarie il compito di stabilire l’ordine delle discipline nei successivi anni di corso. In parte l’ordine degli studi è facoltativo, cosicché lo studente ha facoltà di variarlo a seconda delle sue attitudini mentali e delle sue preferenze, anticipando o posticipando taluna disciplina da un anno all’altro o concentrandola, ad esempio, nei primi anni per avere maggior tempo disponibile da ultimo per la preparazione della dissertazione di laurea. Alla facoltà di variazione dell’ordine degli studi consigliato dalle facoltà sono posti due limiti, l’uno di convenienza e l’altro di obbligo. Se lo studente, in primo luogo, desidera ottenere esenzioni o riduzioni di tasse, egli non solo deve conseguire una media minima di voti negli esami speciali, ma deve conseguirla nelle discipline consigliate dalla facoltà. È obbligatoria invece la iscrizione alle discipline preparatorie (istituzioni di diritto civile) in confronto a quelle fondamentali (diritto civile). Il che è logico, non potendosi ammettere che l’ordine degli studi sia variato in modo disordinato, per motivi contingenti e forse non confessabili, come la relativa indulgenza degli insegnanti.
Programmi e ordini di studio non sono immutabili. Mutano le esigenze degli studi; nascono nuove discipline; varia l’importanza relativa di esse; e perciò fa d’uopo che mutino programmi e consigli. Non vi ripugna il tipo napoleonico; e soltanto richiede che la mutazione sia sanzionata dallo stato. Non dall’autorità politica (ministro); ma dal ministro, sentito il parere di Consigli superiori o di consigli di facoltà, i quali riconoscano la necessità od opportunità di far luogo all’insegnamento di nuove discipline e, forse, alla soppressione di insegnamenti ritenuti superati. La variazione non può attuarsi capricciosamente per deliberazione del rettore o del preside, sia pure confortato dal parere del consiglio di facoltà o della scuola; facendo a ciò ostacolo la uniformità imposta dal valore legale dei diplomi rilasciati colla sanzione dello stato. La uniformità non vieta le diversità consigliate dalla particolare natura del luogo nel quale la scuola adempie al suo ufficio; sicché si possano istituire scuole agricole, industriali, commerciali, artistiche adatte al genio particolare delle regioni e località diverse; e non tutte le scuole agricole siano uguali, ma le une specializzate per la viticultura e l’enologia e le altre forestali, o risicole o agrumiere e così dicasi per l’industria. Ma sempre ogni tipo di scuola deve ottemperare nel suo ordinamento a regole fissate dalla pubblica autorità, sicché il diploma o la licenza meritino il valore legale loro proprio.
Né l’ordinamento napoleonico esclude la concorrenza della scuola privata. Licei, ginnasi, istituti tecnici ed industriali, università possono essere istituiti per iniziative di privati o di associazioni od enti non statali. Ed ai diplomi conseguiti negli istituti privati può essere attribuito valore legale uguale in tutto a quello proprio dei diplomi rilasciati dagli stabilimenti statali. La parità di trattamento suppone tuttavia alcune ovvie condizioni. Deve in primo luogo l’istituto privato ricevere una consacrazione od autorizzazione, la quale assicuri che l’istituto è in grado, per sua attrezzatura edilizia, la adeguata suppellettile scolastica, il possesso di biblioteche e di mezzi finanziari, di adempiere agli scopi suoi; esigenza non peculiare agli istituti di educazione ed istruzione, ma generale per tutti gli enti morali forniti di una qualche specie di personalità giuridica. Devono in secondo luogo i presidi o direttori od insegnanti negli istituti privati essere provveduti di titoli di insegnamento uguali a quelli richiesti per i concorsi alle cattedre statali; cosicché l’autorità pubblica sia persuasa della idoneità morale e scientifica di coloro che sono preposti all’ufficio di insegnanti. Ed infine, il diploma richiesto per il passaggio da un grado all’altro della carriera scolastica – per la conclusione di un dato corso di studi – può essere conseguito solo in seguito ad un esame detto «di stato», sostenuto dai privatisti con parità di trattamento rispetto ai giovani i quali hanno frequentato gli istituti pubblici. Se tutti i candidati, provengano essi dalle scuole pubbliche o da quelle private, sono chiamati medesimamente a presentarsi per il conseguimento del diploma sia medio sia universitario, sia umanistico o scientifico o tecnico o professionale ad una commissione imparziale composta di esaminatori, almeno in maggioranza, diversi da quelli che insegnarono al giovane, piena appare la validità legale del diploma ottenuto dagli studenti usciti da ogni categoria, pubblica o privata, di scuole. Dissensi e controversie sono possibili e nacquero e persistono sui metodi opportuni a garantire la imparzialità degli esaminatori negli esami di stato; ma son dissensi di applicazione non di principio.
È perfetto in se stesso il sistema di tipo napoleonico? Non era e non è perfetto nei luoghi e nei tempi nei quali la scelta dei direttori, presidi ed insegnanti pubblici e privati fosse o sia fatta ad arbitrio del ministro o di altri ufficiali statali negli stabilimenti pubblici o dei fondatori o proprietari o amministratori degli istituti privati. Non basta ordinare che gli insegnanti debbano essere forniti di adeguati titoli di insegnamento e scelti in seguito a pubblico concorso. Se le commissioni esaminatrici sono composte di uomini scelti dal ministro, o dal preside della provincia o dal sindaco o dal consiglio comunale o dagli amministratori degli istituti privati, non esiste garanzia veruna di buona scelta e di indipendenza dal potere politico. La garanzia non esisteva quando Napoleone, genio amministrativo volto all’organizzazione di uno stato accentrato ed ubbidiente alla sua volontà, creò l’università di Francia, stupenda creazione la quale sotto un solo comando riuniva tutti gli ordini di scuole, da quelle elementari alle universitarie. Uno il credo, uno il programma, uno l’esercito insegnante, dall’istitutore della scuola primaria all’universitario della Sorbona, al quale era affidato l’ufficio della formazione del cittadino consapevole dei suoi doveri verso lo stato e verso chi lo incarnava. Garanzie di libertà di insegnamento e di indipendenza degli insegnanti non esistono neppure oggi, nei paesi detti totalitari, nei quali domina la volontà del “principe”. L’arbitrio nella scelta dei membri dell’esercito insegnante non è necessariamente insito nel sistema. A poco a poco, nel secolo e mezzo trascorso dalla sua creazione, attraverso alti e bassi, cadute e riprese, lotte e rassegnazioni, all’arbitrio del principe è stata sostituita l’autonomia della scuola. Il ministro, per riassumere in lui la persona responsabile delle scelte, non sceglie, ma registra e fa propria la scelta compiuta da esaminatori, non da lui delegati, ma eletti a norma di criteri e di procedure fissate dalla legge. Dapprima la consuetudine, la resistenza alle scelte arbitrarie, le critiche della libera stampa, e poi il regolamento ed infine la legge hanno tolto al potere politico ogni arbitrio ed hanno posto norme atte a garantire scelte imparziali. Come in ogni umana istituzione, all’ideale non sempre risponde la realtà; si commettono errori ed abusi. Ma errori ed abusi sono, in paese libero, condannati apertamente ed a poco a poco si riducono ad un minimo. Alla perfezione piena non si giunge, per la fallibilità della natura umana. Se agli insegnanti chiamati è garantita la inamovibilità della cattedra e della residenza; se ad essi è assicurata libertà di insegnare secondo coscienza, all’infuori di ogni vincolo politico e religioso; se le mancanze dei docenti non sono punite ad arbitrio dei presidi o direttori o rettori, ma per decisioni di giudici indipendenti; se esiste diritto di ricorso alle massime magistrature, il sistema non soffre censura. Dal tipo ideale si rimane non di rado lontani. Chi ne dia giudizio, deve supporre che esso sia adeguato ai suoi fini. Non si condanna un sistema, elencandone gli inconvenienti; ché questi possono essere cancellati.
Il quadro del sistema sarebbe compiuto se, quasi al di fuori di esso od ai suoi margini, non fosse da tempo insorta e se da ultimo non fosse diventata vivissima una controversia rispetto alla uguaglianza di trattamento fra le scuole pubbliche e quelle private. Il sistema suppone concorrenza fra le due specie di scuole; ché altrimenti esso non sarebbe volto all’utilità pubblica; ma all’incremento monopolistico dello stato e cioè dei gruppi politici e sociali, i quali sono in un dato momento e luogo signori dello stato. Senza concorrenza o possibilità di concorrenza fra istituti statali ed istituti privati, non v’ha sicurezza che l’insegnamento sia l’ottimo. Importa esistano rivalità, emulazione, concorrenza perché perizia, ingegno, carattere siano stimolati al bene. Il monopolio, anche dello stato, è sinonimo di stasi, di pigrizia mentale, di prepotere.
Come è possibile, tuttavia, vera emulazione, osservano a questo punto i patroni della scuola privata, se tanto disuguali sono i punti di partenza e tanto ingiusto il trattamento fatto ai due ordini di scuola? Da un lato la scuola pubblica, mantenuta con il danaro di tutti, con le imposte pagate da tutti i cittadini secondo le norme di giustizia accolte nel paese. Gli studenti iscritti alle scuole pubbliche, assolvono bensì alcune tasse scolastiche; ma queste coprono la minore e talvolta la di gran lunga minor parte del costo dell’istruzione ricevuta; che il grosso del costo cade sul cittadino contribuente. La scuola privata, al contrario, non gode di nessun contributo di imposte e deve provvedere da sé all’intiero costo dell’insegnamento. Se si suppone, a cagion di esemplificazione grossolana, probabilmente inferiore al vero, che la scuola pubblica provveda, per ogni 100 lire di costo, con 70 lire di contributo statale tratto dalle imposte e con 30 lire pagate dagli studenti, la scuola privata dovrà coprire tutte le 100 lire con i contributi degli iscritti. I genitori degli studenti frequentatori degli istituti privati non solo debbono pagare 100 invece di 30; ma, essendo cittadini contribuenti anch’essi, hanno dovuto inoltre partecipare al pagamento delle 70 lire che lo stato destina al sovvenimento delle scuole pubbliche. Doppia e flagrante ingiustizia; ché i frequentatori delle scuole private non solo assolvono 100 invece di 30; ma in aggiunta sono gravati da parte delle 70 lire volte a beneficio altrui.
Né vale osservare che nessuno è obbligato a mandare i figli nelle scuole private; ché ciò vale asserire che i genitori, che non vogliono o non possono assoggettarsi ad oneri diversi e maggiori di quelli gravanti sugli iscritti alle scuole pubbliche, sono forzati ad iscrivere i figli in queste con violenza recata alla loro volontà ed al loro diritto di scelta; e sovratutto con il risultato di creare, di fatto, il monopolio statale della istruzione, con danno palese per la cosa pubblica, non dissimile dal danno recato da ogni altra specie di monopolio. Né vale affermare essere impropria la taccia di monopolio, laddove trattasi invece di nazionalizzazione della istruzione, simile, concettualmente, alla nazionalizzazione delle ferrovie o dei telegrafi o di ogni altra specie di industria per la quale si giudichi la avocazione allo stato necessaria o vantaggiosa per ragion pubblica; e la prima e più valida motivazione è appunto la necessità di sottrarre quella industria al monopolio privato. Ma oggi si è diventati ognora più scettici sulla validità del motivo; e fra le cause le quali hanno scemata la popolarità delle nazionalizzazioni, nei paesi nei quali si trae frutto dalla esperienza, sebbene non in quelli nei quali gli insuccessi crescono gli appetiti di coloro che degli insuccessi si giovano per crescere di numero edi potere, vi è appunto la inutilità e forse il danno di sostituire al monopolio privato il monopolio pubblico. Il quale è dannosissimo fra tutti, essendo un passo, e non piccolo, verso il tipo di stato tirannico o totalitario. Il pericolo dei monopoli pubblici è divenuto oggi, per la tendenza, detta fatale, degli stati moderni ad ampliare i proprii compiti, forse il problema dominante del nostro momento storico. Che se, per la produzione di beni materiali, come il carbone, il gas, l’elettricità, possono essere studiati avvedimenti di prudenza per far sì che il pericolo sia meno grave per i monopoli pubblici che per i privati, non così per la produzione dei beni spirituali. Lo stato tirannico o totalitario può anche rassegnarsi a limitare le usurpazioni a danno della libertà degli adulti pur di garantirsi il monopolio della educazione e quindi il dominio spirituale delle nuove generazioni.
Se la esigenza della parità di trattamento fra scuole pubbliche e scuole private è fondamentale alla salvazione del principio di libertà; e se il privilegio del sopperimento a carico delle imposte della maggior parte del costo del servizio della istruzione è certamente una violazione di quella parità, non è agevole la soluzione del problema. L’imposta è invero il mezzo col quale lo stato copre le spese generali dell’istruzione: stipendi agli insegnanti, conservazione ed ampliamento degli edifizi scolastici, impianto e funzionamento dei laboratori sperimentali, degli ospedali, delle biblioteche. Le tasse scolastiche badano alla frangia, ai margini del servizio, non più. È possibile pensare che lo stato sopperisca con il provento delle imposte ai carichi delle scuole private? Poiché non è pensabile togliere al governo il diritto di proporre ed al parlamento quello di deliberare l’ammontare delle imposte ed il loro impiego, non è pensabile neppure coprire il grosso delle spese delle scuole private con un contributo pubblico; ché ciò equivarrebbe a trasformare le scuole private in pubbliche. Colui il quale paga le spese di un servizio ne è in effetto il signore. Il problema della parità di trattamento sarebbe risoluto con la negazione del problema; tutte le scuole essendo pubbliche, verrebbe meno la ragione del contendere. Anzi, si farebbe luogo ad una specie nuova ed assai pericolosa di monopolio; il quale sarebbe esercitato in società da due consorti: il ministro dell’istruzione da un lato ed il capo od i capi degli istituti sedicenti privati, i quali fossero riusciti ad accaparrarsi il contributo statale. Esistendo un bilancio statale e quindi una spesa in determinato ammontare votata dal parlamento, e non potendo crescere la parte destinata alla cosidetta scuola privata senza diminuire quella destinata alla scuola pubblica, i capi della prima sarebbero costretti a premere sui governi – parlamenti per piegarli al loro desiderio di incremento di fondi; nuova causa, aggiunta alle tante altre già fiorenti di degenerazione degli istituti rappresentativi.
Come uscire dal dilemma posto dai due principi: della parità di trattamento e dell’impossibilità di alimentare col provento delle imposte la scuola privata, senza distruggere quella rivalità fra le varie scuole, che sta a fondamento del progresso scientifico e didattico? Il fervore della controversia su questo punto dibattuta in Francia, in Belgio, negli Stati Uniti dimostra la difficoltà della soluzione. Né pare probabile che ad una soluzione logica si giunga finché il dilemma rimanga quello che sopra fu chiarito; la parità di trattamento in un regime di libera scelta fra scuola pubblica e scuola privata essendo incompatibile con la destinazione del provento delle imposte anche alla scuola privata. Chi vuole la libertà dell’insegnamento non può volere l’assoggettamento della scuola privata al potere che solo ha il diritto di prelevare imposte.
L’analisi delle caratteristiche del tipo napoleonico reca ad una conclusione: il tipo attua un ideale, che è l’ideale dell’ordine, dell’euritmia, della uniformità. Unica la fonte: lo stato. Unico il valore degli studi quello voluto dai poteri pubblici secondo la norma costituzionale. Uno è il valore dei titoli rilasciati ai giovani alla chiusura di ogni corso di studi: quello dichiarato nella legge. Nessuno può adire ai concorsi ai pubblici impieghi se non sia munito del titolo di studio stabilito dalla legge; nessuno può esercitare professioni liberali se non possiede il diploma all’uopo reso necessario dal comando del legislatore; ed i titoli conseguiti fanno fede erga omnes della capacità del diplomato o laureato ad esercitare quegli uffici o professioni: e, ancora, chi possiede un diploma non può adire ad uffici od esercitare professioni per le quali la legge non abbia dichiarato valido quel titolo, né può usurpare uffici o professioni che la legge abbia dichiarato pertinenti ad altri diplomi. Tutto ciò è, sembra, chiaro, semplice, logico; connaturato all’indole dello stato di diritto, di uno stato bene ordinato, nel quale i cittadini siano chiamati a quei compiti ai quali essi sono da una autorità imparziale e competente dichiarati adatti. Il sistema appare tanto bello e bene congegnato, da persuadere il legislatore ad allargare ognora la cerchia degli uffici e delle professioni, le quali si possono esercitare soltanto dopoché una pubblica autorità scolastica abbia certificato che l’aspirante possiede le attitudini e la preparazione all’uopo richieste; e laddove un tempo i titoli dottorali erano ristretti a quelli di giurisprudenza, medicina, filosofia, lettere e scienze a poco a poco i dottorati si moltiplicarono ed accanto a quelli, come di ingegneria, legittimati dal tempo, altri di dottorato o semplicemente di diploma, nacquero: per gli agronomi, per i ragionieri, per i periti in scienze economiche e commerciali, per i geometri, per i periti industriali. Ed oggi si propone che anche gli artigiani abbiano titolo di maestro-artigiano o di artigiano diplomato, e che, al pari dell’artigiano, ed assai più stravagantemente, anche il commerciante, sia tale e possa esercitare commercio solo dopo aver compiuto taluno studio ed averne riportato certificato di idoneità. Né alla logica del sistema si può muovere appunto. In uno stato bene ordinato, nessuno può compiere opera alla quale non sia stato giudicato adatto; ed ogni uomo vivente deve essere giudicato atto ad un qualche ufficio.
L’ideale posto del tipo ora descritto non è tuttavia pacifico. La critica, ed è critica acerbissima, punta alla radice del sistema; dichiarando senz’altro essere mera superstizione, lugubre farsa il fondamento medesimo suo, che è il valore legale del titolo rilasciato dall’autorità pubblica al termine dei varii corsi di studio.
Accadde anche a me, nel tempo che fui preside di facoltà, di dovermi alzare alla fine degli esami di laurea e, in tocco e toga, pronunciare la formula solenne: «In nome di Vittorio Emanuele III ed in virtù dell’autorità che mi è conferita la dichiaro e proclamo dottore in giurisprudenza». Oggi, obliterato il richiamo al sovrano e non sostituito da quello al presidente della repubblica, la proclamazione solenne è compiuta in virtù dell’autorità di cui il preside od il rettore sono, per virtù di legge, provveduti. In verità ieri il sovrano ignorava del tutto persino l’esistenza del laureando ed il suo intervento era puramente simbolico; e ieri ed oggi l’autorità di cui sono insigniti il preside che proclama ed il rettore che sanziona con la sua firma l’attestazione scritta sul diploma era ed è del tutto estranea alle ragioni sostanziali per le quali la proclamazione dottorale si compie. La verità era ed è tutt’altra: la proclamazione dottorale è il frutto di talune opinioni che, nel decorso di quattro o cinque o sei anni, si sono formati taluni professori della preparazione scolastica di un giovane e di quella che alla fine del corso, tenuto conto dei voti nei quali è riassunta una ventina, o meno o più, di opinioni successive di quegli insegnanti, si è formato il relatore della dissertazione presentata dal candidato alla laurea. Per un certo numero di giovani l’opinione dei singoli esaminatori e del relatore alla laurea è una opinione seria; frutto di contatti avuti per anni col giovane, di consigli a letture proficue, di discussioni di seminario, di assistenza ai lavori di laboratorio e nelle sale da disegno. La dissertazione è stata scelta o consigliata dall’insegnante, seguita passo passo, criticata, rifatta e via via perfezionata. Il diploma conseguito accerta fatti veri e certamente conosciuti dagli insegnanti e dal relatore. In altri casi, gli insegnanti non conoscono o conoscono appena il giovane; che, nelle discipline sperimentali e nelle cliniche, solo gli assistenti sono in grado di valutare. Insegnanti e studenti si vedono e si parlano nel momento dell’esame, che è rapporto fuggevole e forse casuale. La dissertazione è stata compilata a casa, dopo la semplice accettazione del tema da parte del professore. I voti rendono testimonianza incerta; ed in alcuni casi, non troppo rari – se si pensa alla proporzione, divenuta negli ultimi anni stupenda, dei fuori corso, ottantamila su un totale di duecentomila studenti universitari – son frutto della noia di vedersi ricomparire dinanzi lo stesso giovane, ripetutamente rimandato ma bisognoso del diploma per motivi validi e spesso pietosi di famiglia o personali ed hanno significato di pietà.
La proporzione delle opinioni serie in confronto alle altre supera il dieci per cento? Forse è maggiore nelle facoltà dove la frequenza ai laboratori è obbligatoria; ma sarei stupito eccedesse quel numero nelle facoltà umanistiche. Nelle scuole medie, dato il numero strabocchevole di iscritti ad ogni classe, ed è tale quando esso supera la ventina – ma non di rado giunge ai quaranta e sminuisce troppo il frutto ricavato anche da insegnanti ottimi – la conoscenza personale, che c’è o dovrebbe esserci sempre, non ha, di gran lunga, quel peso che dovrebbe avere. Sterminati i programmi, troppe le discipline insegnate ed alternate ad ore; gli insegnanti affannati a correggere compiti, a leggere o far leggere testi antologici, non hanno tempo alla conoscenza intima dei giovani. Sia seria l’opinione dei largitori di titoli od approssimativa e persino fatta di noia e di pietà, sempre siamo di fronte all’opinione di questo o di quell’insegnante o, al più, di questa o quella commissione; molto al più, per la naturale propensione dei membri delle commissioni ad acconciarsi all’opinione dell’esaminatore in quella disciplina su cui verte l’esame o del relatore al quale era stato affidato l’esame della dissertazione. Il titolo di diploma o di licenza non ha altro contenuto se non quello dell’”opinione” ora detta; e non vi aggiunge nulla il riferimento a questo o quel sovrano o popolo o simbolo di autorità; tutte cose le quali intervengono soltanto per apporre un bollo ufficiale al documento. Solo una credenza superstiziosa vieta di scrivere sul titolo quel che soltanto è vero: che i tali e tali insegnanti, avendo seguito con gran cura o con sopportazione gli studi del tale e tale candidato, dichiarano che, secondo il loro giudizio, egli è meritevole di essere licenziato o diplomato o laureato. Soltanto in documenti annessi e non rammostrabili obbligatoriamente, aggiungono che il candidato è meritevole di somma lode, di lode, di pienezza o di sufficienza di voti o di un minimo sopportabile di infamia. Se questa è la verità vera, e certissima, che cosa resta del valore legale del titolo accertato da firme svariate, da bolli fregi e pergamene? Nulla, salvo i dannosi effetti della finzione. Il bollo statale non aggiunge nulla al valore della dichiarazione rilasciata da quella università o da quel liceo, o meglio dalla particolare commissione che ha deliberato il conferimento del diploma. Che la commissione sia detta di stato o non, la sostanza non muta: trattasi di un giudizio di taluni insegnanti, più o meno dotti, più o meno severi, necessariamente variabili nei loro giudizi da persona a persona, da tempo a tempo. Il bollo non muta nulla alla verità; essere il valore del diploma esclusivamente morale e non legale, nullo o scarso o sufficiente o notabilissimo a seconda della reputazione che i singoli stabilimenti di istruzione si sono procacciata. Nasce, di tempo in tempo, in talune facoltà universitarie, in taluni licei o scuole agrarie od altre una atmosfera di serietà, di rigore, di affiatamento fra giovani ed insegnanti; si forma una tradizione alla quale anche i mediocri si adattano; o, se insofferenti, se ne vanno altrove, in cerca di indulgenza o di rilassatezza. Dove la tradizione si è formata, i diplomi dicono la verità, sorge uno spirito di corpo fra i compagni di studio sicché essi si ritrovano e si aiutano e si spingono innanzi a vicenda nelle professioni, nelle arti, negli affari e nella politica. Come può nascere lo spirito di corpo, se gli istituti, in regime napoleonico, non possono scacciare le pecore nere; se i compagni quasi non si conoscono e non pochi di essi, assillati da altre urgenze, conoscono la faccia dell’insegnante solo quando si presentano all’esame?
Il valore legale del diploma ha, nel sistema napoleonico, taluni effetti e principalmente quello di esclusiva. Solo i diplomati in medicina o veterinaria sono medici o veterinari; solo i diplomati in otolaringoiatria hanno diritto di farsi dentisti; solo i diplomati di ingegneria di costruire ponti e case e via dicendo. Privilegio gravissimo; perché salvo due o tre casi interessanti la salute e la incolumità pubblica, non si vede perché, se così piace al cliente, il ragioniere non possa fare il mestiere del dottor commercialista, il geometra quello dell’agronomo ed il contadino attento e capace quello del diplomato in viticultura ed enologia. Il peggio è che l’esclusiva partorisce la legittima aspettativa. Il giovane diplomato al quale è stato dichiarato che, in virtù di legge, egli soltanto ed i suoi pari hanno diritto ad esercitare la professione libera dell’avvocato o procuratore od a partecipare ai concorsi banditi da questo o da quel ministero, ad essere scelti periti in determinate controversie giudiziarie, a ricevere incarichi temporanei di supplenze scolastiche, trasforma volentieri il diritto suo teorico di esclusiva in legittima aspettativa; ed aspettando, talvolta invano, finisce per entrare nella cerchia di coloro che sono definiti “disoccupati intellettuali”. Il giovane, al quale i bolli e le firme di personaggi autorevoli e forniti di autorità legale hanno fatto sperare di potere esercitare professioni o coprire pubblici impieghi, diventa moralmente disoccupato se non consegue quel successo professionale o non riesce ad entrare in quell’ufficio che dal possesso del diploma si riprometteva di conseguire. Poiché nulla dice che impieghi ed avviamenti professionali debbono essere ogni anno vacanti in numero uguale a quello degli aspiranti licenziati o diplomati, nasce la delusione. In verità il concetto medesimo della disoccupazione “intellettuale” è concetto assurdo, ove sia considerato distintamente da quello della disoccupazione in genere; la quale può, di tempo in tempo, variabilmente colpire molte o poche o parecchie branche dell’attività umana. La dottrina ha inventato parole nuove per indicare i diversi generi di disoccupazione; e, fra l’altre, quella di “strutturale” per indicare una disoccupazione che parrebbe più duratura di altre e dipenderebbe da non so quali vizi detti di struttura della organizzazione economica della società odierna. Qualunque siano questi vizi, parmi certo che il vizio situato alla radice della disoccupazione degli intellettuali in Italia sia la aspettativa dell’impiego pubblico o della professione remunerata privata fatta legittima dall’istituto del valore legale dei diplomi rilasciati da pubbliche autorità.
Se il diploma non fosse stato fornito degli amminicoli esteriori, in cui soltanto sta la sostanza del valore legale, forse non sarebbe nato il sentimento morale della disoccupazione; forse il diplomato non avrebbe avuto la sensazione di essere divenuto un minorato solo perché frattanto avesse seguitato ad attendere alle cose della terra o della bottega o del mestiere di suo padre o dei suoi. Forse non avrebbe pensato di decadere se, in attesa, avesse fatto il manovale od il meccanico. Il diploma l’avrebbe tirato fuori il giorno in cui taluno, vedendolo lavorare, si fosse interessato a lui ed ai suoi precedenti; e quel giorno il diploma avrebbe avuto un valore ben diverso e più alto di quello legale, fatto valere attraverso le solite lettere di raccomandazione di amici, parenti, personaggi autorevoli, deputati, senatori, ministri; lettere produttrici di altre lettere, di tempo sprecato e di lentezza amministrativa. Forse; perché quando in un paese da un secolo e mezzo è inoculato il veleno del “valore legale” è vano sperare che, se anche quel valore fosse negato, vengano meno, non aiutando il costume, i suoi effetti. Che sono di irrigidimento del meccanismo sociale, di formazione di un regime corporativo di caste l’una dell’altra invidiosa, ciascuna intenta ad impedire all’altra di lavorare diversamente da quel che è scritto nelle leggi e nei regolamenti; e tutte intente a cercare occupazione, salari, stipendi là dove non si possono ottenere e cioè nei vincoli posti alla libertà di agire degli uomini.
Il mito del “valore legale” del diploma scolastico è davvero insostituibile? Un qualunque mito è accettato se e finché nessun altro mito è reputato per consenso generale più vantaggioso. Il giorno in cui si riconobbe che il metodo del rompere la testa agli avversari politici era caduto in discredito – ma era durato a lungo, per secoli e per millenni – e si accettò la tesi del contare le teste invece di romperle; l’accettazione non si basò su un ragionamento. Si sarebbe dovuto supporre, per giustificare la razionalità del sistema, che tutte le teste fossero ugualmente atte alla scelta politica; laddove è noto che talune teste sono pensanti e le altre meramente ricettive del pensamento altrui; che le une sono fornite dell’attitudine a pensare, riflettere e giudicare, le altre sono del tutto impulsive; che alcune teste sono preparate e le altre del tutto digiune di qualsiasi voglia e capacità di preparazione alla scelta politica. Ma subito si dovette riflettere che la scelta fra certi tipi di teste e certe altre avrebbe dovuto essere fatta da giudici non solo sapienti ma imparziali ed incorruttibili; sicché, per la difficoltà di valutare le teste, e per il pericolo di ritorno al vecchio sistema di romperle per affidare la scelta politica alle più dure, si preferì, come al minor male, ricorrere al sistema di contarle. Che non è razionale ed è un mito, destinato a durare sinché non se ne inventi uno migliore. Da quel che pare durerà a lungo, anche perché ha operato tollerabilmente bene in tutti i paesi ed i tempi nei quali si e riusciti, con l’istruzione, l’educazione, l’esperienza e la discussione, a ridurre al minimo il rischio che i non pensanti piglino il sopravvento sui pensanti.
Il mito del valore legale dei diplomi statali non è, dicevasi, fortunatamente siffatto da dover essere accettato per mancanza di concorrenti. Basta fare appello alla verità, la quale dice che la fonte dell’idoneità scientifica, tecnica, teorica o pratica, umanistica, professionale non è il sovrano o il popolo o il rettore o il preside o una qualsiasi specie di autorità pubblica; non è la pergamena ufficiale dichiarativa del possesso del diploma. Ogni uomo ha diritto di insegnare e di affermare che il tale o tal altro suo scolaro ha profittato del suo insegnamento. Giudice della verità della dichiarazione è colui il quale intende giovarsi dei servizi di un altro uomo, sia questi fornito o non di dichiarazioni più o meno autorevoli di idoneità. Le persone o gli istituti i quali, rilasciando diplomi, fanno dichiarazioni in merito alla dottrina teorica od alla perizia pratica altrui godono di variabilissime reputazioni, hanno autorevolezze disformi l’uno dall’altro. Si va da chi ha aperto una scuola e si è acquistato reputazione di capace o valoroso insegnante in questo o quel ramo dello scibile; ed un tempo, innanzi al 1860, fiorivano, particolarmente in Napoli, codeste scuole private ad opera di uomini, che furono poi segnalati nelle arti, nelle lettere e nelle scienze. Che cosa altro erano le “botteghe” di pittori e scultori riconosciuti poi sommi, se non scuole private? V’era bisogno di un bollo statale per accreditare i giovani usciti dalla bottega di Giotto o di Michelangelo? Accadde si radunassero taluni venuti in fama di dotti e gli scolari accorressero ad apprendere dalle letture di essi i rudimenti del diritto o della medicina o della filosofia. Si insegnò e si apprese innanzi che, attratti dalla fama acquistata da lettori e scolari, intervenissero imperatori e papi e re a dichiarare l’esistenza di un corpo, detto Università degli studi, ed a conferire al corpo il diritto di rilasciar diplomi di baccelliere, di maestro o di dottore. Nei conventi degli ordini religiosi convennero uomini dediti alla meditazione ed insegnarono ai giovani chiamati da intima vocazione ad entrare nell’ordine; e i collegi di Oxford o di Cambridge risalgono spesso a questa origine ed i membri si dicono fellows o frati ed hanno a capo un warden o padre guardiano. Chi diede loro la facoltà di insegnare e giudicare? Il sovrano poi sanzionò il fatto già accaduto, la fama già riconosciuta; ma la fonte del diritto di insegnare e dichiarare non era il diploma imperiale o la bolla papale; era invece il riconoscimento pubblico spontaneo di un corpo di facoltà nato dal fatto, e affermato dalla gelosa tutela del buon nome del collegio insegnante. Il riconoscimento viene meno ed i diplomi perdono valore quando lo spirito di abnegazione dei monaci insegnanti si affievolisce; quando il crescere del reddito dei patrimoni dei corpi insegnanti rende appetibili le cattedre per motivi diversi da quelli scientifici e le cariche si danno a prebendari favoriti o simoniaci. Altre scuole, altri corpi, altri collegi sorgono contro i corpi ribassati o decadenti o corrotti. Ancor oggi, questo è il tipo dominante nei paesi anglosassoni. Non ordine, non gerarchia, non uniformità, non regolamentazione, non valore legale dichiarato dallo stato; ma disordine, varietà, mutabilità, alegalità dei diplomi variamente stilati che ogni sorta di scuole, collegi, università rilascia, per l’autorità che formalmente deriva bensì, e non sempre, da un diploma regio, da una carta di incorporazione; ma diplomi e carte non sono nulla di più e forse parecchio di meno dei decreti di riconoscimento di corpi morali, di associazioni filantropiche, di enti più o meno economici, di personalità giuridiche con contenuto variabile, i quali sono firmati ogni anno in Italia da ministri e da presidenti di repubblica e non hanno di fatto alcun ulteriore, come era la terminologia d’un tempo, tratto di conseguenza.
Una diversità tipica, sebbene non necessaria, vien fuori dal confronto delle parole diverse usate per fatti uguali nel nostro paese e in quelli anglosassoni; ed è la minor frequenza, qui, del titolo dottorale. La singolarità nasce dalla mania del titolo cresciuta oltremisura da noi; sicché ciascuno si riterrebbe disonorato se, dopo aver frequentato una scuola universitaria, non fosse almeno proclamato “dottore” in qualche cosa, e si videro uomini appartenenti a professioni illustri agitarsi per “conquistare” il diritto di aggiungere all’antico appellativo di ingegnere, che veramente li distingue e li illustra, l’altro di dottore, atto soltanto a creare confusione; e pure si videro i ragionieri, venuti con quell’insegna in giusta reputazione, non aver requie sinché a coloro che avevano proseguito negli studi non fosse concesso l’uso del titolo di dottore commercialista, quasi che la nuova denominazione non fosse meno propria di quella antica. La generalizzazione del titolo dottorale, altra conseguenza del mito del valore legale, reca non onore, ma discredito. Non forse nell’uso comune soltanto i medici son detti dottori? È credibile che vivano in un paese tanti uomini dotti quanti hanno diritto di chiamarsi, a decine od a centinaia di migliaia, dottori? Fu caratteristico, nel tempo di vacanza, in Italia, dei titoli cavallereschi, tra il venir meno degli insigniti della Corona d’Italia e il non ancor nato ordine al merito della Repubblica, il moltiplicarsi dei “dottori” nei ministeri romani. Non potendo più rivolgere la parola ai funzionari come a cavalieri e commendatori, tutti, nell’uso degli uscieri e dei postulanti, divennero “dottori”; facendo quasi scadere il valore dell’appellativo al grado di quello di “eccellenza”, usitato dai lustrascarpe e dai vetturini napoletani verso tutti i loro clienti. Nei paesi a tipo anglosassone dove il mito del valore legale non esiste e non esiste quindi neppure la spinta alla uniformità dei titoli, il grado dottorale è raro. Molti “baccellieri” in arti o in scienze; parecchi masters o mastri o maestri; pochissimi dottori in filosofia, che è il titolo più usato per i dottori, coll’aggiunta tra parentesi di certe iniziali indicative della disciplina speciale in cui si è conseguito il dottorato. Essendo le parole baccelliere e “maestro” impronunciabili nel parlare ordinario, nessuno ne fa uso e del pari, per imitazione, nessuno si rivolge all’interlocutore appellandolo dottore. I dottori, del resto, sono tanto pochi – negli Stati Uniti, mi fu autorevolmente detto, non più dell’uno per cento dei diplomati – che l’appellativo intrigherebbe per la sua rarità. Accadde a me, durante un viaggio universitario come invitato della fondazione Rockefeller nel 1926, fosse necessario fornirmi di biglietti di visita a scopo di evitare, nelle presentazioni, la necessità di pronunciare, secondo l’uso, le lettere componenti il mio cognome, per accidente, salvo due, tutte vocali, e perciò di non facile intendimento. L’incaricato rimase per un po’ in dubbio fra i titoli di professor, senator e doctor e poi scelse l’ultimo, a parer suo il più raro ed alto.
Il tentativo di costruire la figura giuridica dell’università o della scuola media anglosassone, così come è possibile delineare quella dell’università o del liceo o dell’istituto tecnico o di altra scuola media in Italia è dunque impresa vana. Procedendo per eliminazione, possiamo segnalare alcuni connotati negativi:
Non esistono la università e la scuola media statale o governativa nel senso franco-italiano o napoleonico. Non conosco alcuna università o scuola media di stato né in Inghilterra né negli Stati uniti, intendendo per scuola di stato quella i cui insegnanti sono nominati e fanno una certa carriera e sono pagati sul fondo generale del bilancio dello stato. In uno stato federale, come sono gli Stati Uniti, la parola corrispondente a quella nostra di “stato” si esprime, per distinguere l’”amministrazione” degli Stati Uniti da quella dei singoli stati federati, con circonlocuzioni come “nazionale” o “federale”. Parecchi “stati” americani – noi diremmo provincie – hanno creato università statali, le quali sono governate da “Consigli” (Boards of trustees) nominati in tutto o in parte dal governatore o dalle camere legislative dello stato. Il Consiglio dei fiduciari statali ha una certa influenza sulle nomine degli insegnanti e provvede al grosso delle spese. Per lo più le università sono dagli stati singoli istituite là dove l’iniziativa di altri enti o di privati non ha curato la fondazione di altri tipi di università, e cioè negli stati nuovi sorti o divenuti popolosi nella seconda metà del secolo scorso. Le università degli stati non godono nella gerarchia universitaria una posizione più alta di quella delle università private; anzi stanno per lo più al di sotto delle università-fondazioni, sia di quelle antiche, sia di alcune nuove. Per “gerarchia” non si vuole indicare alcuna graduatoria avente un qualsiasi carattere o sanzione ufficiale; sì bene una classificazione in virtù di una valutazione scientifica o morale, compiuta e modificata continuamente dall’opinione pubblica.
Gli enti territoriali minori: contee, città, borghi hanno creato e continuano, insieme con gli stati, a fondare scuole, sovratutto medie, e talvolta universitarie, per soddisfare ad esigenze antiche e nuove, crescenti col crescere della popolazione e col diffondersi della cultura. Nella città di New York, ad esempio, la città ha fondato e mantiene la New York University, che è una grande istituzione rivaleggiante per numero di insegnanti e di studenti, non per reputazione scientifica, colla più famosa e accreditata Columbia University, che è una istituzione privata. Ma nella città di New York esistono, oltre alla Columbia ed alla New York University, altre istituzioni universitarie: la cattolica Fordham University, la reputata Scuola superiore di Scienze sociali, la branca medica della Evanston University, che ha sede lontano centinaia di miglia. Parecchie delle nuove università inglesi, moltiplicatesi accanto alle due storiche di Oxford e di Cambridge, sono nate per iniziative cittadine.
Se le scuole medie (High Schools e Preparatory Schools) numerosissime, sembra più di venticinquemila negli Stati uniti, sono fondate e rette in amichevole rivalità, da stati, contee, città, borghi e privati, la maggiore e miglior parte delle università sono nate come “fondazioni”. Come, per eccezione, vi sono negli Stati uniti università fondate e mantenute dagli stati singoli, non mai dall’amministrazione (la parola “governo” non è usata) federale; così vi sono eccezioni di scuole medie che sono private; e sono le più famose ed importanti. Gli usi peculiari linguistici inglesi ordinano di chiamare public schools quelle che noi diremmo invece private. I celebri collegi, preparatori per chi vuole adire agli studi universitari, di Eton, Harrow, Winchester ecc. sono detti public nonostante siano fondazioni nelle quali né lo stato, né le contee, né i comuni hanno alcuna ingerenza; ed invece le scuole che noi chiameremmo “pubbliche” perché create e sostenute da enti territoriali pubblici non sono da nessuno catalogate tra le public schools. Singolarità di linguaggio, alla cui radice sta però l’assenza dell’idea che la scuola, per valer qualcosa, debba avere a che fare con lo stato. Per quel che tocca le università, la regola è che esse sono “fondazioni”. Le antiche debbono la loro nascita ad istituzioni religiose: ordini regolari o lasciti di ecclesiastici appartenenti all’una od all’altra delle varie sette religiose (denominations) venute fuori dalla riforma. Il carattere religioso a poco a poco si è obliterato di fatto; sebbene, come è consuetudine in quei paesi, sovratutto in Inghilterra e negli stati originari americani, succeduti alle tredici colonie inglesi, sia conservato nella forma. Tra i collegi di Oxford ha posizione eminente quello che si intitola Christ Church, che è un collegio universitario simile in tutto agli altri; ma alcuni degli insegnanti sono anche canonici della chiesa cattedrale di Oxford ed il Dean del Collegio, membro del clero anglicano, è il decano del capitolo della cattedrale; ma canonici e decano sono uomini scelti per meriti scientifici. Negli Stati Uniti, le più reputate università antiche e moderne, come Harvard, Yale, Columbia, Chicago, John Hopkins, Princeton, Cornell ed altre molte, sono fondazioni private. Alcune hanno ricevuto la loro “carta” dal Re d’Inghilterra, altre da qualche governatore di colonia, altre dallo stato locale, talune dalla contea o dal borgo d’origine; e non oserei escludere che qualcuna delle fiorenti università cattoliche (Fordham a New York, Washington nella capitale, la Catholic University nella California) abbia ricevuto la propria carta originaria dal Papa. Incorporate o riconosciute come enti morali, le università-fondazioni sono vissute di vita propria; hanno nominato i proprii insegnanti, li pagano sui proprii fondi, danno ad essi garanzie di durata nel tempo, a seconda del progresso della loro carriera, più breve per gli assistant professors, più lunga per gli associate professors, sino al limite di età per i full professors. Gli stipendi non sono uniformi e variano a seconda dei redditi della fondazione e dei sacrifici che il Consiglio che noi diremmo di amministrazione (Board of Trustees) è disposto a sopportare, pur di chiamare a sé, portandolo via ad una università concorrente, un insegnante famoso. Gli insegnanti che passano da una università ad un’altra, non di rado perdono i diritti di anzianità che godrebbero nella stessa università se vi rimanessero ancora; talché qua e là, senza regola fissa, si deve provvedere ad ovviare alle interruzioni di anzianità, con contratti assicurativi, che ora si esauriscono nella medesima università ed ora si estendono a quelle le quali partecipano ad un comune fondo di assicurazione.
La struttura variata delle scuole universitarie e medie pone il problema del loro numero diversamente dal modo tenuto nel tipo napoleonico. Nel quale, il numero degli istituti può crescere solo se il ministro del tesoro consente, data la situazione del bilancio dello stato, ad accogliere le richieste del ministro dell’istruzione; ed è più agevole consenta ad un aumento del numero delle sezioni in cui si dividono le classi di un liceo già esistente che alla creazione di un liceo nuovo; e, non volendosi aumentare né le sezioni né i licei, consenta all’incremento del numero degli iscritti alla medesima sezione di una data classe; ed, inversamente, accade siano serbati in vita licei e ginnasi e istituti industriali ed agricoli in cui il numero degli allievi è inferiore a quello degli insegnanti. Nascita e morte dipendono non di rado da ragioni e pressioni politiche, le quali sono lente a modificarsi. Nelle Università, la fondazione di nuovi enti è rara nel tipo napoleonico; meno difficile la moltiplicazione delle facoltà ed invece normale l’incremento del numero degli studenti iscritti, se non di quelli frequentanti; sino a giungere a numeri incompatibili, se tutti gli iscritti frequentassero, col buon ordine delle lezioni, col rispetto dovuto agli insegnanti e colla serietà e profitto delle esercitazioni di laboratorio e di seminario. Nel tipo anglosassone, il numero non è collegato colle esigenze del bilancio statale e quindi varia in ragione delle iniziative degli enti territoriali locali, dello spirito pubblico di enti economici o di privati benefattori. Come in Piemonte era uso che i notai, chiamati a rogare testamenti, interpellassero il testatore se egli non voleva ricordare, tra i legatari, il Cottolengo; così negli Stati della Nuova Inghilterra era uso che le persone facoltose ricordassero Harvard o Yale nelle loro disposizioni di ultima volontà; ed ancora adesso fonte notabilissima delle entrate universitarie sono le donazioni in vita ed in morte di uomini di finanza e di industria; e sono notissime le fondazioni Rockefeller, Carnegie, Ford ed altre, le quali hanno alla loro volta lo scopo di incoraggiare la ricerca scientifica e le iniziative universitarie. Accade perciò che il numero delle scuole di ogni fatta, dalle universitarie alle medie, non fissato da alcuna legge di bilancio, muti e cresca. Nella Inghilterra propriamente detta, all’infuori della Scozia e del Galles, le università erano tradizionalmente le due di Oxford e Cambridge; ma oggi sono assai più e quelle note nelle città più prospere vanno a gara nel rivaleggiare con le vecchie fondazioni. Negli Stati uniti il numero delle università e dei collegi universitari (quasi tutte le università-fondazioni sono sorte come collegi, dove si imparte in quattro anni solo l’istruzione sino al grado di baccelliere ed ha carattere umanistico o scientifico teorico; ma poi, se il successo arride, le branche di insegnamento si moltiplicano; ai corsi per i graduandi si aggiungono i corsi per i graduati e nasce l’università) raggiunge ed oggi forse supera il migliaio; non piccolo numero anche per un paese di centosessanta milioni di abitanti. Il numero sarebbe dichiarato assai più che eccessivo in un paese di tipo napoleonico; ed a giusta ragione; ché lo stato – nel significato nostro di amministrazione centrale unica – come garantirebbe il valore legale dei diplomi rilasciati da tanti istituti universitari e medi sui quali esso non ha ingerenza veruna, nella scelta dei cui insegnanti non ha parte, che operano secondo criteri da una scuola all’altra diversi, e, a sua insaputa, mutevoli? Il valore legale è garantito solo formalmente nei paesi a tipo statale accentrato; ma il concetto medesimo della garanzia statale è del tutto ignoto nei paesi a tipo anglosassone. In questi, se non esiste alcuna garanzia statale, esiste un valore morale, di fatto, che ogni istituto conquista e mantiene da sé; perfezionando l’insegnamento scientifico e tecnico ed il tirocinio educativo da esso fornito ai suoi studenti. Taluni istituti medi – le public (private) schools e talune grammar schools, mantenute da contee e da borghi in Inghilterra; ed un certo numero di high (medie) schools, dette per il livello più alto preparatory – entrano in tanta reputazione che i loro migliori allievi sono, non obbligatoriamente ma di fatto, ammessi abbastanza agevolmente nelle università più reputate. Il giovane licenziato da scuole medie di reputazione mediocre dura invece assai più fatica e deve sostenere prove più dure per ottenere l’ammissione nelle buone università; e, se teme di non essere accolto, chiede di entrare in una università di stato o di città, l’ammissione nelle quali sia, superate le prove stabilite, un diritto.
Vige, perciò quasi sempre, fatta eccezione per gli istituti fondati da stati o da città, il numerus clausus. Istituto, dal quale non si può trarre alcuna logica deduzione a favore dell’adozione sua nei paesi a tipo napoleonico. Qui, il numero chiuso, ossia la saracinesca posta all’iscrizione degli studenti, oltre il numero fissato per le singole facoltà o scuole universitarie o per le sezioni dei corsi liceali o medi, vorrebbe dire limitazione forzata del numero totale dei giovani, i quali possono aspirare alla istruzione media od universitaria. Il numerus clausus nei paesi a tipo napoleonico vuol dire esclusione dall’acqua e dal fuoco dei non ammessi. Con qual diritto lo stato, in una società di uguali, accorda agli uni e nega agli altri il diritto di accedere a stabilimenti mantenuti col danaro di tutti? Un’autorità pubblica – ministro, consiglio superiore, rettore, consiglio accademico, preside, consiglio dei professori? – determina, in relazione al numero delle aule e degli insegnanti ed assistenti, della suppellettile didattica, delle biblioteche, il numero massimo degli studenti, compiuto il quale, scende la ghigliottina. Chi è ammesso e chi è escluso? Decide la data della domanda? La scelta sarebbe arbitraria ed accidentale. Il merito? Chi giudica il merito? I voti riportati negli esami di licenza nelle scuole inferiori di grado? Occorre la finzione dell’esame di stato universale ed uniforme per accettare la finzione ulteriore di effettive uniformità nelle attribuzioni di voti. La concorrenza degli esaminatori inferiori nella larghezza di voti per favorire l’ammissione dei proprii allievi? La farsa sarebbe presto chiusa, per lo strabocchevole numero di promozioni a pieni voti, con lode o somma lode. Il numero chiuso nel tipo napoleonico contraddice al diritto, sancito nelle costituzioni, dei cittadini di adire ai massimi gradi della istruzione; sancirebbe l’obbligo della ignoranza ed il privilegio dei pochi favoriti dalla sorte o dall’intrigo. Il numerus clausus non vuol dire nulla di tutto ciò nei paesi a tipo anglosassone. Ogni istituto ha diritto di scegliere non solo i professori, ma anche gli studenti; di proporzionare il numero dei proprii iscritti alle proprie possibilità didattiche e di non assumere impegni superiori a quelli che sa di poter mantenere. Oxford o Cambridge in Inghilterra, Harvard o Yale o Chicago, o Princeton, o Cornell negli Stati uniti calcolano che esse non possono accogliere più di diecimila o ventimila studenti in tutto? Ogni stabilimento fissa in modo autonomo i criteri con cui si compie la scelta, e conosce la lista delle scuole preparatorie medie, i cui licenziati hanno le migliori aspettative, e per essi e per tutti gli altri, di diversa provenienza, determina le prove in base a cui l’ammissione è decisa. Non è sempre necessario che l’aspirante possegga documenti di frequenza e di capacità; non è cioè escluso, sebbene sia rarissimo, che il giovane nudo, uscito dalla foresta allo stato del bon sauvage di Rousseau, sia il favorito. Talvolta la decisione non spetta al rettore dell’università (vice-chancellor nelle università inglesi, president in quelle americane) assistito dal consiglio accademico o di facoltà. Ritengo, ad esempio, che in Oxford l’università non abbia in materia alcuna aperitio oris; decidono invece i guardiani o decani, o masters di ognuno di quella ventina di collegi dei quali si compie il corpo, storicamente vivente, della università. Lo studente deve essere, prima che membro dell’università, membro del suo collegio, iscritto e dimorante e vivente in esso; epperciò, se egli, dopo opportune prove che possono ridursi ad un colloquio privato, non è gradito al guardiano del collegio, potrà piatire l’ammissione presso altri capi di collegio; ma solo attraverso ad essi egli può essere iscritto all’università. Il guardiano sa, oltre il resto, quante siano le stanze per i suoi studenti, quanti i posti a tavola; quanti i fellows che possono seguirli come tutors (ripetitori) e sceglie coloro che meglio soddisfano al desiderio che il suo collegio riceva i giovani destinati a procacciargli lustro in avvenire ed a meritare che il ritratto sia tramandato ai venturi nelle sale comuni e nei refettori. Chi non riesce ad entrare ad Oxford o a Cambridge o ad Harvard o chi giustamente, a suo criterio, preferisce di studiare in altri istituti altrettanto o meno o più reputati, si rivolge altrove. La scelta è ampia. La domanda da parte degli studenti provoca la formazione di nuove università o l’ampliamento delle antiche.
Dappertutto, il numero degli studenti aumenta. In Inghilterra quello degli studenti universitari è inferiore al numero italiano; ed invece il numero degli studenti di scuole medie e preparatorie cresce rapidamente e satura gli istituti esistenti, provocando fondazioni di nuove scuole; né si ha notizia che vi siano giovani esclusi a causa dei limiti posti da ogni istituto alle ammissioni. Negli Stati uniti, sembra che la proporzione dei giovani di fatto iscritti nelle scuole medie e preparatorie abbia negli ultimi anni raggiunto l’ottanta per cento dei giovani che appartengono alle classi di età teoricamente atte a frequentare quegli ordini di scuola. Il numero degli studenti iscritti alle università ed ai collegi universitari, che batteva, un quarto di secolo fa, sul milione, si aggira da qualche anno sui due milioni e mezzo. Crebbe rapidamente nell’immediato dopoguerra, perché il congresso votò sussidi a tutti i reduci, i quali desiderassero iscriversi; ma, pur dopo venuto meno l’aiuto federale, il numero non diminuisce, anzi tende verso i massimi teorici relativi all’età ed alla popolazione totale. Il che vuol dire che il numerus clausus, in quel tipo, non esclude nessuno e probabilmente incoraggia il crescere della popolazione scolastica. Il numero in Italia parrebbe strano, anzi pericoloso; ché fatte le proporzioni fra i centosessanta milioni di americani e i quarantasette di italiani, ai due milioni e mezzo di studenti universitari americani, dovrebbero corrispondere settecentomila studenti italiani, o, se si tenga conto che forse un terzo di quelli americani, quelli dei due primi anni di undergraduates (poi vengono gli altri due anni e tutti quelli delle scuole professionali, di diritto, medicina, ingegneria ecc. e dei corsi di dottorato) sono al livello dei nostri studenti degli ultimi due anni di liceo; dovremmo avere almeno quattrocentocinquantamila iscritti. Ne abbiamo meno della metà e tutti gridano alla soprapopolazione universitaria ed alla disoccupazione, dianzi descritta, degli intellettuali. Ho interrogato parecchi giovani americani sul problema della disoccupazione nel mondo universitario americano; e vidi che la domanda non aveva risposta, perché non era neppure capita. I milioni di baccellieri e di masters i quali escono dagli istituti universitari americani, sanno che il diploma non dà diritto a nulla. È bene possederlo, perché non si è mai sentito dire che sapere qualcosa sia cagion di danno; e nessuno ha mai sostenuto la tesi che sia migliore una popolazione di analfabeti piuttosto che una popolazione di uomini e di donne meglio istruiti, molto o poco e, anche se poco, sempre meglio di niente. In me è sempre vivo nel ricordo del 1926, quando, per invito di un noto economista, visitai un suo podere in uno stato del centro. Nella stalla, il vaccaro mungeva la mucca. Il collega, dopo averlo presentato, aggiunse: «Questi è un diplomato della mia università!». Come costui, nove decimi dei diplomati americani, non sognano neppure di fare gli intellettuali solo perché hanno frequentato una università e in essa si sono diplomati: mungono le vacche, coltivano i campi, attendono alla bottega od al laboratorio; fanno ogni sorta di mestieri, che con le professioni e gli impieghi, considerati da noi privilegio ed appannaggio dei laureati, non hanno niente da fare. Essere “baccelliere” in arti o in scienze non nuoce e può giovare nel munger la vacca; e, se gli Stati uniti durante la guerra e nell’immediato dopoguerra sovvennero al bisogno di alimenti di mezzo mondo, chi può negare che al risultato miracoloso non abbia giovato il possesso di quella cultura, anche modesta, oggetto di tanto ironici giudizi da parte dei nostri diplomati, che si può ottenere conseguendo il diploma di baccelliere?
Al ritorno alle consuete occupazioni civili, fuor di illusori e spesso magri impieghi e studi professionali giova la popolarità nel mondo studentesco dell’abitudine di procacciarsi i mezzi di studio o qualche gradito supplemento di entrata coll’esercizio di ogni sorta di mestieri occasionali. Corre la leggenda che la via sicura per giungere all’ufficio di presidente degli Stati Uniti sia quella di aver venduto da ragazzo i giornali per le strade o, più frequentemente, col recapito nelle case dei clienti. Si può supporre senz’altro sia leggenda, sebbene assai significativa, per quanto riguarda l’ufficio supremo; ma non è tale per altre meno alte ambizioni; e di studenti venditori di giornali qualcuno conobbi anch’io. Nei mesi estivi assai giovani universitari usano le vacanze, mettendosi a servizio presso agricoltori in campagna, come garzoni di stalla o di scuderia, boscaioli, a caricare e scaricare legname, paglia, fieno e raccolti in genere; ed anche qui ho avuto occasione di complimentare chi aveva scelto quel modo di acquistare salute e peculio. Ho narrato altrove come, alla fine della colazione in una università della California, il preside mi chiedesse se avevo posto attenzione al cameriere che ci aveva servito a tavola. «È il migliore degli studenti del suo corso; e guadagna le tasse scolastiche e le spese, servendo a tavola professori e compagni di scuola. I quali non solo non lo tengono perciò da meno, ma, a titolo di onore, lo hanno eletto presidente di una delle loro associazioni». Conobbi, anche in Italia, valorosi giovani che faticavano duramente allo scopo di frequentare poi lezioni e laboratori; ma sono più numerosi coloro che, non potendo frequentare, stanno a casa o in ufficio e si preparano su testi o su dispense. Che è una maniera non buona di prepararsi.
Il difetto di valore legale per i diplomi, se prepara i giovani ad attendere da se stessi il successo o a non incolpare lo stato o il governo o l’insegnamento, a posteriori spregiato poi, ad esperienza fatta, come non pratico, non compiuto, dottrinario, non rispondente alle esigenze della vita moderna, costringe gli istituti a non far troppa fidanza sui proventi certi dei contributi governativi da imposta e sulle tasse versate dai giovani obbligati ad iscriversi, se non a studiare, se si vuole conseguire quel diploma che, solo, apre la via alle carriere ed agli impieghi. Nel tipo anglosassone ad ogni istituto si applica il proverbio del chi ha più filo fa più tela. L’ente il quale vive di tasse scolastiche, deve attirare studenti e gli studenti accorrono là dove, in seguito agli studi compiuti, ottengono un titolo il quale gode di buona reputazione ed apre vie migliori ai più capaci e ambiziosi e volonterosi. Chi si contenta di un baccellierato conseguito con poca fatica ed aspira ad occupazioni locali o a dedicarsi a lavori modesti, perché non dovrebbe preferire un piccolo collegio il quale gli fornisce quella modesta preparazione che a lui è bastevole? Chi ha ambizioni più alte farà sforzi per riuscire ad essere accettato in una grande e reputata istituzione, ed accettato, si sforzerà di uscire non col semplice pass, ma vorrà ottenere gli honors; noi si direbbe passare agli esami non col diciotto, ma col trenta e lode e, forse, la dichiarazione di dignità di stampa per la dissertazione. Né l’accesso alle migliori università o scuole secondarie preparatorie è perciò limitato ai ricchi; ché, dappertutto, anche nei collegi un tempo più aristocratici ed esclusivi, cresce la proporzione degli studenti di modesta estrazione ai quali i mezzi sono forniti da borse di studio, di fondazione universitaria o create recentemente da borghi, città, contee, stati. Questa è, anzi, la maniera più vistosa di intervento degli enti pubblici ad incoraggiamento dell’istruzione media ed universitaria l’istituzione di numerose borse di studio create allo scopo di fornire a giovani meritevoli i mezzi per mantenersi a scuola e pagare le tasse. Le quali non sono quasi evanescenti come nei paesi a tipo napoleonico e non coprono solo una troppo piccola parte del costo totale del servizio; ma sostanziose e destinate a coprire di quel costo la parte più notabile.
Non tutto il costo, che in tutti i paesi del mondo l’industria della educazione ed istruzione è e seguiterà ad essere esercitata in perdita. Una parte della perdita è pagata dallo stato sotto la forma, ora ricordata, delle borse di studio. Che non sono poche di numero; e dopo l’esempio postbellico delle borse di studio accordate a milioni di soldati ed ufficiali reduci dalla guerra, tendono ad assumere dimensioni grandiose. Col qual metodo, ed in quel tipo di ordinamento scolastico, si risolve, a parer mio automaticamente, il problema del dissidio, forse insanabile, come dissi dianzi, nei paesi a tipo napoleonico, fra scuola pubblica e scuola privata. Lo stato colle borse di studio non dà all’istituto per se stesso; dà i mezzi agli studenti di pagare forti tasse scolastiche al qualunque istituto, pubblico o privato, al quale essi preferiranno iscriversi. Non sceglie l’autorità pubblica, secondo criteri suoi, che possono essere di supposta uguaglianza od oggettività o imparzialità, oppure di incoraggiamento di talune particolari correnti politiche o spirituali liberali cattoliche comunistiche o socialistiche ed altre ancora. Scelgono i giovani od i loro genitori o tutori, a seconda del tipo di istruzione ed educazione preferito. Un’altra parte della perdita è sostenuta col provento del reddito dei lasciti antichi e con quello delle nuove donazioni. Che è sinonimo, di nuovo, di tassa scolastica; pagate non più dagli studenti in atto; ma dai memori baccellieri mastri e dottori usciti dall’università, i quali in vita o in morte ricordano i benefici ottenuti dalla formazione intellettuale e morale in essa ricevuta e compiono donazioni, modeste o grandiose, a suo favore. Il presidente (rettore) delle università o dei collegi è scelto, un po’ per le sue note capacità scientifiche e didattiche, ma più per quelle amministrative; e fra queste rimarchevole in primo luogo l’attitudine a procacciare donazioni dai più facoltosi tra gli antichi allievi e anche estranei. Se la Columbia University nominò e riconfermò, ancor dopo scelto a comandante delle forze atlantiche in Europa, suo presidente il generale Eisenhower, ciò fu dovuto alla sua fama e perciò alla speranza che esso giovasse alla fortuna dell’istituto presso uomini meglio disposti a donare a lui che a rettori meno famosi. Fa d’uopo avvertire che la fonte dei lasciti e donazioni tende tuttavia se non ad inaridirsi, ad attenuarsi nelle antiche forme. La difficoltà crescente di cumulare grandi fortune, a causa delle elevate imposte progressive sul reddito e sulle successioni e della minore facilità di conseguire nelle industrie e nei commerci guadagni di monopolio, scema il numero degli uomini facoltosi disposti a larghezze cospicue verso la scuola. Al luogo dei privati benefattori, tendono a intervenire le grandi corporazioni (società anonime), sia con donazioni dirette alle università, sia a mezzo delle fondazioni Carnegie, Rockefeller, Ford. Sembra che dal sette all’otto per cento delle somme spese per l’insegnamento universitario provenga dalle elargizioni delle grandi corporazioni e la proporzione tende a crescere, nonostante i brontolii degli azionisti, il cui peso è oramai scarso in confronto alla influenza dei dirigenti, persuasi dell’importanza per l’industria in genere dell’incoraggiamento al progresso scientifico ed alla diffusione della cultura. Oggi, tuttavia, la perdita non sempre è coperta dalle tasse scolastiche pagate dagli studenti, dai sussidi pubblici versati agli studenti per il pagamento delle tasse e dalle donazioni volontarie antiche e nuove. Il costo degli edifizi, delle suppellettili, dei macchinari ed apparecchi di laboratorio, degli apprestamenti clinici, dei libri cresce siffattamente da rendere impossibile il funzionamento delle scuole senza un contributo diretto dell’ente pubblico.
Nel sistema napoleonico, il contributo è distribuito, in seguito ad istanza e dimostrazione dei rettori, presidi e direttori, dall’autorità pubblica (ministro) a ciò autorizzato da legge approvata dal parlamento. L’autorità politica interviene direttamente nella fissazione e nella distribuzione del contributo statale. Anche nel tipo anglosassone il contributo è fissato nella legge del bilancio; né si concepisce altro sistema; dovendo esso far carico al provento delle imposte. Ma la distribuzione sinora è compiuta in Inghilterra ad opera di un consiglio composto di rappresentanti delle università medesime; e sulla spesa non ha ingerenza né la tesoreria né il parlamento. Si segue cioè il metodo usato in Italia per il concorso globale concesso al Consiglio delle ricerche; il quale poi distribuisce la somma assegnata in bilancio secondo i criteri stabiliti dal consiglio medesimo, eletto dagli insegnanti e quindi fuori delle ingerenze governative. Ma quel che in Italia si fa per la minor parte del contributo statale, in Inghilterra si fa per l’insieme; con grave dispiacere della tesoreria (la nostra ragioneria generale dello stato) e con proteste ripetute nella Camera dei comuni. Sinora però le università sono riuscite, in difesa della propria autonomia, a respingere il controllo statale sull’uso del contributo ed a distribuirlo secondo criteri scientifici e didattici, ad esclusione di quelli politici.
Le ingerenze politiche non sono escluse nel sistema anglosassone; ma più che politiche hanno indole ideologica. La scuola cioè non si sottrae alle correnti di idee o di tendenze sociali o religiose di tempo in tempo divenute vive in questa o quella regione. Ricordo, fra l’altro, una qualche comica scomunica lanciata dai consigli di amministrazione di università statali, e quindi eletti dai governatori e dai legislatori dello Stato, contro chi professasse dottrine contrarie a quelle contenute nella lettera della Bibbia; o più recentemente, in alcune poche università, quasi tutte statali, le richieste di giuramenti di non appartenenza al partito comunista. Ma la grandissima maggioranza delle università resistette, assai prima che il maccarthismo cadesse nel meritato discredito, alle pretese. I pochi insegnanti, i quali credettero di non poter giurare, furono immediatamente chiamati, a condizioni migliori, ad insegnare in altre università. Nel sistema anglosassone la valvola di sicurezza contro le ventate di prepotenza ideologica agisce e si chiama rivalità fra gli stabilimenti scolastici. Il perseguitato è sicuro di trovare ospitalità altrove; se non sia notorio che la persecuzione fu provocata, a scopo reclamistico, dallo stesso insegnante. Talora si dice che certe opinioni politiche o sociali siano invise ai consigli di amministrazione di fondazioni private, nei quali hanno peso i fiduciari dei benefattori, per lo più appartenenti ai ceti agiati; ma i casi di effettiva intolleranza accademica sono rari e su essi si fa così gran baccano da rendere ardui e rari gli ostracismi. In ogni caso, l’intolleranza non ha mai avuto effetti che fossero paragonabili, neppure lontanamente, a quelli che si sono veduti nei paesi a tipo napoleonico; dalla cacciata di Giambattista Say dalla cattedra parigina ad opera di Napoleone alla persecuzione recente che costrinse tanti studiosi antifascisti antinazisti ed ebrei a cercar rifugio precisamente in Inghilterra e negli Stati uniti; e basti citare per tutti Fermi ed Einstein.
Se il valore legale del diploma impone la regolamentazione uniforme dei programmi nelle scuole secondarie e la fissazione, pure uniforme, dell’ordine degli studi nelle facoltà e scuole universitarie, il tipo anglosassone consente elasticità e libertà sia nella determinazione delle materie sia dei programmi di insegnamento. Le scuole, anche secondarie, e sovratutto quelle universitarie divengono laboratori sperimentali in cui si saggiano nuovi metodi didattici, diversi da quelli tradizionali e si tentano nuove vie alla ricerca scientifica. È di moda incolpare i nostri governi per la fuga dei giovani studiosi verso gli Stati uniti. È vero che le quarantamila lire al mese, equivalenti suppergiù, anche in capacità d’acquisto, a settanta dollari, offerte al giovane, il quale, avendo conseguito con lode la laurea in scienze, consenta ad entrare, con incertezza di successo, come assistente nella carriera universitaria, sono alquanto inferiori ai salari da cento a centocinquanta dollari i quali sono dati, a titolo di salario mensile ai giovani americani di uguale età e di merito comparabile ed è anche vero che all’universitario italiano, il quale abbia già fatto le sue prove ed abbia al suo attivo qualche nota scientifica già apprezzata, conviene, al punto di vista economico, preferire i tremila o quattromila dollari iniziali americani – da centocinquanta a duecentomila lire al mese – alla busta paga complessiva (stipendio ed accessori) di circa settanta-centomila lire dei professori incaricati in Italia. Ma la differenza non è né cospicua né decisiva. Le attrattive sono altre. Il rischio di carriera è di fatto minore. In Italia, se non si fanno vacanze nei posti di ruolo, se non vanno fuori ruolo o non muoiono i titolari di discipline fondamentali, il giovane può languire per lunghi anni negli assistentati o negli incarichi, incerti, nonostante la permanenza di fatto, per la necessità della conferma annua. Non può adire ai concorsi di libera docenza, la quale non offre vantaggi materiali, ma solo speranze per l’avvenire, se e finché non sono banditi concorsi per la sua disciplina; né si sa perché i concorsi siano indetti a turno di anni per alcune soltanto delle discipline fondamentali; e ben di rado il Consiglio superiore si decida ad iscrivere tra le materie di concorso per la libera docenza una disciplina nuova. Fa d’uopo opporsi, si osserva, alle specializzazioni eccessive ed attendere che la nuova disciplina si sia assodata e possa essere ufficialmente riconosciuta come esistente. Giusta prudenza, se si pensa, che, essendo anche le libere docenze provvedute di crisma ufficiale, con bollo, esse danno luogo nel sistema napoleonico, alle consuete legittime aspettative e producono disoccupazione di tipo particolare, detto dei liberi docenti; ma diventa intolleranza, se si pensa che la ricerca scientifica suppone il nuovo e le ipotesi di studio non ancora dimostrate feconde; e che per ciò non monta accertare la padronanza dell’intera materia, occorrendo invece assicurarsi dell’attitudine scientifica, come è detto nel broccardo del semel abbas semper abbas. La consecuzione della libera docenza vuol dire mera autorizzazione a cercare di dire qualcosa di diverso da quel che è patrimonio accettato od anche ad esporre meglio quel che è già noto. I giovani soffocati dal tipo napoleonico aspirano perciò ad andare negli Stati uniti sovratutto perché ad essi sono offerte nei laboratori, nelle borse di studio, mezzi di ricerca assai più agevoli di quelli sperabili in patria. Non la paga “forse” più alta; ma la possibilità di lavorare per un anno o due nei laboratori e nelle biblioteche, sperimentando cercando e forse trovando. Nei paesi di libertà accademica non esiste alcun regolamento generale con elenco fisso di discipline e non vi sono Consigli superiori che riconoscano la nascita di discipline nuove. Non si deve premere su giovani e su autorità politiche; ma persuadere il professore amante della sua materia, il preside di quelle che da noi sono dette facoltà e che, più piccoli per contenuto ed assai più numerosi, son detti dipartimenti, il rettore dell’università, perché un nuovo assistentato, un incarico di professore assistente sia creato, se questi alcuni uomini si persuadono che val la pena di mettere alla prova il giovane promettente. Accade che una cattedra sia offerta perché il decano o il rettore capitarono a leggere una nota su un argomento di fisica od uno scritto su un problema di storia del diritto o della filosofia; e la nota e lo scritto piacquero. Il sistema dei concorsi nostrani a base di titoli scritti stampati, giudicati da commissioni elettive è, a parer mio, ottima garanzia, nel sistema napoleonico, contro l’arbitrio politico e, tutto sommato, dà garanzia oggettiva di buone scelte; ma non possiamo negare che il sistema anglosassone delle scelte fatte dai corpi accademici insegnanti di ogni singola università che è poi scelta fatta da questo o quell’insegnante stimato dai rettori e presidi, lascia maggior campo all’iniziativa ed ai tentativi.
La caratteristica forse più interessante del tipo anglosassone è quella del campo lasciato ai tentativi ed agli errori. Più lento il processo in Inghilterra; più rapido negli Stati uniti. Taluni rettori di note grandi università sono divenuti famosi per il tentativo compiuto di imprimere nuovo indirizzo all’insegnamento, taluno favorevole alla libertà assoluta dello studente di conseguire baccellierati o dottorati in discipline nuove e reputate da molti di minima importanza; ed altri deciso a far macchina indietro ed a prescrivere un minimo di materie fondamentali, attraverso a cui sia obbligatorio passare prima di fare scelte ulteriori libere. Battaglie omeriche si combattono ogni tanto tra i fautori dei metodi contrari; sicché i giovani sono attirati ora all’una ora all’altra università dalla diversità dei programmi e degli indirizzi. Orrore! esclama colui che è vissuto nel clima del tipo napoleonico. Che cosa vale una laurea in diritto, in medicina, in ingegneria, in lettere se non si sa neppure che cosa abbiano i giovani laureati appreso per il conseguimento del diploma?
Chi è spaventato del disordine, non è tuttavia tranquillo sui risultati del sistema ordinato, uniforme, riposante del tipo napoleonico. Lo scontento non piglia l’aspetto di contrasti fra scuola e scuola, fra università ed università, fra programmi e programmi; sì da instabilità nell’ordine. Le dispute nostrane sul miglior ordinamento degli studi non hanno termine. Negli esami di stato deve essere richiesta al candidato la conoscenza della materia dell’ultimo anno di studio (liceo, ginnasio, o istituto tecnico) ovvero di tutto il corso? Si deve consentire in un esame, il quale dovrebbe chiarire la maturità del giovane a proseguire gli studi, il rimedio della riparazione autunnale, ovvero no? Il giudizio degli insegnanti, i quali seguirono il giovane durante tutto un corso di studi, non è preferibile a quello di commissari estranei racimolati casualmente qua e là, ai quali può riuscire arduo compito valutare la preparazione di un giovane mai veduto? Le opinioni sono e rimarranno mai sempre contrastanti; e di volta in volta ministri, consigli superiori, legislatori mutano criterio. Ogni volta regna l’ordine; ma è ordine conseguito attraverso continue rivoluzioni. Il tipo napoleonico conquista l’ordine attraverso rivoluzioni, che distruggono l’ordine antico; nel tipo anglosassone l’ordine è dato dalla gara continua di sistemi contrastanti e dalla sopravvivenza dei sistemi meglio adatti provvisoriamente alle esigenze dell’insegnamento. Il danno della gara ognora rinnovata fra criteri contrastanti non è, del resto, nel tipo anglosassone, così preoccupante come a primo tratto si potrebbe credere.
I contrasti sono vivi sovratutto nel campo dell’insegnamento umanistico, scientifico, filosofico di carattere preparatorio e generale; non per gli insegnamenti tecnici i quali sono dati nelle scuole che fanno seguito alla fine dei corsi generali per il baccellierato. Nelle scuole di diritto, di medicina, di ingegneria, di agraria, di ragioneria, non vi è molto campo libero alle novità. Nelle scuole di diritto, gli americani e in parte anche gli inglesi non amano procedere da principi, da norme generali, da costruzioni sistematiche ad applicazioni ai casi concreti; sì invece dai casi singoli alla teoria generale. I precedenti, le decisioni giudiziarie sono la base dell’insegnamento; e dallo studio di un processo celebre si giunge ai principi accolti dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Se il metodo è diverso, la sostanza dell’insegnamento conduce a risultati che, nel sistema del diritto comune vigente, è ugualmente rigoroso. Può essere un curiosum didattico e professionale, sentirsi dire che il foro britannico è reclutato in maniera tanto diversa dal nostro; non laurea in giurisprudenza, poi tirocinio professionale in uno studio di avvocato, quindi esami di stato ed abilitazione all’esercizio professionale. Tutto all’opposto: per entrare a far parte del corpo degli avvocati, due vie sono aperte. In primo luogo quella di iscriversi giovanissimi, dopo aver frequentato una public school od analoga scuola secondaria, praticante in un ufficio legale posto in uno degli Inns of Courts (Osterie della Corte), oasi di pace e di silenzio nel centro tumultuoso della City di Londra; ed ivi far pratica di anni, incontrarsi con celebri membri del foro, sostenere colloqui più che esami con i capi della corporazione, assistere ad un certo numero di pranzi ufficiali della corporazione, dare non so qual prova con pranzo solenne finale; ed essere così abilitato ad entrare, in qualità di junior, in uno degli uffici legali aperti in un edificio dell’Inn e poco per volta salire in anzianità; sino a quando, ritiratosi volontariamente per età o per altre circostanze, l’avvocato si decide a vendere ad un giovane praticante il posto. Ovvero, seguire sino alla fine il più difficile dei corsi universitari, che ad Oxford è distinto dalla parola Greek; corso che, lo dice la parola, non ha niente a che fare col diritto: Platone, Aristotele, letti in greco, Cicerone, san Tommaso ed in genere filosofia, matematica e letteratura. Conseguita, con gli onori, la laurea (Doctor in Philosophy) iscriversi in uno degli Inns di Londra e compiere, forse più rapidamente, lo stesso tirocinio del giovane praticante venuto su dalla gavetta. Più brillante e forse rivolta a mete più alte – promozione a giudice, carriera politica – la seconda via; ma ugualmente apprezzata la prima. I metodi per esercitare le altre professioni non paiono meno eterocliti ai nostri occhi, abituati alla simmetria, all’ordine, ai bolli. Ogni tanto si leggono sui giornali avvisi dell’Institute of Bankers o di una delle Incorporated Societies of Accountants che sono, noi diremmo, associazioni private di banchieri o di ragionieri – le quali hanno ottenuto una “Carta di incorporazione”, o decreto di erezione in ente morale; ma le carte o decreti possono essere concessi a parecchie associazioni rivali – in cui si annuncia l’apertura di esami per gli aspiranti a diventare soci della corporazione. Superato l’esame, con onori o senza, il novello socio gode di un credito maggiore di quello che otterrebbe se al suo nome e cognome non potesse far seguire le iniziali (ad esempio, F.I.B.) di socio dell’Istituto dei banchieri. Le iniziali gli aprono l’adito a posti più distinti in banca; perché si sa che non le possono usare se non coloro i quali dai membri anziani e reputati della società sono stati reputati meritevoli di essere considerati colleghi. La rivalità fra parecchie corporazioni e la possibilità di far a meno dell’uso delle iniziali garantisce gli aspiranti contro il pericolo di esclusiva degli anziani; e la necessità di garantire il prestigio delle iniziali delle quali il socio ha interesse a far uso, assicura contro la concorrenza al ribasso.
Questa delle iniziali è un’usanza che, senza nocumento e senza nulla variare al sistema, potrebbe essere introdotta anche nel tipo napoleonico. Se il professionista avvocato, ingegnere, medico, geometra, ragioniere dovesse – ecco un obbligo innocuo, non costoso, che per eccezione mi rassegnerei ad invocare – sulle buste, sulla carta da lettere, sulle notule delle parcelle ai clienti, sulle targhette apposte al portone di casa ed all’uscio dell’ufficio, apporre dopo (non prima, per non creare confusione con i titoli cavallereschi, i quali non dicono nulla rispetto alla capacità professionale) l’indicazione del proprio nome e cognome, quella del diploma (Dottore in medicina, in giurisprudenza), dell’anno della sua consecuzione e dell’università od istituto in cui il diploma fu rilasciato (Università di Torino o di Roma, Politecnico di Torino o di Milano, Università Bocconi di Milano ecc. ecc.) qualche utile risultato parrebbe sicuro. In primo luogo, i clienti i quali hanno perso una causa difesa dal patrono laureato a “Manica larga” o sono stati male curati da un medico uscito da “Lode per tutti”, comincerebbero a sospettare della bontà dell’insegnamento fornito da quella università e se l’esperienza si ripetesse, l’università sarebbe screditata. L’effetto necessario sarebbe, in secondo luogo, la rivalità delle università e delle scuole, invece che nel largheggiare, nell’essere severi nella concessione dei diplomi; ed i giovani valorosi e studiosi preferirebbero frequentare le università reputate per la loro severità. Si opererebbe, una selezione spontanea fra gli stabilimenti, le cui iniziali apposte al nome e cognome del professionista lo accreditano e giustificano onorari più elevati e quelli, le cui iniziali segnalano che il diplomato è di qualità inferiore. Poiché in parecchie facoltà umanistiche nostrane (giurisprudenza, commercio ecc.) si iscrivono giovani, i quali non hanno attitudine od aspirazione ad esercitare la difficile professione del patrocinante od a commerciare per proprio conto e rischio, non vedrei nessun inconveniente che taluni stabilimenti universitari si specializzassero nel distribuire diplomi meno ardui alle migliaia di bravi giovani i quali si contentano di attendere a compiti di uffici pubblici o privati, nei quali non è richiesta iniziativa, ma solo diligenza, zelo e senso del dovere. Una distinzione spontanea fra i due tipi del professionista o dirigente e dell’impiegato si opererebbe attraverso l’uso di differenti iniziali.
Se, attraverso il piccolissimo espediente dell’uso obbligatorio di iniziali, si può inserire un po’ di salutare rivalità anche fra stabilimenti di tipo napoleonico, il distacco rimane, tuttavia, profondo. Il distacco meglio si vede se, abbandonando le denominazioni storico-geografiche di “napoleonico” e “anglosassone”, noi adottiamo parole consuete nel linguaggio economico. Il tipo napoleonico assume così la denominazione di “monopolistico”; ché è proprio del monopolio l’assunzione in esclusiva dell’esercizio di un ramo dell’attività umana. Il monopolio non è privato, ma pubblico; non ha fini di lucro, ed è esercitato nell’interesse delle nuove generazioni; ma non perciò la denominazione è impropria, ché essa è correttamente applicata ad un’attività la quale riceve le direttive dallo stato, non può essere esercitata senza il consenso ed il controllo di autorità pubbliche, ed ha al suo termine la consecuzione di un diploma, a cui solo lo stato attribuisce valore legale ed è ottenuto, dopo esami detti di stato, esclusivamente a mezzo di organi statali. Non monta che, accanto alle scuole statali, esistano scuole private, massimamente gestite da ordini, congregazioni od enti ecclesiastici. Queste insegnano e concedono diplomi secondo criteri posti dallo stato e per delegazione statale. Dei molti fatti relativi alla scuola, dei quali scarsa notizia si ha dai più per la difficoltà di conoscere il funzionamento effettivo di istituti di cui la legge traccia solo i lineamenti essenziali; uno, casualmente appreso, mi fece una singolare impressione. In Italia non esistono “seminari” diocesani veri e proprii, nel senso di istituti con contenuto proprio di studi adatti a coloro i quali hanno la vocazione ecclesiastica od aspirano al ministero sacerdotale. Ero persuaso, non so perché, che il seminario fosse un istituto specificamente costrutto per la formazione del clero. Mai no; i seminari sono scuole medie, ginnasi e licei uguali in tutto agli istituti statali di ugual nome; con gli stessi programmi, con le medesime regole per il reclutamento del personale insegnante, con il medesimo valore legale, assicurato dai medesimi esami di stato. Una ragione pratica spiega il fatto; ed è l’opportunità di non allontanare giovinetti, dei quali la vocazione per il sacerdozio è incerta – e forse il maggior numero degli iscritti al seminario, terminati gli studi, non abbraccia il ministero sacerdotale – ed a cui pure giova, religiosamente, l’educazione impartita in un istituto governato da ecclesiastici, dove è fornita, accanto all’istruzione regolamentare per i ginnasi ed i licei e ad incremento di questa, in corsi complementari o nei seminari metropolitani una particolare più profonda istruzione religiosa. Ragione per fermo grave, la quale spiega il fatto; ma non scema la singolarità del peso grandissimo che il monopolio statale esercita persino sul tipo di istruzione che parrebbe dover essere ed un tempo era costruita in maniera sua propria, adatta a perseguire l’altissimo ufficio di preparazione al ministero ecclesiastico. Il monopolio statale tutto adegua a se stesso: non più seminari governati da dotti teologi; ma ginnasi – licei uguali in tutto ai comuni ginnasi – licei, nei quali insegnano laureati, secolari o ecclesiastici, forniti di diploma ufficialmente firmato e bollato. Forse, invece che di monopolio di stato, sarebbe appropriato parlare di duopolio di stato e chiesa o di polipolio di stato, chiesa e privati intesi, al margine, alla preparazione dei giovani già rifiutati dalle scuole statali; ma la sostanza poco muta: l’istruzione è compito della pubblica autorità. Possono nascere competizioni fra i varii aspiranti all’esercizio dell’ufficio pubblico; e la gara si svolge da noi sovratutto fra stato e chiesa; non competizione vera e propria fra enti i quali liberamente intendono ad istruire secondo criteri proprii; ma partecipazione ad un privilegio a cui si è dato valore e carattere pubblico. Quella che in regime di libertà sarebbe competizione feconda, in regime di monopolio diventa lotta per accaparrarsi; le nuove generazioni costrette dalla legge ad abbeverarsi a un’unica fonte di ispirazione ideale e a sottomettersi ad ugual tirocinio per conseguire il documento che unicamente apre le porte alla vita civile. Il peggio del sistema monopolistico non è neppure la necessità di assoggettamento al documento legale; è l’assoggettamento ad un’unica fonte ideale. A seconda prevalgano le tendenze dette laiche o quelle ecclesiastiche, or prevale l’idea insegnata dallo stato or quella propugnata dalla chiesa; ed ogni volta un’idea, se pur c’è, sopraffà l’altra; sicché le mutazioni sono a scatti; non determinate da riforma nei metodi di insegnamento, da necessità di tener conto delle nuove scoperte scientifiche o da nuove correnti del pensiero; bensì dal prevalere di correnti o partiti politici.
La conclusione di questo scritto non è che il sistema seguito nel tipo monopolistico di insegnamento debba essere, dove esista, abbandonato in favore del sistema opposto. In ogni paese il passato domina giustamente il presente e l’avvenire. Non si mutano d’un colpo tradizioni, metodo di reclutamento degli insegnanti, metodi di giudizio degli studenti; e se si fa, d’un tratto, il tentativo, nasce male peggiore di quello al quale si vorrebbe rimediare. Ho voluto soltanto togliere di mezzo un equivoco, il quale a tanti uomini, giustamente preoccupati della necessità di garantire la libertà della scuola, fa credere che la salvaguardia di essa sia lo stato, con la sua imparzialità fra le diverse correnti spirituali, la sua oggettività nella scelta degli insegnanti, il rigore nel giudizio sui giovani, provenienti dalle scuole pubbliche ovvero da quelle private, l’assicurazione data, a mezzo di un documento legale, dell’attitudine dei licenziati o diplomati o laureati ad esercitare arti professioni od impieghi. Ho tentato dimostrare che il sistema non garantisce affatto la libertà della scuola. Come per ogni altro problema politico, può darsi che il legislatore e il politico siano stati e siano di nuovo costretti a commettere errori da circostanze economiche sociali e politiche le quali superano le forze di resistenza della verità. Altro è tuttavia l’errore commesso da chi sa che quello è l’errore, da quello voluto da chi è persuaso di essere nel vero. Colui il quale conosce l’errore, vi si può rassegnare politicamente perché tiene conto dei maggiori rischi che altrimenti si farebbero correre alla cosa pubblica; ma l’errore è commesso con temperamenti e con modalità che in prosieguo di tempo potranno essere utilizzati per ritornare alle soluzioni giuste. Colui il quale invece è persuaso, commettendo l’errore, di essere nel vero, lo conduce ai suoi estremi e rende difficile il ritorno alla via buona. Ho voluto, nelle pagine che precedono, soltanto dimostrare che il tipo monopolistico non è sinonimo di libertà della scuola; e che i tentativi, anche minimi, anche formali compiuti nel senso di attribuire il merito o la taccia, la lode o il rimprovero per i risultati ed i diplomi conseguiti alla fine dei corsi non ad una mitica autorità pubblica, ma ai corpi accademici, alla scuola, alla università ai quali singolarmente spetta la responsabilità effettiva, che gli sforzi atti a distruggere a poco a poco il pregiudizio del valore legale erga omnes del titolo scolastico, ed a restaurare il principio che del valore dei titoli sono giudici unicamente coloro i quali volontariamente ricorrono ai servizi dei diplomati, sono tentativi e sforzi utilmente condotti a vantaggio della libertà. È ovvio che i tentativi non possono ridursi a quello minimo e gratuito dell’obbligo di dichiarare il nome dell’istituto il quale rilasciò diplomi di licenza, maturità o laurea. Se i concorrenti agli uffici pubblici e privati avessero la facoltà e non l’obbligo, oggi imposto in tutti i bandi per pubblici impieghi, di dichiarare i diplomi da essi posseduti, ciò significherebbe che i datori di lavoro avrebbero vista la verità essenziale qui affermata, non avere il diploma per se medesimo alcun valore legale, non essere il suo possesso condizione necessaria per conseguire pubblici e privati uffici, essere la classificazione dei candidati in laureati, diplomati medi superiori, diplomati medi inferiori, diplomati elementari e simiglianti distintivi di casta, propria di società decadenti ed estranea alla verità ed alla realtà; ed essere perciò libero il datore di lavoro, pubblico e privato, di preferire l’uomo vergine di bolli. Poiché, in regime di libertà, sarebbero preferiti, di fatto, i diplomati capaci, si darebbe cominciamento all’opera intesa a dare nuovo pregio a quelli che oggi sono meri pezzi di carta intesi a creare aspettative di ansie e ad esaltare il compito degli stabilimenti volti ad attribuire diplomi serii di studi severi.
Solo per ragioni di esempio geografico, dissi anglosassone il metodo opposto a quello monopolistico; ché esso meglio si dice “di libertà”. Ad esso dobbiamo, con sforzo continuo, ritornare; ritornare, dico, perché esso è il metodo eterno di tutti i tempi e di tutti i paesi nei quali più feconda è stata la scuola; quando Bologna, Padova, Pavia e Parigi vedevano consacrata da diplomi imperiali o da bolle pontificie una università, già nota e viva ed operosa perché lettori famosi avevano eletto stanza in quella città ed avevano, con lo splendore della loro dottrina, attirato a sé gli scolari vaganti d’Europa ed avevano ivi fatto rifiorire gli studi umanistici e fisici. Il metodo ”di libertà” si fonda sul principio del tentativo e dell’errore. Trial and error è il motto appropriato alle scuole in cui domina la libertà. Nulla è certo in materia di insegnamento; non sono certi i programmi, non gli ordini degli studi, non è certa neppure l’esistenza di alcuna scienza. Non è certo siano buoni i metodi accolti negli stabilimenti a tipo di libertà; e non è affatto certo che essi conducano sempre al bene. Ma vi ha una differenza fondamentale fra l’uno e l’altro tipo; ché quello monopolistico consente i mutamenti solo quando essi sono consacrati da un’autorità pubblica; laddove il metodo di libertà riconosce sin dal principio di potere versare nell’errore ed auspica che altri tenti di dimostrare l’errore e di scoprire la via buona alla verità. Questa è tutta la differenza fra il totalitarismo e la libertà. Il totalitarismo vive col monopolio; la libertà vive perché vuole la discussione fra la libertà e l’errore; sa che, solo attraverso all’errore, si giunge, per tentativi sempre ripresi e mai conchiusi, alla verità. Nella vita politica la libertà non è garantita dai sistemi elettorali, dal voto universale o ristretto, dalla proporzionale o dal prevalere della maggioranza nel collegio uninominale. Essa esiste sinché esiste la possibilità della discussione, della critica. Trial and error; possibilità di tentare e di sbagliare; libertà di critica e di opposizione; ecco le caratteristiche dei regimi liberi. Così è della scuola. Essa è viva e feconda, sinché chiunque abbia diritto di dire: gli altri sono in errore e io conosco la via della verità; ed apro una scuola mia nella quale insegno che cosa sia la verità e proclamo dottori in quella verità gli scolari che, a mio giudizio, l’abbiano appresa. Ma chiunque altro ha ragione di insegnare una verità diversa, con metodo diverso. In ogni tempo, attraverso tentativi ed errori ognora rinnovati abbandonati e ripresi, le nuove generazioni accorreranno di volta in volta alle scuole le quali avranno saputo conquistarsi reputazione più alta di studi severi e di dottrina sicura.