La bellezza della lotta
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 18/12/1923
La bellezza della lotta
«La Rivoluzione liberale», 18 dicembre 1923
Le lotte del lavoro, Piero Gobetti, Torino 1924, pp. 5-19
Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 495-503
Scritti economici, storici e civili, Mondadori, Milano, 1973, pp. 833-843
Rileggendo gli scritti sui problemi del lavoro, che l’editore Piero Gobetti ha desiderato che io riesumassi dalle riviste e dai giornali su cui li ero andati pubblicando dal 1897 in qua, mi sono accorto che essi obbedivano ad alcune idee madri, alle quali, pur nel tanto scrivere per motivi occasionali e sotto l’impressione di circostanze variabili di giorno in giorno, mi avvedo, con un certo perdonabile compiacimento intimo, di essere rimasto fedele; lo scetticismo invincibile, anzi quasi la ripugnanza fisica, per le provvidenze che vengono dal di fuori, per il benessere voluto procurare agli operai con leggi, con regolamenti, col collettivismo, col paternalismo, con l’intermediazione degli sfaccendati politici pronti a risolvere i conflitti con l’arbitrato, con la competenza, con la divisione del tanto a metà; e la simpatia viva per gli sforzi di coloro i quali vogliono elevarsi da sé e, in questo sforzo, lottano, cadono, si rialzano, imparando a proprie spese a vincere ed a perfezionarsi. Il socialismo scientifico ed il collettivismo russo, in quanto schemi di organizzazione della società o tentativi di applicare praticamente quegli schemi, non mi interessano. Sono al disotto del niente. Invece il socialismo sentimento, quello che ha fatto alzare la testa agli operai del Biellese o del porto di Genova, e li ha persuasi a stringere la mano ai fratelli di lavoro, a pensare, a discutere, a leggere, fu una cosa grande, la quale non è passata senza frutto nella storia d’Italia. Il collettivismo è un ideale buono per le maniche col lustrino e serve solo a far morire di fame e di noia la gente. Sono puri socialisti, del tipo noioso, coloro i quali vogliono far risolvere le questioni del lavoro da arbitri imparziali, incaricati di tenere equamente le bilance della giustizia, e vogliono far compilare le leggi del lavoro da consigli superiori, in cui, accanto ed al disopra alle due parti contendenti, i competenti, gli esperti, i dotti, i neutri insegnino ai contendenti le regole del perfetto galateo.
Oggi, gli ideali burocratici sono ridivenuti di moda. Sott’altro nome, l’aspirazione dei dirigenti le corporazioni fasciste di trovare un metodo, un principio, per far marciare d’accordo imprenditori ed operai, è ancora l’antico ideale collettivistico. La lotta combattuta per insegnare agli operai che l’internazionalismo leninista era una idea distruttiva e che la nazione era condizione di vita civile fu una cosa santa; ma il credere che si possa instaurare in terra l’idillio perfetto tra industriali ed operai, sotto la guida di qualche interprete autorizzato dell’interesse supremo nazionale, è una idea puramente burocratico – comunistica. Tanti sono socialisti senza saperlo; come tanti che si dissero socialisti o furono a capo di movimenti operai contro gli industriali erano invece di fatto puri liberali. Un industriale è liberale in quanto crede nel suo spirito di iniziativa e si associa con i suoi colleghi per trattare con gli operai o per comprare o vendere in comune; è puro socialista quando chiede allo stato dazi protettivi. L’operaio crede nella libertà ed è liberale quando si associa ai compagni per creare uno strumento comune di cooperazione o di difesa; è socialista quando invoca dallo stato un privilegio esclusivo a favore della propria organizzazione, o vuole che una legge o la sentenza del magistrato vieti ai crumiri di lavorare. Liberale è colui che crede nel perfezionamento materiale o morale conquistato collo sforzo volontario, col sacrificio, colla attitudine a lavorare d’accordo con altri; socialista è colui che vuole imporre il perfezionamento con la forza, che lo esclude se ottenuto con metodi diversi da quelli da lui preferiti, che non sa vincere senza privilegi a favor proprio e senza esclusive pronunciate contro i reprobi. I nomi non contano: l’ideale rimane quello che esso è intrinsecamente, qualunque sia la denominazione sua esteriore.
Oggi, il problema operaio in Italia ha cambiato nome: invece di federazioni o di camere del lavoro rosse o bianche o gialle, si parla di corporazioni fasciste. Quale è il contributo sostanziale che esse hanno recato al problema del lavoro? Parlo dei principi, non dei particolari. Non ha importanza il fatto che in parecchi casi le corporazioni si comportino nello stesso modo delle antagoniste rosse; che anch’esse usino talvolta violenze contro gli avversari o contro i crumiri o gli adepti di altre fedi; che esse pronuncino anatemi o boicottino altrui od ambiscano a monopoli. Queste possono essere accidentalità passeggere, non connaturate alla dottrina. Quale sia questa dottrina io tenterei di chiarire così:
«Il principio della lotta fra le due classi degli imprenditori e degli operai è nocivo alla produzione. Ognuno dei due combattenti immagina di poter raggiungere un massimo di vantaggio distruggendo ed espropriando l’avversario. L’imprenditore tenta di ridurre l’operaio al salario minimo; l’operaio vorrebbe annullare il reddito del capitale. In conseguenza della lotta e della sopraffazione dell’una parte sull’altra, sono alla lunga danneggiate ambedue ed è danneggiata sovratutto la nazione. Diminuisce la produzione ed impoverisce perciò la collettività; lo stato si indebolisce verso l’estero e si sgretola all’interno. La corporazione sorge per combattere questa politica suicida. Col suo medesimo nome essa afferma l’idea della costruzione, dell’ossequio al principio superiore della nazione, al quale gli egoismi particolari di classe debbono sacrificarsi. La corporazione non sacrifica l’operaio all’imprenditore; né l’imprenditore all’operaio; essa vuole riunire in una sintesi superiore le due rappresentanze finora ostili. Le corporazioni operaie e quelle padronali debbono rimanere distinte e indipendenti l’une dall’altre; ma, pur tutelando i propri interessi, ognuna di esse deve essere consapevole della necessità di non offendere l’industria, di non indebolire la nazione. Se le due corporazioni non sanno trovare la via dell’accordo fecondo, vi deve essere chi, nel momento critico, pronunci la parola risolutiva, dichiari la soluzione giusta alla quale tutti debbono inchinarsi».
«L’arbitro non deve avere la mentalità né dell’operaio né dell’imprenditore. Deve essere l’uomo che s’inspira alle necessità nazionali, che è educato nella dottrina del sacrificio del presente all’avvenire, che sa ricomporre in sintesi le vedute e gli interessi discordanti delle due parti unicamente intese al guadagno immediato».
La dottrina ora esposta è una nuova formulazione, con linguaggio mutato, di teorie le quali si sono di volta in volta sforzate di ritrovare l’unità perduta attraverso i conflitti fra uomini e classi. Le armonie economiche di Bastiat, la teoria dell’equilibrio economico, non sono forse anche tentativi di sintesi, sforzi per vedere il punto nel quale sul mercato, per un attimo, le forze si equilibrano e si raggiunge un risultato che può essere di massima felicitazione della collettività? Gli economisti come è loro costume, parlano di equilibrio, di prezzi, di mercato, di massima soddisfazione. I teorici delle corporazioni parlano di nazione e di soggezione delle classi alla volontà superiore che incarna l’interesse della nazione. Il linguaggio formale è diverso, il contenuto sostanziale è uguale.
Il problema non è di negare l’equilibrio fra le forze contrastanti; cosa che sarebbe assurda. È di trovare il metodo col quale quell’equilibrio possa essere raggiunto col minimo costo, colla minore superficie di attrito. Non è neppure necessario all’uopo scegliere l’una formula più che l’altra: purché l’equilibrio si raggiunga, possono riuscire utili le contrattazioni dirette, le leghe, le corporazioni, l’arbitrato, perfino il colpo di sterzo dell’uomo posto in situazione di autorità per togliere le parti dal punto morto in cui si erano cacciate. L’ideale della nazione o quello dell’interesse collettivo, l’aspirazione cooperativa o quella partecipazionistica sono tutte formule atte a condurre all’equilibrio. Ma tutte sono pure armi strumentali le quali sono vive e feconde soltanto quando siano adoperate in condizioni favorevoli.
Quali siano queste condizioni non si può dire in modo tassativo. Ne enumero alcune tra le più caratteristiche.
È preferibile l’equilibrio ottenuto attraverso a discussioni ed a lotte a quello imposto da una forza esteriore. La soluzione imposta dal padrone, dal governo, dal giudice, dall’arbitro nominato d’autorità, può essere la ottima; ma è tenuta in sospetto, appunto perché viene da altri. L’uomo vuole sapere perché si decide e vuole avere la illusione di decidersi volontariamente. Bisogna lasciare rompersi un po’ le corna alla gente, perché questa si persuada che lì di contro c’è il muro e che è vano darvi di cozzo. Nella lotta e nella discussione si impara a misurare la forza dell’avversario, a conoscerne le ragioni, a penetrare nel funzionamento del congegno che fa vivere ambi i contendenti.
L’equilibrio stabile è più facilmente raggiunto dal tecnico che dal politico. Affidare cioè la risoluzione delle questioni del lavoro al ministro, al prefetto, al fiduciario fascista od al deputato conservatore illuminato, è indizio di scarsa educazione industriale. La soluzione, a cui il politico tende, è in funzione dell’equilibrio politico, non di quello economico. Entrano in gioco fattori di tranquillità esteriore, di accaparramento elettorale, di propiziazione di gruppi politici. Poiché l’equilibrio in funzione di fattori puramente economici sarebbe diverso, l’una o l’altra delle parti o tutt’e due cercano una compensazione alla perdita che debbono sopportare in favori economici ottenuti dal potere politico: all’equo trattamento corrisponde un aumento dei sussidi chilometrici, al controllo operaio sulle fabbriche tien dietro la tariffa doganale del luglio 1921, le piccole concessioni strappate da prefetti amanti del quieto vivere sono dolcificate dalle commende e dalle chincaglierie cavalleresche di cui, non si sa perché, gli industriali sono ghiottissimi. Non accade che l’offesa all’equilibrio economico duri. Qualcuno paga sempre il costo dell’offesa.
L’educazione dei tecnici capaci della soluzione dei problemi del lavoro si fa attraverso la lotta, tanto meglio quanto più questa è aperta e leale. Orator fit. Il buon arbitro non si fa sui libri, nei comizi elettorali, nella pratica prefettizia, non nei partiti, nei fasci, nei parlamenti. Solo l’operaio della miniera o della officina sente la vita del lavoro; solo l’industriale sente la gloria ed ha l’orgoglio della impresa. Troppi avvocati, troppi politicanti, troppi uomini abili, accomodanti, soluzionisti hanno rovinato il movimento operaio italiano. Ci sono stati troppo pochi uomini rudi, pronti a sbranarsi, ma pronti anche a sentire quel che in fondo al loro animo c’era di comune: l’amore al lavoro compiuto, l’orgoglio del capolavoro, il desiderio di metterlo al mondo perfetto. Solo discutendo faccia a faccia, queste due razze di uomini possono giungere a riconoscere le proprie sovranità rispettive: l’uno sulla direzione, sulla organizzazione e sulla invenzione della impresa, l’altro sulla propria forza di lavoro. La sovranità sui mattoni, sulle macchine, sulle merci non conta. È cosa morta, la quale vive soltanto perché l’organizzatore ed il lavoratore apprezzano e fanno valere quel che ognuno di essi apporta di proprio nell’opera comune. È bene che ognuno custodisca gelosamente l’esclusivo dominio sul proprio compito, che è, per l’imprenditore, di organizzare l’impresa e per l’operaio di prestare la propria opera manuale ed intellettuale. È bene che ognuno risenta vivamente l’ingerenza altrui nel proprio campo. Gli imprenditori sfiaccolati, che si rassegnano a lasciarsi controllare dai propri dipendenti, gli operai privi di orgoglio, i quali affidano la tutela del proprio lavoro a fiduciari non usciti dalle proprie file, sono mezzi uomini. Con questi omuncoli non si costruisce per l’avvenire. Si guadagnano forse denari, ma non si innalza l’edificio dell’industria, non si cresce valore alla personalità umana.
Perché l’equilibrio duri, è necessario che esso sia minacciato ad ogni istante di non durare. Chi vorrà leggere le pagine di questo libro, vedrà quanto sia antica la mia repugnanza verso i monopoli industriali ed operai. Ad un certo momento, le leghe rosse, accortesi di essere diventate potenti in un mondo di vili borghesi, frammezzo a magistrati prontissimi a rendere servigi invece che a dare sentenze, vollero essere sole padrone del lavoro: negarono ai bianchi ed ai gialli il diritto di esistere, si arrogarono il diritto esclusivo di eleggere rappresentanti nel consiglio superiore del lavoro e si apprestarono a negare il diritto del parlamento a correggere le decisioni del consiglio del lavoro caduto in loro mani. Fu il segnale della loro rovina. Oggi le corporazioni fasciste paiono avviarsi a commettere il medesimo errore. Anch’esse negano il diritto all’esistenza dei rivali sconfitti e ad uno ad uno li espellono dalle cooperative, dalle camere del lavoro, dai consigli del lavoro, dal parlamento. Solitudinem faciunt et pacem appellant. Anche ora, e sovratutto ora, bisogna negare che l’equilibrio esista nel monopolio, nella soppressione di diritto o di fatto degli avversari. Ho descritto, nei primi saggi di questo volume, gli sforzi che nel 1897 e nel 1900 compievano alcuni gruppi di operai italiani. A tanta distanza di tempo, riandando coi ricordi a quegli anni giovanili, quando assistevo alle adunanze operaie sui terrazzi di via Milano in Genova, o discorrevo alla sera in umili osterie dei villaggi biellesi con operai tessitori, mi esalto e mi commuovo. Quelli furono gli anni eroici del movimento operaio italiano. Chi vide, raccapricciando, nel 1919 e nel 1920, le folle briache di saccheggio e di sangue per le vie delle grandi città italiane, non riconobbe i figli di quegli uomini, che dal 1890 al 1900 nascevano alla vita collettiva, comprendevano la propria dignità di uomini ed erano convinti di dover rendersi degni dell’alta meta umana a cui aspiravano. Lo spirito satanico della dominazione, inoculato da politicanti tratti dalla feccia borghese, li travolse e li trasse a rovina. Perché l’equilibrio duri, bisogna che esso sia continuamente in forse. Bisogna che nessuna forza legale intervenga a cristallizzare le forze, ad impedire alle forze nuove di farsi innanzi contro alle forze antiche, contro ai beati possidentes. Perché gli industriali rendano servigi effettivi alla collettività, fa d’uopo che lo stato non dia ad essi il privilegio di servire la collettività, non li tuteli con i dazi protettori contro la concorrenza straniera; non li costituisca in consorzi a cui la gente nuova non possa aspirare. Perché gli operai si innalzino moralmente e materialmente, importa che ad ogni istante gli organizzatori rossi possano sfidare i bianchi e questi i rossi ed i fascisti amendue e con essi i gialli e tutti siano sotto l’incubo del sorgere di altri miti organizzativi. È diventato di moda oggi irridere alla pretesa di suscitare la concorrenza nel mondo delle organizzazioni padronali ed operaie; e si addita l’esempio delle corporazioni fasciste, le quali, nimicissime del monopolio sinché questo era tenuto dai rossi, ora che ne hanno la forza, lo pretendono per sé. E si vuol dimostrare che ciò non è solo frutto di prepotenza politica, ma di esatto calcolo economico, poiché solo coll’unicità e col monopolio della organizzazione possono gli operai ottenere il massimo di guadagno. Su di che non occorre disputare; poiché di ciò non si tratta.
Instaurino pure, se ci riescono, operai ed imprenditori, il monopolio del lavoro e dell’impresa. Ciò che unicamente si nega è che lo stato sanzioni legalmente il monopolio medesimo, vietando ad altri di combatterlo e di distruggerlo, ove ad essi basti il coraggio. Il punto fermo è questo, non quello della convenienza del monopolio. Finché il monopolio, padronale od operaio, è libero, finché è lecito a chiunque di criticarlo e di tentare di abbatterlo, può esso recare qualche danno; ma è danno forse non rilevante e transitorio. La condizione necessaria di un equilibrio duraturo, vantaggioso per la collettività, vantaggioso non solo agli industriali ed agli operai organizzati, ma anche a quelli non organizzati, non solo a quelli viventi oggi, ma anche a quelli che vivranno in avvenire, non è l’esistenza effettiva della concorrenza. È la possibilità giuridica della concorrenza. Altro non si deve chiedere allo stato, se non che ponga per tutti le condizioni di farsi valere, che consenta a tutti la possibilità di negare il monopolio altrui. La possibilità giuridica della negazione dà forza al monopolio, se utile davvero al gruppo e forse alla collettività, poiché la sua persistenza, contro alla libertà di ognuno di combatterlo, è la sola dimostrazione persuasiva della sua ragione di vivere. Qual merito o qual virtù si può riconoscere invero a chi, per vivere, fa appello alla spada del braccio secolare?
In verità poi, le organizzazioni, quando non siano rese obbligatorie dallo stato, non conservano a lungo il monopolio. La storia dei consorzi industriali e delle leghe operaie è una storia caleidoscopica di ascese, di decadenze, di trasformazioni incessanti. Ad ogni momento debbono dimostrare di meritare l’appoggio dei loro associati. Ed è impossibile, non aiutando il braccio secolare, che questa dimostrazione sia data a lungo. Gli uomini sono troppo egoisti o cattivi o ignari perché, trovandosi a capo di una organizzazione potente, non soccombano alla tentazione di trarne profitto per sé, a danno dei propri rappresentati o non si addormentino nella conseguita vittoria o non tiranneggino i reietti dal gruppo dominante. A rendere di nuovo l’organizzazione viva, operante e vantaggiosa agli associati ed agli estranei, uopo è che essa sia di continuo assillata e premuta da rivali di fatto o dal timore del loro nascere. L’equilibrio, di cui parlano i libri di economia, la supremazia della nazione a cui si fa oggi appello non sono ideali immobili. Essi sono ideali appunto perché sono irraggiungibili; appunto perché l’uomo vive nello sforzo continuo di toccare una meta, la quale diventa, quando pare di averla raggiunta, più alta e più lontana. L’equilibrio consiste in una successione di continui mai interrotti perfezionamenti, attraverso ad oscillazioni, le quali attribuiscono la vittoria ora a questa, ora a quella delle forze contrastanti. La gioia del lavoro per l’operaio e della vittoria per l’imprenditore, sta anche nel pericolo di perdere le posizioni conquistate e nel piacere dello sforzo che si deve compiere per difenderle prima e per conquistare poi nuovo terreno. Tolgasi il pericolo, cessi il combattimento, e la gioia del vivere, del possedere, del lavorare diventa diversa da quella che è sembrata gioia vera agli uomini dalla rivoluzione francese in poi. Non che la “quiete” di chi non desidera nulla, fuorché godere quel che si possiede, non possa essere anche un ideale e che la sua attuazione non sia bella. Ho descritto in un capitolo di questo libro la vita felice del lazzarone napoletano nel meraviglioso secolo XVIII, che fu davvero l’età dell’oro della contentezza di vivere, del buon gusto, della tolleranza e dell’amabilità. Purtroppo la natura umana è cosiffatta da repugnare alla lunga al vivere quieto e tranquillo. Se questo dura a lungo, è la quiete della schiavitù, è la mortificazione dello spirito. Alla quiete che è morte è preferibile il travaglio che è vita.