Opera Omnia Luigi Einaudi

Ci sono troppe banche in Italia?

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1930

Ci sono troppe banche in Italia?

«La Riforma Sociale», luglio-agosto 1930, pp. 356-364

«Rivista bancaria. Minerva bancaria», 1930, pp. 817-825

Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, parte II, pp. 180-199

 

 

 

1. – Nella relazione del governatore della Banca d’Italia per il 1929 si leggono interessanti notizie intorno al numero ed alla mortalità degli istituti bancari italiani. Quelli vivi alla fine del 1927 erano 4.405; il numero si riduceva a 4.197 alla fine del 1928 ed a 4.079 al 28 febbraio 1930, con una diminuzione di 208 nel 1928 e di 118 nel 1929 e nei primi due mesi del 1930. In realtà la diminuzione è stata ancor maggiore, poiché nei primi anni dell’applicazione dei decreti del 7 settembre 1926, n. 1511, e del 6 novembre 1926, n. 1830, i quali istituivano una sorveglianza governativa, affidata alla Banca d’Italia, sugli istituti di credito, parecchi enti erano sfuggiti alle rilevazioni della Banca, né avevano chiesto la prescritta iscrizione all’albo presso il ministero delle finanze. Ad esempio, la diminuzione di 118 istituti avvenuta nei 14 mesi dall’1 gennaio 1929 al 28 febbraio 1930 è risultata dal seguente movimento:

 

 

Enti i quali volontariamente si inibirono la raccolta di depositi……………………….

180

Enti i quali hanno definitivamente cessato l’esercizio…………………………………..

63

 

Enti preesistenti e individuati nel frattempo…………………………………………………

121

Enti nuovi……………………………………………………………………………………………….

4

 

125

125

 

118

 

 

La mortalità delle banche è dunque altissima da un anno all’altro, la natalità potendosi praticamente considerare uguale a zero.

 

 

La diminuzione corrisponde ad una tendenza che lo Stringher nella relazione all’assemblea del 1929 aveva definito come «graduale semplificazione dell’organizzazione bancaria, vivamente auspicata da coloro che sono preposti alla tutela del risparmio» (pag. 56).

 

 

L’impressione è che le imprese di credito, divise al 28 febbraio 1930 così:

 

 

1411 istituti, banche e banchieri
239 casse di risparmio, monti di pietà, casse comunali di credito agrario e simili
2429 casse rurali e altri enti cooperativi a responsabilità illimitata

 

 

siano ancora troppe. Nella relazione all’assemblea del 1930 lo Stringher rammenta «come la Banca d’Italia, di fronte al numero veramente pletorico di aziende di credito esistente, abbia ritenuto di dovere assecondare, in massima, i concentramenti bancari, quante volte la struttura degli istituti desse affidamento di ottenere un organismo veramente più forte e più vitale. E ciò non soltanto per favorire la riduzione delle spese generali, ma anche per attenuare la concorrenza per l’accaparramento dei depositi, che si riverbera su i saggi di interesse» (pag. 46).

 

 

2. – Quel che lo Stringher dice con assai misurata parola, fu assunto da qualche pubblicista a principio: pochi e forti invece di molti e deboli istituti di credito.

 

 

Qui si vuole esporre un dubbio: è vero che l’aggettivo «debole» si accompagni necessariamente o generalmente alla circostanza dell’essere molti e quindi piccoli gli istituti di credito e che i «forti» siano i pochi ossia i grossi? Ed è perciò conveniente che la politica bancaria ostacoli, in principio, la creazione di nuove banche e veda di buon occhio la concentrazione o fusione degli istituti esistenti?

 

 

So che, nel momento attuale, è di moda in tutto il mondo discorrere di «razionalizzazione» ed assumere questa brutta parola, usata per indicare il vecchissimo concetto del «ridurre i costi di produzione», come sinonimo dell’altra parola di concentrazione. Il far grande pare equivalente al far bene. Di qui la mania universale dei cartelli, dei consorzi, dei trusts, dei giganti. È una mania e passerà.

 

 

3. – Frattanto, rileggiamo Stringher quando nella relazione all’assemblea del 1929 finemente esponeva la cagione fondamentale degli infortuni bancari, i quali si sono succeduti in Italia dopo il 1920: «La facilità con la quale era possibile di raccogliere depositi in regime di inflazione cartacea aveva fatto sorgere numerose banche sfornite di capitali effettivi adeguati, e fors’anche di dirigenti capaci. Essa aveva spinto vecchie e nuove aziende a estendere senza misura l’azione rispettiva, impiantando costose dipendenze, con lo scopo di assorbire biglietti di banca, anche se a saggi di interesse molto alti; e assorbirli sotto tutte le forme possibili di depositi fiduciari. Si determinò così, in vari luoghi, un afflusso di somme cospicue nelle casse di banche e banchieri, i quali si avventurarono in operazioni speculative, immobilizzando capitali e, spesso, pregiudicando le ragioni altrui» (pag. 53).

 

 

Qui non si accusa il numero grande e la piccolezza delle banche; ma, con giusto senso di osservazione, si afferma che la causa dei disastri bancari furono gli spropositi ed i malanni commessi da gente inesperta ed avventata in tempi di gonfiatura monetaria. Ma spropositi e malanni possono essere commessi da piccoli e da grossi banchieri. Forse che non è fallita (tecnicamente si inventò allora un surrogato del fallimento, ma la sostanza è la stessa) la Banca italiana di sconto, che era un colosso, con ramificazioni estese e un numero fantastico di sedi, filiali, agenzie, ecc., e forseché non è di dominio comune che un’altra grande banca, il Banco di Roma, riacquistò l’antica liquidità perché lo Stato fece assumere al Consorzio valori, ossia ai contribuenti, qualche miliardo di immobilizzazioni? Di fronte a questi due casi l’onere della prova spetta a chi afferma la tesi che le crisi bancarie siano dovute al gran numero e alla picciolezza degli stabilimenti bancari. A me, storicamente, la tesi pare sbagliata di sana pianta.

 

 

4. – La tesi vera è che in queste faccende non si può «generalizzare». Le fusioni di due o più banche o casse di risparmio in una sola non da sempre buoni risultati. Nell’occasione dei soliti commenti dei laici pubblicisti intorno alla fusione di quella che è ora la maggior banca degli Stati Uniti The Chase National Bank con la The Mechanics and Metals National Bank, il signor A. H. Wiggin, presidente della Chase, nel gennaio 1927 osservò: «Questa fusione, venuta dopo analoghe fusioni verificatesi negli ultimi due o tre anni ha indotto taluno a concludere che esse sono d’attualità e che logicamente si va verso poche e più grosse banche. Non sono disposto ad accettare questa tesi senza riserva e non vorrei che la nostra fusione fosse considerata solo sotto tale rispetto. È significativo che, mentre hanno luogo fusioni, d’altro canto sorgono ed operano bene nuove banche di dimensioni moderate. Una fusione può mettere insieme organizzazioni che non possono lavorare tra di loro in armonia e tentano di accomunare interessi incompatibili. Ogni caso deve essere considerato per sé. Fusioni compiute a casaccio solo per potere scrivere cifre grosse non assicurano un buon funzionamento di banca»[1].

 

 

L’Anderson, pur essendo dichiaratamente alieno dall’affermare la preferibilità del sistema americano delle 25 mila banche indipendenti in confronto del sistema inglese delle big five, dei cinque soli attorniati da pochissimi altri pianeti, non sa trattenersi dal notare i pericoli delle fusioni decise artificiosamente, per ovviare ai danni di una crisi economica, senza che siano derivate quasi spontaneamente dalla constatazione di una vera comunanza di interessi e preparate da un affiatamento di anni fra i dirigenti.

 

 

5. – Le fusioni possono essere l’indice di un metodo pericoloso di liquidare le crisi industriali.

 

 

Negli Stati Uniti, la cooperazione fra le banche ordinarie, sotto l’egida delle banche federali di riserva impedì che la crisi del 1920-1921 degenerasse in una rotta. Lo impedì di nuovo al cadere del 1929. Ma non impedì che la crisi fosse liquidata. Ogni Banca poté trovare aiuto nelle banche corrispondenti dei centri più grossi e queste nelle banche federali di riserva; ma aiuto sano, mercé quello che da noi si direbbe il risconto di buona carta commerciale. Ogni banca dovette lavare in casa i propri panni sporchi. Niente immobilizzazioni scaricate su spalle più forti. «In un tempo stupefacentemente breve noi eliminammo i punti deboli, riaggiustammo prezzi e costi, digerimmo le nostre perdite, riducemmo le passività ad un rapporto ragionevole con le attività e ci tenemmo pronti per il prossimo moto all’insù negli affari. Gli affari volsero al bello nel terzo trimestre del 1921 ed il 1992 fu anno di forte ripresa».

 

 

Nel Giappone invece l’usanza è di arginare le crisi, sotto la pressione del governo, ansioso di evitare fallimenti e catastrofi. I crediti immobilizzati sono assunti da banche riunite in consorzio, cosicché le imprese industriali vacillanti, sono tenute in piedi sino al momento in cui possano essere assorbite da complessi industriali cosidetti grandiosi. Dal 1920 «le posizioni deboli», – osserva l’Anderson – «non liquidate furono così prorogate, nonostante una liquidazione parziale al tempo del terremoto nel 1923, fino alla grande crisi del 1927, quando alcune grandi banche dovettero andare a fondo. Il Giappone durò sette anni di ristagno negli affari nel vano sforzo di evitare perdite che il nostro (americano) sistema di banca ci costrinse a liquidare subito nel 1920 e nel 1921. Il Giappone non è il solo paese in cui la concentrazione bancaria ha indebitamente rese lente le necessarie liquidazioni. Quando molte migliaia di banche indipendenti devono indipendentemente ogni giorno far fronte agli impegni alla stanza di compensazione, è impossibile prolungare gli errori economici tanto a lungo come quando poche grandi banche dominano il mercato. Nell’interesse della elasticità della vita economica, bisogna tener viva una vigorosa concorrenza sia nelle banche che negli affari e per ottenere siffatto risultato fa d’uopo esista un gran numero di unità indipendenti» (nono, 5, pag. 11).

 

 

6. – Parole di ovvio buon senso, che fa bene sentir ripetere da un peritissimo di banca a tutti coloro i quali infantilmente credono che gli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Germania siano divenuti economicamente potenti grazie alla politica degli accordi, delle intese, della cooperazione, della concentrazione. Si, tutte queste belle cose sono fattori di successo. Fino ad un certo punto però; sino a quando esse non frappongano ostacoli all’azione dei fattori altrettanto necessari della lotta, della rivalità, della concorrenza, del sentirsi soli, come appestati, quando si sono commessi spropositi, del non sperare mai di accollare le conseguenze dei propri errori ad altri, al pubblico, ai contribuenti.

 

 

7. – Della cosa i cartelli per comunicarsi i fidi aperti ai clienti, in modo che nessun cliente possa, ottenendo aperture di credito da parecchie banche, non comunicanti tra di loro, far debiti al di là della propria solvibilità. Ma è altrettanto bello e sostanzialmente più sicuro che ogni banca, senza impacciarsi di quel che fanno le altre, pretenda dai suoi clienti che una volta all’anno la posizione sia attiva. In questo modo la banca si assicura che quando il cliente tornerà ad andare in debito, ciò accadrà per operazioni nuove e non per strascico di operazioni antiche che si trascinano di anno in anno e faticosissimamente si decurtano di percentuali modeste. Il cliente, sarà forse obbligato a tenere conti aperti presso parecchie banche. Non si vede dove sia il male. Due o tre o cinque paia di occhi saranno aperti sui fatti suoi; ed egli sarà costretto a dimostrare a molti invece che ad uno solo la propria liquidità. Egli non sarà legato ad una sola banca; e nemmeno una sola banca sarà legata a lui. L’esclusivismo che porta a legare insieme l’industriale e la banca, non è vantaggioso né per l’uno né per l’altra. La conseguenza probabile è di obbligare il banchiere a far l’industriale e l’industriale, specie se grosso e male attrezzato in punto di denaro, a conquistare le banche. Con tutto l’ossequio verso coloro i quali se ne fanno paladini per spirito di imitazione verso esempi tedeschi probabilmente male intesi, i vincoli troppo stretti ed esclusivi fra industria e banche preludiano a patologiche immobilizzazioni od a tentativi di scalate alle banche.

 

 

8. – Bellissima cosa un sistema di sedi e filiali ramificate in tutto il paese da un centro all’altro, il quale raccolga da ogni luogo i depositi e li redistribuisca dove essi siano impiegati nel modo più fecondo. L’accusa ordinaria rivolta al sistema delle poche banche grosse ed accentrate: di pompare il risparmio delle regioni agricole e dei piccoli centri e di riversarlo a favore dell’industria situata nei centri più grandi e della speculazione di borsa è spesso infondata. Se la creazione delle filiali è il frutto di un lento sano perfezionamento dell’organismo centrale, della formazione di un personale affiatato ed esperto, se a capo della filiale locale vi è un uomo capace, può darsi che il piccolo centro agricolo, ottenga, nei momenti del bisogno, dalla sede centrale l’uso di una massa di risparmio maggiore di quella dei depositi locali e maggiore di quella che il banchiere indipendente avrebbe giudicato prudente di impiegare in loco. Non si possono enunciare dogmi in questa materia, che non è di teoria pura, ma di contingenze concrete. Una grande banca, la quale abbia un personale di prim’ordine, che lo sappia distribuire, a seconda delle attitudini, nei piccoli e nei grandi centri, in città e in campagna, non farà che alcuno lamenti la scomparsa del banchiere locale, il quale conosceva ad uno ad uno i suoi clienti, li aiutava nei limiti della convenienza e della prudenza e fecondava coi risparmi locali le iniziative locali.

 

 

9. – Altre banche, grandi e medie, sono invece purtroppo note per avere molte filiali ed agenzie, incaricate di pompare i risparmi locali coll’offerta di interessi allettanti e di riversarli alla sede centrale. Il primo e minor male prodotto da questo tipo di banche è l’isterilimento delle iniziative locali, l’utilizzazione dei risparmi della piccola gente e degli agricoltori a pro dei grossi industriali e degli operatori di borsa, il trasporto dei risparmi delle regioni arretrate (in Italia leggi «mezzogiorno») a favore delle regioni più avanzate (leggi «triangolo ligure- lombardo – piemontese»). Dico che questo è il minor male, perché spesso lo si esagera e non di rado è economicamente conveniente impiegare il denaro dei depositanti nel modo più remunerativo e sicuro. Il maggior male si ha quando il pompamento dei risparmi minuti e locali è cagionato dalla necessità di gittare le decine e le centinaia di milioni nella voragine di qualche grossa iniziativa in cui il centro si è ingolfato. Per citare solo esempi storici passati, si ricordi la Banca italiana di sconto ed il castello di carta da essa edificato, coi miliardi dei depositanti, attorno al colosso improvvisato dell’Ansaldo.

 

 

10. – Il banchiere locale soffre certamente di qualche svantaggio in confronto della grande banca rispetto alla varietà e liquidità degli impieghi. La grossa banca con molte filiali può diversificare gli impieghi e compensare meglio i rischi. Non tutte le industrie, non tutte le imprese soffrono ugualmente e nel medesimo momento le stesse disavventure. Invece il banchiere locale per lo più si trova dinnanzi una sola o pochissime industrie. I suoi clienti sono viticultori, oppure risicultori od allevatori di bestiame o formaggiai o fabbricanti di conserva di pomodoro. Ovvero, nella sua zona industriale domina l’industria della lana o del cotone. Se la lana va male o i formaggi non si vendono od i pomodoro ed il riso attraversano una fiera crisi, il portafoglio del banchiere locale può trovarsi malamente immobilizzato.

 

 

Verissimo: ma se si bada bene, la colpa non è dell’essere costui un piccolo banchiere, ma dell’essere egli un asino o un ingordo. Se si analizzano uno ad uno a fondo i fallimenti dei piccoli banchieri si deve riconoscere che ingordigia ed asinità furono le vere cause della rovina. L’ingordigia li mosse ad impiegare troppa parte dei loro depositi in anticipi suppongasi, su mele ancora in fiore nei frutteti per la speranza di partecipare agli utili della speculazione sulle mele. Naturalmente, poiché in questo modo si finisce di produrre troppe mele, vanno a gambe all’aria produttori di mele e banchieri mutatisi in giocatori al rialzo di mele invendibili. L’asinità li fece dimentichi dei canoni elementari della pratica bancaria, i quali consigliano a non mettere tutti i denari, specie i denari degli altri, in un solo impiego, a restringere gli anticipi quando si vedono i prezzi salire e la gente ammattita giurare su una industria favorita. Forseché, però, ingordi ed asini sono solo i banchieri piccoli? Forseché gli errori di un grosso non producono conseguenze più grandiosamente tragiche degli errori di cento piccoli?

 

 

Se è uomo prudente, il banchiere di provincia ha oggi modo di diversificare i suoi impieghi altrettanto bene della banca della metropoli è certo meglio di venti o cinquant’anni fa. In poche parole si può recare nelle grandi città, assumere informazioni riservate, conoscere la tendenza dei mercati. Col telefono, può collocare, a mezzo e colla garanzia di agenti di cambio solvibilissimi, – che oggi anche in Italia hanno dimostrato di non aver fatto perdere nulla alla clientela e di avere anzi ridotto a percentuali trascurabili le perdite che la clientela s’era procacciato per la storditaggine di negoziare con gente notoriamente decotta – a breve scadenza somme cospicue a riporto su titoli di prim’ordine. Se non pretenda di guadagnare più dell’1 per cento netto da spese sui suoi depositi, il banchiere locale, il quale maneggi da cinque a dieci milioni di depositi, può, integrando il margine sui depositi col lucro dei cento altri servizi di incasso, di tratte, di compra-vendita di titoli per conto dei clienti, mettere insieme un guadagno professionale assai ragionevole e rendere servizi utilissimi ai clienti locali. I guai nascono quando egli si lasci tentare da margini del 3 e del 4%, e quando, invece di contentarsi di locali e personali modesti, dotati dei necessari attributi di comodità e riservatezza per i clienti, vuol far colpo e spende troppo in uffici, in impiegati, in automobili e simili. Ma il guaio delle percentuali di spese troppo grosse e del lusso tormenta oggi anche le grandi banche; sicché la «razionalizzazione», se voglia dire economia e buon uso del soldo, a buona ragione è una parola di moda anche per esse.

 

 

11. – Forse un eccesso di numero si può con una certa fondatezza supporre per le 2.429 casse rurali e gli altri enti cooperativi a responsabilità illimitata. Don Cavallotti, la Cassa di Bagnolo, le sue mele marce ed i disgraziati contadini i quali versando una lira e facendo una firma credevano di mettere il visto alla ricevuta della lira e diventarono soci responsabili illimitatamente e solidamente di un megalomane: ecco l’ultimo esempio che fa riflettere e dubitare. Il vizio delle casse rurali e che esse debbono essere fondate da apostoli, disposti a lavorare disinteressatamente nell’interesse altrui. Senza dubbio vi sono apostoli che hanno fiuto negli affari, conoscenza di uomini, perizia delle cose mondane. I nomi dei Cottolengo e dei Don Bosco corrono da sé alle labbra. Quali meravigliose creazioni economiche, le quali attendono ancora lo storico – economista che ne narri le gloriose vicende, furono le opere che si fregiano del nome di quei due gran santi! Per fondare ed amministrare bene una cassa rurale non occorre certamente essere un santo, bastando l’amore del prossimo, lo spirito di abnegazione, congiunto a buon senso e perizia di uomini. Una cassa rurale in un piccolo centro può fare del gran bene. I nostri parroci, figli per lo più di contadini, hanno spesso buon senso e capacità concreta. Ve n’ha però non pochi, che sono troppo buoni e facili a lasciarsi abbindolare. Preti e vecchie zitelle sono sempre stati, in tutti i paesi del mondo, anche in quelli protestanti, le vittime preferite dei cavalieri d’industria. Ad occhi chiusi, come fanno i semplici, fidando nella divina provvidenza, con la fede inconcussa che spezza le montagne, si gittano in avventure finanziarie mirabolanti. Tuttociò non è detto per invocare provvidenze legislative atte a disciplinare le casse rurali; ne vigilanze vessatorie particolari. Più che in altri campi, l’opera dei sorveglianti deve essere inspirata ad un grande tatto. Bisogna non scuotere la fiducia che la gente semplice delle campagne giustamente ripone in chi quasi sempre la merita. Bisogna non seminare di triboli e di scartoffie una via per sè già abbastanza spinosa. Farsi amici dei dirigenti, impartire, senza averne l’aria, tra l’una e l’altra partita di boccie, lezioni di pratica bancaria, fare intervenire a tempo i vescovi prima che le cose si incamminino male: ecco ciò che dovrebbero fare i missi dominici della Banca d’Italia. Ma ecco ciò che evidentemente non può rientrare entro i quadri di un’azione ufficiale di sorveglianza. Le casse rurali, se vogliono seguitare a fare il bene di che sono capaci, debbono trovare in se stesse, nelle loro proprie organizzazioni l’autorità morale ed i mezzi di eliminare le poche pecore rognose ed i non molti, ma più numerosi uomini di troppo buon cuore, che talvolta procacciano al loro ordine dispiaceri e compatimento.

 

 

12. – Grosse e piccole banche sono, per concludere, non valori incompatibili fra di loro, ma piuttosto complementari. Il mondo non è né dei grossi né dei piccoli esclusivamente, ma dei grossi, dei piccoli e dei medi nel tempo stesso. Ci può essere una circolazione utilissima fra tutte le categorie di banchieri. Perché impedire al bravo impiegato di una filiale locale di una grossa banca, il quale abbia imparato a conoscere intimamente la clientela del luogo e ne riscuota la fiducia, di mettersi per conto proprio? Egli non ha la stoffa del dirigente il grande istituto con miliardi di depositi; ma ha l’iniziativa, la prudenza ed il saper fare occorrenti per fare prosperare una banca locale. Perché negargli in base ad un ridicolo canone di dannosità delle banche piccole, di mettere su una banca indipendente? L’esigenza di un minimo di capitale può star bene; ma la esigenza di un minimo spropositato di 5 milioni di lire, per una banca che forse non avrà e non è necessario abbia per lavorare fruttuosamente altrettanti milioni di depositi vieta ad energie feconde di farsi apprezzare e di produrre incrementi di ricchezza.

 

 

D’altro canto le piccole banche indipendenti possono essere utilissime per la formazione dello stato maggiore delle grandi banche. Non sempre i giovani promettenti e capaci che si impiegano in fresca età nelle grandi banche riescono a farsi valere. Sono stati in sul bel principio addetti ad un lavoro specializzato e rimangono piccoli in quello, talvolta per tutta la vita. La mancanza di una occasione iniziale ha impedito ad essi di farsi apprezzare per quel che valgono. In una banca piccola e media, le occasioni di imparare e di salire sono più frequenti. Il giovane necessariamente finisce a dover fare un po’ di tutto. Il tatto, la capacità, la intuizione di uomini, vengono a galla. Essendo in pochi, capiterà a lui qualche volta di dovere entrare in rapporti di affari con i dirigenti di altre banche ed anche di grossi istituti. Attraverso a questi contatti, potrà nascere l’occasione della sua vita. Anche in banca, il mondo è bello perché e sinché è vario. Perciò i 1.411 istituti, banche e banchieri, e le 239 casse di risparmio e, con le riserve sovra esposte, anche le 2.429 casse rurali, esistenti in Italia non paiono né troppe né poche. Sono troppe tutte quelle casse e banche che sono amministrate da asini, da ingordi, da dilettanti e da gente che vuole far la banca per amor del prossimo. Sono poche in confronto delle alcune altre migliaia di banche che potrebbero utilmente lavorare in centri rurali, i quali ora ne sono sprovvisti, in altri centri, dove esistono solo filiali di grossi istituti affaccendate a pompar denari da rovesciare al centro e nelle stesse grandi città, dove gli istituti esistenti non abbiano saputo rispondere alle esigenze di ceti sociali pur bisognosi dell’aiuto della banca.



[1] Cito da BENJAMIN M. ANDERSON, Bank Consolidations in a period of speculation, in «The Chaser Economic Bulletin», nono, 5, pag. 5. Dello stesso e sullo stesso Bollettino, Branch Banking troughout Federal Reserve District, decimo, 2. L’Anderson è l’«economist» della Chase National Bank ed i suoi scritti sono notevoli sempre per acuto spirito di osservazione concreta e solida preparazione teorica.

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