Perché la scienza economica non è popolare
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1930
Perché la scienza economica non è popolare
«La Riforma Sociale», gennaio-febbraio 1930, pp. 99-103
Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, parte II, pp. 177-182
A. C. Pigou: The functions of economic analysis. (London, Oxford University
Press, Humphrey Milford, 1929, pag. 22. Prezzo 1 sc.).
Sobrio, lucidissimo, luminoso questo saggio del maestro della grande scuola di Cambridge. Chiarisce le idee del lettore e sprona a rifletterci su. «L’opposto dell’analisi è la mera descrizione degli avvenimenti nel loro ordine di sequenza nel tempo. Ogni sforzo per spiegare gli avvenimenti, per esporre la connessione di cause ed effetti, per scoprire leggi di più larga o stretta applicazione, in breve per scovare al disotto della superficie di un campo sino alle radici delle piante che vi crescono, è analisi». Questo, in succo, secondo Pigou, il carattere differenziale dell’analisi economica. La quale consiste perciò in due operazioni distinte: costruzione dello strumento della ricerca e uso dello strumento. Edgeworth si era specializzato nel fabbricare strumenti di ricerca, e poco si curava di adoperarli; Marshall, dopo avere creato arnesi squisiti, si industriava a nasconderli, sicché non si vedesse che egli ne aveva tratto partito nella ricerca.
Gli strumenti possono essere privati, e consistono nell’istinto, nella intuizione del ricercatore, dello scopritore, o pubblici, e questi sono metodi logici, formule, procedimenti analitici insegnati dai trattatisti ed accessibili a tutti. Amendue sono pericolosi da maneggiare; i primi perché molti scambiano il sentimento, il pregiudizio, il pseudo-ragionamento, col fecondo intuito scientifico; i secondi perché le formule bell’è fatte per lo più ingannano coloro che non sono in esse penetrati a fondo. È uno strumento pubblico l’idea che i prezzi sono determinati al margine da quanto di una merce gli uomini chieggano ed offrano a vari prezzi. Deformata, l’idea si converte nella incomprensibile «legge della domanda e della offerta», che è notissimo strumento di spropositi per i laici. È uno strumento l’idea di Marshall (o dei suoi anticipatori del primo quarto del secolo scorso), secondo cui esiste una certa definita proporzione fra il reddito reale degli uomini e la quantità di numerario da essi conservata in cassa; e lo strumento serve per costruire una teoria monetaria perfettamente inquadrata nella teoria generale del valore.
Pigou opina che gli «strumenti» della ricerca economica sono apprezzabili solo come «mezzi». Se non servono alla ricerca, meglio buttarli. Essi non possono pretendere al vanto delle costruzioni matematiche, che sono nel tempo stesso «strumenti» di ricerca per il fisico e il chimico e mirabili oggetti d’arte per il matematico puro, stupendi trionfi dell’intelletto umano. Dubito che in ciò egli sia nel vero. I due esempi citati sopra – l’equilibrio al margine delle quantità offerte e domandate, l’esistenza di una proporzione definita fra numerario e reddito reale individuale – sono davvero solo «strumenti», ossia ipotesi messe innanzi per saggiare se al loro lume si spiega e quanto compiutamente si spiega il funzionamento del meccanismo economico? O, se il successo arride al tentativo ed il modello del meccanismo economico costruito in base a quell’ipotesi si avvicina alla realtà, forseché quelle ipotesi non diventano esse medesime parte del modello, non semplice metodo per raggiungere la verità, ma elemento essenziale della stessa verità? E non si prova dinnanzi a quegli strumenti, divenuti rappresentazione del vero, lo stesso genere di rapimento che il buongustaio sente dinanzi al bel quadro, i matematici dinnanzi alle loro costruzioni, i giuristi dinanzi ad una fine sentenza di Gaio e di Ulpiano?
Gli statistici hanno di recente arricchito la scienza economica di parecchi promettenti strumenti di analisi; e di questi Pigou si occupa a lungo. Sovrattutto per mettere in luce i trabocchetti nei quali si può cadere, paragonando andamenti di curve, ritardi nei movimenti di una curva rispetto ad un’altra, movimenti in una serie e saggi di mutamento in una seconda serie. L’utilità forse maggiore di questi strumenti di ricerca non è sovrattutto in quel che essi apertamente ci fanno vedere. Ben di rado le correlazioni calcolate dallo statistico, o le relazioni viste esaminando curve autorizzano ad affermare rapporti logicamente necessari di causa od effetto, o di concomitanza o successione nel tempo. Suggeriscono invece all’economista l’opportunità di guardare a quel che non si vede, di frugare coll’immaginazione e col ragionamento per scoprire, al di là dei fatti la cui correlazione è stata studiata, quegli altri fatti od avvenimenti o mutamenti che siano atti a spiegare le conclusioni vedute.
L’imponenza crescente dell’edificio di ricerche, il cumulo di osservazioni statistiche, le raffigurazioni di serie in forma di curve, possono presentare, sia lecito aggiungere, un altro rischio, oltre quello dei trabocchetti; ed è il divorzio crescente tra i fabbricanti di strumenti e gli utilizzatori di essi. Se si piglia in mano qualcuno dei magnifici volumi in cui Mitchell, Mills ed altri, sovrattutto americani, hanno riassunto i risulti di indagini pazientissime, scrupolosissime, penetranti, si rimane talvolta colpiti dalla sterilità dei risultati a cui si giunge in tal modo. L’indole dello strumento che essi hanno creato vieta o sembra vietare ad essi di dire nulla di più di quanto l’ispezione delle curve e le correlazioni riscontrate consentono di dire. E poiché essi si guardano dal sofisma del post hoc ergo propter hoc, e dall’errore di scambiare la successione per una causalità, essi non aggiungono nulla alla semplice riesposizione. La conclusione è: questi due fatti nel tal tempo e nel tal luogo furono correlati nel modo a, nel tale altro tempo e luogo nel modo b. Il che è mera descrizione e non analisi logica, che vuol dire scoperta di correlazioni logicamente necessarie. Essi non vanno al di là, perché ritengono non sia ufficio dello statistico, né dell’economista sperimentale andare al di là. Al di là, oltre il noto per masse e serie tabellate e trasformate in curve e in correlazioni empiriche, dovrebbe andare l’economista «analitico», ossia fornito d’immaginazione e di intuito (strumenti privati di ricerca, secondo la terminologia di Pigou) e di strumenti pubblici economici, ossia idee madri, foggiate dagli economisti passati e rifoggiate dai contemporanei. Ma costui è peritante nell’applicare la sua logica a quei dati, a quelle serie, a quelle curve, a quelle formule, prodotte nelle officine all’ingrosso dei moderni uffici statistici, negli economic services d’America e d’Europa. Confesso di avere gioito nel più profondo del mio animo quando dalla bocca di uno dei più grandi statistici-economisti contemporanei, Rodolfo Benini, udii ch’egli si sentiva sempre peritante nell’utilizzare i risultati bell’e pronti di statistiche elaborate da altri. E che egli sentiva il bisogno di costruirsele lui le serie, di riscontrare e criticare i dati primi, manipolarli, trasformarli col calcolo e portarli a quel nitore di conclusioni a cui siamo abituati nei suoi scritti. Così è. I dati statistici servono sovrattutto per suggerire intuizioni sull’ignoto. Perché ciò accada, sospetto forte che l’economista debba vederseli a mano a mano formare ed elaborare sotto i suoi occhi, quei dati primi e quelle serie e quelle curve e quelle conclusioni. L’intuizione, il lampo viene nel veder muoversi ed aggiustarsi gli individui. Quando gli individui sono annegati nella massa, per quanti avvedimenti si usino per misurare e mettere in mostra medie, mediane, scostamenti, il lampo illuminante corre rischio di non prodursi. Federico Le Play non avrebbe mai intravvisto qualche aspetto essenziale della storia dei tipi e degli ordinamenti sociali se avesse studiato le migliaia di bilanci di famiglia elaborati dai moderni uffici statistici. Da questi si ricavano uniformità intorno alle variazioni del costo della vita, ai rapporti fra le diverse categorie di spese ed insegnamenti utili per la costruzione di un buon tipo di imposta sui redditi, sui consumi, sui valori locativi e simiglianti faccende della vita quotidiana. Taluni bilanci individuali, e perché individuali possibili ad inquadrare nell’insieme, pure individuale e non riproducibile altrove, delle cause che li avevano originati, svelarono a Le Play il perché della vecchia Francia e della sua grandezza. Il che monta a dire che noi rischiamo di morire affogati dalla marea crescente degli strumenti «pubblici» di indagine che tuttodì si vanno producendo e gettando sul mercato scientifico. Poiché la produzione degli strumenti «privati», ossia delle doti di immaginazione e di intuizione scientifica, non è cresciuta nella medesima proporzione, la combinazione «ottima» tra i due generi di strumenti è forse diventata più difficile.
L’osservazione può servire ad illuminare un ultimo quesito che il Pigou si pone: perché la conoscenza scientifica tarda tanto nel campo economico ad essere tradotta in norma viva, in legge praticamente operante? La scoperta teorica, fisica e chimica può essere applicata sull’istante. La verità teorica economica no. Il Pigou opina che ciò si debba alla scarsa cultura economica del popolo. Se questo sapesse che cosa è la moneta, sarebbe possibile applicare un sistema monetario assai più perfetto di quello aureo; ma poiché forse neppure una persona su 100.000 capisce qualcosa in materia, il tentativo di applicare il sistema perfetto condurrebbe al caos. Sospetto che la difficoltà abbia anche un’altra origine. Nelle materie economiche non basta, come spererebbe il Pigou, che il popolo abbia quella certa cultura economica, la quale sia sufficiente a persuaderlo di sapere poco, e perciò ad avere fiducia nei governanti aiutati da periti. Fino a che gli uomini non sappiano astrarre da sentimenti e da interessi, essi vorranno essere persuasi, non a fidarsi di qualcun altro, ma a ritenere buona la via ad essi consigliata. Se la scienza economica vuole trasformarsi in azione pratica, fa d’uopo che essa sia esposta in maniera da far presa sul pubblico. Perciò, od anche perciò, essa esercitò una influenza profonda, da Adamo Smith a Giovanni Stuart Mill. Era imperfetta, ma era capita e sentita. Dopo è diventata una costruzione preziosa, elegante, a tratti stupenda. Che cosa vi è di più raffinato delle analisi del Pigou medesimo? Ma che cosa anche di più lontano dalla semplicità che si richiederebbe per essere capiti e sentiti dal pubblico? Che cosa di più lontano di quelle ipotesi perfette, sublimate, di quei ragionamenti filati, di quei «se» sospesi a tanti fili invisibili da quella verità chiara, univoca, la quale sola può essere tradotta in norma legislativa? L’approfondimento, la teoria dell’equilibrio economico, l’uso di strumenti «pubblici» matematici, statistici, l’inondazione dei dati forniti dalle fabbriche governative e private di statistiche, furono una necessità scientifica. Lo saranno ancora e sempre e in misura crescente per l’avvenire. Ma, ad ogni generazione, bisogna che sorga il sistematizzatore, colui che ha l’intuito, che astrae, dalle tante verità nuove e vecchie, la verità essenziale, che offre al pubblico il modello, provvisoriamente migliore, del mondo economico. Dietro a lui verranno, incespicando e sbagliando, ma verranno, i popoli e gli uomini di Stato. Sfortunatamente non è nato il Turgot, l’Adamo Smith, il Ricardo, il Ferrara della passata e della presente generazione. Jevons morì troppo giovane, Pareto era troppo pessimista e rifiutava troppo agli uomini ogni attitudine a comportarsi in conformità a ragionamenti, Marshall era troppo dubitoso, i grandi teorici austriaci erano troppo astratti e raffinati. Dei viventi si osservi solo che hanno un po’ di tutti questi vizi; ed ecco detto, per usare una terminologia alla Bonghi, uno dei perché la letteratura economica non è oggi popolare nel mondo.