Dei concetti di liberismo economico e di borghesia e sulle origini materialistiche della guerra
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/09/1928
Dei concetti di liberismo economico e di borghesia e sulle origini materialistiche della guerra
«La Riforma Sociale», settembre-ottobre 1928, pp. 501-516
Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, parte II, pp. 125-152[1]
Benedetto Croce: Contributo alla critica di me stesso, (Bari, Giuseppe Laterza e Figli, 1926. Un vol. in-8° di pag. 77. Prezzo L. 6,50).
- Il presupposto filosofico della concezione liberale. Estratto dagli «Atti della Accademia di Scienze morali e politiche della società reale di Napoli». (Vol. L, parte I, pag. 12, 1927).
- Contrasto di ideali politici in Europa dopo il 1870. Estratto c.s. (LI, parte I, pag. 17, 1927).
- Liberismo e liberalismo. Estratto c.s. (LI, parte I, pag. 7, 1927).
- Di un equivoco concetto storico: la «borghesia». Estratto c.s. (LI, parte I, pag. 21, 1927).
- Aspetti morali della vita politica. Appendice agli Elementi di Politica. (Bari, Giuseppe Laterza e Figli, 1928. Un vol. in-8° di pag. 91. Prezzo L. 6,50).
- Storia d’Italia dal 1871 al 1915. (Bari, Giuseppe Laterza e figli, 1928. Un vol. in-8° di pag. VIII-347. Prezzo L. 25).
Torquato Accetto: Della dissimulazione onesta (1644), con prefazione di Benedetto Croce: (Bari, Giuseppe Laterza e figli, 1928. Un vol. in-8°, legato alla bodoniana, di pag. XI-72). Edizione fuori commercio in ricorrenza dell’anniversario della morte di Luigi Laterza.
1. – Le scritture del Croce qui sopra elencate dalla seconda alla quarta si rileggono raccolte nel volumetto intitolato Aspetti Morali, il quale anche contiene, in aggiunta, tre altri saggi: Stato e Chiesa in senso ideale e loro perpetua lotta nella storia; Giustizia internazionale e Pessimismo storico. Quale sia il contenuto di esse non mi attenderò a dire; poiché una bibliografia sunteggia utilmente il libro recensito quando esso è troppo costoso o non facilmente accessibile; il che non può dirsi di scritti raccolti oggi nei divulgatissimi volumetti del Laterza. Basti dire che il Contributo alla critica di me stesso è indispensabile alla conoscenza della formazione mentale del critico e del filosofo e che gli Aspetti morali della vita politica sono il complemento necessario di quegli Elementi di politica in cui il Croce aveva riassunto la sua concezione della politica, necessario per rimediare o correggere il «senso di disorientamento, o almeno di meraviglia» provato forse, dice l’autore, da qualche lettore dei suoi Elementi di politica «nel percorrere il giro che vi è delineato della filosofia della politica, senza vedervi trattata e nemmeno toccata, una dottrina così cospicua, che ha avuto tanta parte negli ultimi secoli della storia europea, e l’ha ancora, qual è la concezione liberale». L’«appendice» odierna ha per iscopo, in succo di dimostrare che quella omissione non era disconoscimento dell’importanza della concezione liberale, ma, per converso, «un modo implicito di riconoscerla pertinente a una sfera diversa e superiore». Come il Croce dimostri la sua tesi non voglio qui malamente ridire, quando il succoso volumetto è tale che ogni lettore curioso di chiarire dinnanzi agli occhi della sua mente parole quotidianamente ripetute ha il dovere di meditarlo e quanto il Croce, come è suo costume, ha ristretto il suo ragionamento al numero minimo di parole, al disotto delle quali sembra impossibile scendere.
Il ricordo, che qui si fa, di scritti del Croce ha per iscopo di segnalare che in essi è probabile i nostri lettori trovino stimolo a riflettere anche in quel campo economico che si può supporre sia loro proprio. Questo è sempre stato il frutto maggiore dell’opera del Croce e quello di cui egli medesimo pare maggiormente, a ragione, compiacersi nella «critica di sé stesso», ricordata prima nell’elenco: di provocare i lettori a ripensare alle cose lette. La meditazione filosofica italiana dell’ultimo quarto di secolo deriva quasi tutta, per consenso o per dissenso, dal Croce. Non altrettanto direi della meditazione economica, sebbene egli accenni qua e là nella Storia d’Italia (ad es., a pag. 253, là dove si dice che «dall’opera della Critica e dei suoi collaboratori … presero origine innumere indagini, discussioni, monografie e, si può dire, tutto quanto di concreto si fece allora in Italia… nella filosofia… dell’economia») ad una azione dominante della sua sulla filosofia economica. Gli economisti italiani del primo quarto del secolo presente o non filosofarono pubblicamente per iscritto; o se pretesero esporre una loro filosofia, mossero, come il Pareto, da premesse e si avanzarono per vie che al Croce dispiacquero per fermo assai. In verità, il solo punto di contatto di cui si abbia pubblica notizia tra l’economica e la filosofia è l’atteggiamento «liberistico» di taluni economisti; perché è il solo punto in cui agli economisti accada di manifestare, in un senso o nell’altro, certe loro idee sul mondo, sulla vita, sullo Stato e somiglianti concetti generali e volontieri indugino in scorribande sui terreni di confino tra la scienza loro, che è tecnica, le scienze vicine della politica o della morale e la filosofia in generale. Anche il problema del valore, il quale un tempo teneva così gran parte nei trattati economici e chiamava a raccolta premesse attinte alla filosofia utilitaria, si è andato via via trasformando in un problema di prezzi, dove se hanno importanza fattori di utilità e di costi, questi sono considerati sempre meglio come fattori di un sistema di equilibrio, come dati primi, che all’economista non interessa investigare nella loro ragion d’essere o causalità, ma esclusivamente nel loro operare al fine di condurre ad un sistema di prezzi, di salari, di profitti, di imposte, di qualità prodotte, consumate, risparmiate. Perciò è probabile che al filosofo sia talvolta cagione di stupore d’indifferenza con cui l’economista guarda, quando vuol risolvere questioni sue economiche, a discussioni od a concetti che al filosofo paiono importanti e tali sono di fatto; ma non per risolvere problemi di economia. Perciò gli economisti sono passati accanto, tra il 1890 e il 1900, ai problemi marxistici del valore e del sopra lavoro, al cui studio il Croce die’ tanto contributo di pensiero, senza mostrar quasi di avvedersene. Erano problemi che non li riguardavano, quasi neanche come curiosità di una fase precedente del pensiero economico. Marx, come tanti altri, non si era accorto che la via da lui battuta, sulle traccie dei grandi classici del primo terzo del secolo, conduceva ad un vicolo cieco; né aveva saputo che ad Oxford nel 1833 il Lloyd si era incamminato sulla nuova via, su cui dal 1850 al 1860 si travagliò l’italiano Ferrara, e percorrendo la quale si è giunti al corpo attuale ricevuto di dottrine.
2. – Il solo punto visibile di contatto è, ripetuto, quello che il Croce discute in due saggi letti all’Accademia napoletana, parlando dei rapporti tra liberismo e liberalismo e dei presupposti filosofici della concezione liberale. Della sua tesi fondamentale, che il «liberismo» sia un concetto inferiore e subordinato a quello più ampio del «liberalismo» non è chi non veda la giustezza. Il «liberismo» fu la traduzione empirica, applicata ai problemi concreti economici, di una concessione più vasta ed etica, che è quella del liberalismo; e va da sé che i traduttori, non sempre consapevoli dell’esistenza di altri mondi all’infuori di quello in cui essi, per nobilissimi fini e con risultati non spregevoli, si arrabattavano e combattevano, dessero valore di norma o legge superiore a quella regola empirica, del lasciar fare e del lasciar passare, la quale effettivamente aveva giovato in tanti casi a crescere la ricchezza e la prosperità delle nazioni moderne. Oggi, però, non solo non v’è più nessuno il quale dia alla regola empirica del lasciar fare e del lasciar passare (cosidetto liberismo economico) valore di legge nazionale o morale; ma non oserei neppure affermare che vi sia tra gli economisti chi dia al «liberismo» quel valore di «legittimo principio economico» che il Croce (pag. 40 di Aspetti morali) sembra riconoscergli indiscutibilmente. Di un «principio» economico detto del liberalismo non v’è traccia, suppongo, nella moderna letteratura economica. Se v’è, è solo per chiarire che quella è una posizione anti economica del problema; come ve ne sono tante, che si trascinano per abitudine nelle pagine dei laici. Come oggi non v’è, tra gli economisti, nessuno il quale prenda partito pro’ o contro la grande o la piccola proprietà, la grande o la piccola industria, la mezzadria o l’affittanza o la conduzione diretta; e il semplice porre il problema in quel modo basta a togliere al proponente titolo di economista, perché il vero problema è invece di sapere quale delle soluzioni sopra indicate sia, in date condizioni di clima, di giacitura dei terreni, di popolazione, di mercati, ecc., ecc., la più adatta a raggiungere certi fini che possono essere economici, morali, demografici, politici, fini la cui graduatoria deve essere stabilita sulla base di una data concezione generale della vita (Croce direbbe sulla base di una legge morale da attuare); così nessun economista risolve un qualsiasi problema di condotta economica facendo appello ad un preteso principio economico liberistico e saggiando la bontà della condotta scelta alla cote del detto principio. Questa è una posizione logica inaccettabile; poiché l’essere una certa soluzione liberistica invece che autoritaria non vuol dire affatto che quella sia la soluzione economica. La premessa è un fine da raggiungere; e poiché i fini sono molti, anche qui lo stabilire la graduatoria dei fini non è compito dell’economista, ma di chi sta più in alto di lui. Croce ha su questo punto parole scultore; chi deve decidere «non può accettare che beni siano soltanto quelli che soddisfano il libito individuale, e ricchezza solo l’accumulamento dei mezzi a tal fine; e, più esattamente, non può accettare addirittura, che questi siano beni e ricchezza, se tutti non si pieghino a strumenti di elevazione umana». L’economista cerca di risolvere i problemi suoi partendo appunto da siffatta premessa. Da Adamo Smith a Marshall – e si potrebbe risalire più in su e venire sino a viventi – questa è sempre stata la premessa e il fine delle fatiche degli economisti; non mai il procacciamento dei beni materiali. Naturalmente «è sempre stata», quando si faccia astrazione dagli epigoni, dagli abbreviatori, dai popolarizzatori e, nei grandi, dalle maniere abbreviate e stenografiche di esprimersi e dal fastidio di ripetere come notissime. Ma, anche negli epigoni e nei popolarizzatori, tipo Bastiat, come si spiegherebbe quel loro entusiasmo, quel loro calore, quella fiamma che li accendeva e li faceva talora martiri dell’idea, se essi avessero avuto di mira meri beni materiali e non invece più alti beni morali ideali?
3. – Posta la premessa, il compito dell’economista è modesto, sebbene, per la compilazione dei rapporti economici e sociali, grandemente irto e difficoltà : cercare la soluzione economica più adatta per raggiungere il fine; la quale soluzione può non essere la più economica o la meno costosa di tutte, se per essa si raggiunga bensì il fine economico del maggior accumulamento di ricchezza, ma non l’altro fine, quello veramente cercato e voluto, della massima elevazione umana. Già Adamo Smith in una celebre frase diceva che la difesa di una nazione è di gran lunga più importante della sua opulenza (libro IV, cap. II; a p. 429 del vol. I dell’ediz. Cannan); e qual ricerca è più frequente nei libri di Marshall e di Pigou del danno di certi massimi di redditi individuali e anche collettivi per il raggiungimento di fini superiori? Quel che assai volte sommessamente gli economisti, dopo avere osservato e riflettuto, concludono è che, a raggiungere il fine voluto – che può essere di un massimo di ricchezza, se il massimo di ricchezza coincide od è compatibile coll’idea superiore della vita umana, ma può non essere un massimo, se il fine superiore da raggiungere non lo consente – giova che lo Stato non se ne impacci. Ma può non giovare e può convenire intervengano lo Stato od altri enti pubblici coattivi od altre forze sociali collettive. Il che non si può sapere a priori, l’esperienza sola essendo giudice in tali materie contingenti. Quel che dà sommo fastidio agli economisti non è l’intervento dello Stato nei casi in cui esso è ottimo strumento per raggiungere il fine; ma il pretendere, che spesso si fa, di raggiungere con tal mezzo il fine magnificato superiore o spirituale, mentre in realtà si toccano più vicini materiali fini concreti ed i furbi lo sanno e vogliono solo, con quelle chiacchiere, far credere ai gonzi, i quali sono i più, che l’intervento da essi auspicato ha scopi altissimi, indiscutibili. Il che, a cagion d’esempio, apertamente si dice oggi negli Stati Uniti, dove i contrabbandieri introduttori di bevande spiritose, timorosi che il ritorno alla libertà moderata del bere guasti loro il mestiere, sussidiano le leghe proibizionistiche e la California è «secca» ossia proibizionista, perché pare venda, grazie al divieto di bere, più care le uve delle quali è produttrice. Queste tuttavia sono mere difficoltà concrete di applicare il principio. La tesi vera parmi dunque essere questa: che il liberismo non è né punto né poco «un principio economico», non è qualcosa che si contrapponga al liberalismo etico; è una «soluzione concreta» che talvolta e, diciamo pure abbastanza sovente, gli economisti danno al problema, ad essi affidato, di cercare con l’osservanza e il ragionamento quale sia la via più adatta, lo strumento più perfetto per raggiungere quel fine o quei fini, materiali o spirituali che il politico o il filosofo, od il politico guidato da una certa filosofia della vita ha graduato per ordine di importanza subordinandoli tutti al raggiungimento della massima elevazione umana.
4. – Per parlare figuratamente in linguaggio economico, la scienza economica non è una produttrice di beni diretti, né materiali, né morali, a pro degli uomini. Essa produce soltanto beni strumentali: strumenti logici per la scelta del metodo migliore per ottenere quei beni diretti che agli uomini piace ottenere. E si comprende perciò come la scienza economica si affini e progredisca coll’affinarsi dei fini perseguiti dagli uomini. Se in un paese, come la Russia bolscevica, prevale una concezione della vita materialistica e comunistica, gli economisti devono risolvere problemi di massimi puramente materiali, entro i limiti di una concezione la quale deprime i fini spirituali, facendo gli uomini schiavi dello Stato dominatore ed organizzatore universale; epperciò deprime anche la possibilità di raggiungere fini subordinati materiali, arrugginendo gli strumenti produttivi, disanimando il lavoro, scoraggiando il risparmio. Epperciò, a quel che se ne sa, quei disgraziati studiosi sono ridotti alla pietosa condizione di contabili di dare e di avere di una grossa impresa statale male attrezzata; e la scienza economica imbarbarisce. Nei paesi invece, nei quali ferve la vita morale e spirituale, e gli uomini si propongono sempre più alti ideali di vita libera, varia e feconda, anche si moltiplicano e si aggrovigliano i problemi economici; e intelligenze sottilissime sono invogliate a risolvere problemi ognora più complicati; sicché anche questa scienza strumentale, che è l’economica, progredisce e si manifesta in un letteratura meravigliosa, la cui bellezza estetica, sovrattutto in certi libri monetari, per la apparente astrusità fortunatamente inaccessibili al volgo, talvolta commuove e rapisce nella stessa maniera che fa un capolavoro di Michelangelo o di Raffaello.
5. – Perché sia equivoco il concetto di borghesia, è detto dal Croce in una assai suggestiva nota, nella quale i differenti significati di quel concetto sono così elencati:
a) concetto «giuridico» per cui nella storia medievale e in parte in quella moderna chiamasi «borghese» il cittadino del borgo o della città non feudale o il componente di uno degli «stati» dell’antico ordinamento politico;
b) concetto «economico», col quale si designa come «borghese» il possessore degli strumenti della produzione, ossia del capitale, in contrapposizione al proletario o salariato;
c) concetto «sociale», per cui si chiama «borghese» quel che non è né troppo alto, né troppo basso, il «mediocre» nel sentire, nel costume, nel pensare;
d) e finalmente il concetto «storico» in cui per «borghese» e per «borghesia» si vuole intendere una personalità spirituale intera e, correlativamente, un’epoca storica, in cui tale formazione spirituale domini o predomini.
Contro questo ultimo concetto e traendone occasione a discorrere di talune opere recenti del Sombart e del Groethuisen, il Croce muove in guerra con assai finezza di argomentazione; e chiarisce che l’identificazione tra il concetto di borghesia e quello di civiltà moderna fu il risultato della polemica condotta da due opposte parti contro la società nata dalla rivoluzione francese: da un lato dagli aristocratici e fautori degli antichi regimi e dall’altro dai proletari e operai; i socialisti, fattisi portavoce di questi ultimi, condannandola in nome del futuro più o meno prossimo, laddove i primi la disprezzavano in nome di un passato più o meno remoto. Giovava, alla polemica aristocratica, identificare il borghese «col capitalista, con lo speculatore, col bottegaio arricchito e poi ancora col politicante, col demagogo, e con altri tipi che diventarono tipi di romanzi e di commedie a tutti noti»; come giovava alla polemica socialistica, la quale pure ebbe una visione storicamente più larga del compito della borghesia, identificare la civiltà moderna con un tipo di orientamento economico, a cui il Marx e l’Engels intendevano sostituire una nuova concezione della vita. In realtà gli aristocratici miravano più in alto ed, attraverso la borghesia, volevano abbattere «la filosofia moderna, che aveva disfatto e sostituito la teologia; la critica, che aveva dissolto e dissolveva di continuo i dommi; l’ordinamento liberale degli Stati, che si affermava contro l’ordinamento autoritario, i parlamenti succeduti alle corti e alle consulte di Stato; la libera concorrenza, che si era aperta la strada contro i sistemi mercantili e protezionistici; la mobilità della ricchezza contro l’immobilità delle primogeniture e dei fedecommessi e degli altri vincoli; la tecnica, che sconvolgeva le vecchie abitudini; i bisogni di nuovi agi, che abbattevano i vecchi castelli e altri edifici, e rifacevano e ampliavano le vecchie città ; il sentire democratico, che misurava l’uomo con la sola misura della pura umanità, cioè con quella dell’energia intellettuale e volitiva e via discorrendo». Che se i socialisti accettavano le conquiste «borghesi», si illusero tuttavia di rovesciare e di fondare una nuova scienza, una nuova etica, una nuova concezione della vita sulla distruzione dell’ordinamento borghese della produzione; laddove la filosofia, la morale, l’arte, il pensiero, sorti nell’era moderna «non sono formazioni borghesi o economiche, ma umane e perciò speculative, estetiche, morali e non soffrono superamento se non nella stessa loro cerchia e per ragioni per ragioni loro intrinseche e in quella cerchia continuamente si superano, si arricchiscono, si particolareggiano, si trasformano e non però danno segno di mai abbandonare il loro principio direttivo, quello che si è venuto, formando e affinando attraverso tutta la storia, e, che, attraverso il medioevo, e all’uscita da esso, e particolarmente poi tra il sette e l’ottocento, parve addirittura un rovesciamento dell’antico principio, laddove ne era uno svolgimento dialettico e un potenziamento».
6. – Dopo la qual dimostrazione, la tesi del Croce può considerarsi pacifica; ed il pseudo concetto di età borghese messo al posto del concetto vero di età o civiltà moderna dovrebbe essere abbandonato per sempre. Giova, a rafforzare la tesi crociana, aggiungere che, anche nel più ristretto campo economico, l’idea di un «ordinamento borghese» è equivoco, infecondo e meritevole di essere abbandonato. Verso questo ristretto concetto della borghesia il Croce manifesta qualche indulgenza, come quando (pag. 56) ammette che si possa immaginare il rovesciamento dell’ordinamento economico o borghese della produzione o come quando accorda essere legittimo (pag. 47 e sopra sotto b) un concetto economico di «borghese» in qualità di possessore degli strumenti della produzione ossia del capitale, in contrapposto al proletario o salariato; e solo vorrebbe sostituirlo «con quello più corretto di “capitalista” e non lasciarlo oscillare in rappresentazioni formate con altri e diversi caratteri, per modo che si suole, con l’includere tra i borghesi ed escludere dai proletari o salariati i professionisti, gli scienziati, i letterati pei loro abiti di vita e il genere del loro lavoro, laddove, economicamente, la differenza tra questi e i lavoratori cosidetti delle officine è inesistente o evanescente».
7. – Qui mi pare si annidi un grosso equivoco, legittimato dalla complicazione straordinaria della vita moderna, per cui, a volere scrivere correttamente, bisognerebbe ad ogni affermazione, ad ogni definizione intorno ai concetti di «borghese», di «capitalista» di «professionista», di «proletario», di «lavoratore» far seguire un nugolo di attenuazioni, di qualificazioni, di «ma» e di «se», da rendere il discorso esitante e poco conclusivo. Lascierò stare da parte i «ma» e i «se» e andrò diritto allo scopo, affermando che se la civiltà moderna, come giustamente afferma il Croce, non può, se non con evidente equivoco identificarsi con «età borghese», è vero anche che nel campo economico non esiste, nell’età moderna, un ordinamento «borghese» o «capitalistico» nel senso che la caratteristica dominante del sistema economico sorto nel secolo 18esimo sia l’aver affidato il governo economico del mondo al borghese inteso nel senso di «capitalista possessore degli strumenti della produzione» in contrapposto al proletario o salariato, considerato come mero strumento di lavoro in mano del capitalista. L’inclusione voluta dal Croce, dei «professionisti, scienziati e letterati» nel ceto dei proletari o salariati avrebbe dovuto metterlo sull’avviso che nella contrapposizione delle due classi e nella funzione eminente e direttiva assegnata al capitalista si annidava un equivoco; poiché, se salariato è colui il quale esegue un lavoro, per conto e secondo gli ordini del capitalista, tale non è né il professionista, né il letterato, né lo scienziato. In verità, anche in questo caso fa d’uopo ricordare che l’inveramento di un nuovo concetto non avviene d’un colpo, ma a gradi a quel che era in germe nel principio contrario a poco a poco si attua ed, attuandosi, cresce e via via si trasforma; sicché ad ogni momento appare diverso da quel che era nel momento precedente. Pur tenendo conto di ciò, è evidente che la caratteristica dominante della struttura economica moderna, da quella che si suol chiamare rivoluzione industriale in qua, non è il «capitalista», ma l’imprenditore, l’inventore, l’organizzatore, il capitano di uomini e di strumenti. Il che non si vide chiaramente subito, dai reazionari e dai socialisti e neppure dagli economisti, perché accadde dapprima e continuò ad accadere per lungo tempo che gli imprenditori, gli organizzatori, i capitani fossero anche capitalisti o possessori degli strumenti di produzione. A poco a poco tuttavia si cominciò a vedere ed oggi è manifesto a tutti quanti sappiano guardare nel cuore dell’economia moderna, che questo era un fatto non necessario, non logico e secondario. «Capitalista» tende sempre più ad essere l’azionista, l’obbligazionista, il depositante presso banche e casse di risparmio; e la massima parte del capitale impiegato nelle industrie e nei commerci tende ad essere proprietà di una classe di persone, le quali, più correttamente, invece di capitalisti – parola che, per mala tradizione vocabolaristica originata, suppongo, dal cosidetto socialismo scientifico, reca in sé una significazione di padrone, di ordinatore, di dominante – dovrebbero essere designate col nome di risparmiatori o produttori e venditori della merce «risparmio», che altri trasformerà in capitale. Questi «altri» sono gli imprenditori od organizzatori o inventori o capitani di banche, di società anonime, di imprese industriali, agricole e commerciali private. Questi tendono ad essere i veri dominatori del mondo economico moderno. Quando, nel linguaggio volgare, si pretende di qualificare il signor Morgan dicendolo «miliardario», si commette un solennissimo sproposito storico; poiché egli è Morgan, ossia un uomo potente sui destini del mondo non perché possegga alcune decine di milioni di dollari, ma perché ha ai suoi ordini centinaia di migliaia di servi della gleba, i cosidetti capitalisti o meglio risparmiatori, i quali, umili ai suoi cenni, producono risparmio e lo mettono a sua disposizione, paghi di ricevere da lui, si e no, qualche interesse o dividendo, a titolo di compenso. Il capitalista, come tale, tende ad essere uno zero o pressoché uno zero nel mondo economico. Gran parte del risparmio viene prodotto automaticamente e verrebbe prodotto anche se non si promettesse alcun compenso al risparmiatore; un’altra parte, cospicua e crescente, viene prodotta all’insaputa dei cosidetti capitalisti, azionisti di società, i cui amministratori decidono di dare agli azionisti quella parte dei profitti che ad essi sembra opportuna e l’altra viene accantonata ossia risparmiata, piaccia o non piaccia ai servi capitalisti. E son portate in palma di mano e giustamente reputate le più solide società del mondo quelle le quali, come usano quasi tutte le imprese di assicurazione, non danno agli azionisti neppure un centesimo dei guadagni industriali annui, ma unicamente i frutti degli accantonamenti passati. Vero dominatore del mondo economico non è colui che fornisce la materia bruta «capitale», così come dominatrici non sono le cose materiali, i mattoni e la calce, le macchine e le forze motrici di cui si compone un’impresa; ma è l’uomo. L’uomo intelligente, che sa ed agisce: dall’amministratore delegato ai direttori, ai tecnici, agli operai. Chiamare costoro proletari o lavoratori e contrapporli, in istato di subordinazione, a quella figura comica che è il «capitalista» moderno è davvero un capovolgimento della realtà . Il «capitalista» è forse ancor qualcosa nelle piccole aziende, nell’agricoltura dove l’imprenditore è proprietario di una grossa percentuale o della totalità degli strumenti della produzione; ma a mano a mano che si ascende verso l’alto, verso quelle che sono le tipiche costruzioni economiche del mondo moderno, la sua importanza vanisce sempre più, fino a diventare puramente passiva ed automatica. Non è del resto razionale che così sia? Nel mondo moderno, dominato dalla critica filosofica e dalla scienza, come poteva darsi che una parte dell’attività umana fosse governata da chi ha per funzione, importantissima bensì, ma specifica e spesso automatica e talvolta, come si disse sopra, involontaria e inconsapevole, di produrre risparmio ossia di rinunciare al godimento di beni presenti per un vantaggio avvenire? Godono i risparmiatori un compenso per il servizio reso alla società; e meritamente lo godranno finché siano in pochi ad esercitare quella funzione; e converrebbe probabilmente ai lavoratori che il compenso pagato fosse più sicuro di quanto non sia in conseguenza di ricorrenti traversie monetarie. Converrebbe, perché se, grazie a quella sicurezza, la virtù della previdenza si generalizzasse e si accentuasse ben potrebbe accadere che gli uomini provveduti dell’intelligenza necessaria a trasportare nel tempo il risparmio, pretendessero di ricevere, invece di dare, un compenso per la fatica di restituire dopo un anno il capitale oggi ricevuto in deposito!
8. – V’ha di più. L’indole sostanziale dell’economia moderna è chiarita pienamente neppure coll’osservazione fatta ora: che il «capitale» messo insieme dai risparmiatori non è il padrone, sibbene il servo degli imprenditori. Bisogna aggiungere che il capitale fabbricato dai risparmiatori tende ad essere richiesto in misura sempre minore dagli imprenditori in aiuto alle loro creazioni economiche. Vorrebbe «servire»; ma viene respinto con fastidio quando realmente gioverebbe a «creare» qualcosa di nuovo ed accettato solo quando gli imprenditori desidereranno «realizzare»il frutto, già ottenuto, della loro iniziativa, per riposare dalle passate fatiche o tentare nuove creazioni.
Quando, a cagion d’esempio, si pensa ai grandi giornali moderni, all’imponenza dei loro impianti di edifici, di macchinari, di servizi ed alle decine e talvolta centinaia di milioni di lire che essi valgono, la mente dei più corre a questi milioni e pensa che senza capitali quei giornali non sarebbero sorti ed è tratta a collocare senz’altro il «giornale» nella categoria delle imprese dominate dal capitalismo, dalla banca, dalla finanza e simiglianti entità materialistiche.
La verità è ben diversa; e tipica è l’origine di quello che fu, durante un non breve periodo storico, uno dei maggiori e forse il più perfetto giornale del mondo. Quel giornale fu fondato senza un centesimo di capitale proprio degli iniziatori, sul fondamento di una cambiale dell’ordine di grandezza delle 100.000 lire italiane, scontata grazie al credito dei firmatori da una banca qualunque e rimborsata dal gerente in pochi anni cogli utili dell’impresa. Il «risparmio» nel senso tradizionale di somma messa da parte soldo a soldo dai risparmiatori e dato all’imprenditore perché egli lo impieghi, intervenne nella creazione di quella grandiosa impresa col solo compito di anticipo provvisorio sui primi utili; e questi primi e quelli che vennero dipoi, in cifre crescenti, consentirono a poco a poco di costruire edifici al luogo di quelli presi a nolo, di comprar macchine al posto di quelle di altrui spettanza dapprima utilizzate, di impiantar servizi costosi, di assoldare redattori di vaglia. I capitalisti, che avevano fornito solo il nome, ricevettero dai due imprenditori, i quali, uno dopo l’altro, ebbero il governo di quella impresa, fior di utili e, quando vollero, poterono vendere le loro quote ideali di comproprietà per valsenti mai immaginati certamente nell’istante in cui avevano, con una firma, aiutato il primo iniziatore a far sorgere l’intrapresa.
Ed ho in mente un’altra grande impresa giornalistica, appena seconda, nel suo paese, a questa ora menzionata, la quale andava a rotta di collo quando un giovane energico, accortissimo conoscitore del pubblico, intervenne con poche quarantamila lire a tappare i buchi aperti dall’antico, cuor d’oro, ma distratto, proprietario; e l’impresa andò subito bene, fornì utili invece di perdite e, cresciuta, diventò potente ed il pubblico favellò di capitali cospicui che essa valeva; laddove il capitale non c’entrava né punto né poco nella sua creazione, ma l’imprenditore aveva creato l’impresa, prodotto i capitali, pagato dividendi a sé ed ai soci.
Che se questi paiono esempi piccoli e poco probanti, si badi all’esperienza, della «Ford» e della «General Motors Company» degli Stati Uniti, le due massime imprese produttrici di vetture automobili del mondo, due delle massime creazioni, usai ripetere, del capitalismo moderno. Quei che hanno letto i libri e gli articoli del Ford sanno che il capitale e le banche non entrano per nulla nella creazione e nell’incremento della sua impresa; sanno che alla radice della gigantesca organizzazione odierna stanno ventottomila sparuti dollari sborsati dai membri della famiglia Ford e che tutto il resto venne fornito ed è fornito oggi dalla impresa medesima. Parimenti, alla radice della «General Motors Company», la grande concorrente di Ford, sta una famiglia geniale, discendente da quel Du Pont De Nemours che noi economisti conosciamo come fisiocrate, divulgatore dei fisiocrati, compilatore di effemeridi economiche in Francia prima della rivoluzione. La famiglia Du Pont creò l’impresa, l’ampliò cogli utili interni; e se condiscese poi ad emettere azioni nel pubblico ed a ricevere il concorso di quelli che si chiamano comunemente risparmiatori capitalisti, ciò fece quando il successo era stato raggiunto, quando l’impresa non aveva bisogno più dell’aiuto di nessuno e avrebbe potuto indefinitamente alimentarsi con gli utili interni, pur pagando fior di dividendi ai comproprietari. I Du Pont, consentendo, dissero in sostanza che il periodo formativo dell’impresa era trascorso, che valeva la pena di tirare le fila e di vendere, per un prezzo presente, gli utili capitalizzati futuri e con quel prezzo, tentare cose nuove e ripetere l’esperimento in altro campo.
Storicamente, sembra dunque irreale la tesi che considera il capitalista
come signore dell’intrapresa e più vicina alla realtà quest’altra
successione di avvenimenti:
- un imprenditore, un iniziatore, un tecnico fornito del genio dell’intuizione dei bisogni nuovi o non espressi, crea l’impresa con mezzi di fortuna, mezzi di gran lunga impari agli scopi da raggiungere;
- l’imprenditore paga o promette di pagare (uno dei segreti della formazione delle grandi imprese automobilistiche moderne pare sia consistito nell’intervallo fra l’acquisto dei mezzi di produzione e il loro pagamento) gli strumenti ed i collaboratori della produzione; li paga al prezzo di mercato, senza sfruttare nessuno, anzi facendo crescere sul mercato il pregio dei fattori richiesti
- col ricavo della produzione paga i fattori di produzione, e reimpiega nell’impresa gli utili ottenuti; – quando l’impresa ha raggiunto l’optimum o quello che egli ritiene l’optimum di organizzazione e di produttività netta, egli capitalizza gli utili probabili futuri, vendendoli ai risparmiatori;
- i quali entrano in scena quando il ciclo industriale ascendente è chiuso; quando si tratta sovrattutto di conservare e, se di ampliamenti ancora si parla, sono ampliamenti lungo linee note, profittevoli se si segue il precetto di compierli con il reimpiego degli utili interni, rovinosi spesso quando davvero si faccia appello a capitale fresco estraneo. Se al capitale nuovo conviene ricorrere, ciò si fa per lo più attraverso obbligazioni o indebitamenti, serbando, anche nella forma legale, qualità di servo al capitale.
Guai al capitale, ammesso a partecipare agli utili delle intraprese, dietro pagamento di un congruo prezzo di acquisto degli utili futuri – epperciò appunto dicesi capitale – se esso non è in grado di conservare o di trovare l’uomo ai cui servigi umilmente mettersi! Ricordo sempre una interessantissima conversazione con un economista americano, L. C. Marshall, in cui egli mi narrava degli sforzi che le corporazioni (società anonime) del suo paese fanno spesso per conservarsi un uomo alla testa; e questi comincia coll’entrare con la promessa del 10% degli utili e, alla scadenza del contratto, pretende il 25 per cento; e in seguito vuole la consegna gratuita di un quarto delle azioni e poi della metà e poi le esige tutte; e ogni volta gli azionisti assentono riducendosi a puri creditori o quasi, perché val meglio contentarsi delle briciole abbandonate dal capo che correre l’alea di rimanere privi dell’opera da essi stimata necessaria alla vita dell’impresa. E, conversando, il mio pensiero ricorreva a casi italiani di uomini che, entrati in camicia o quasi in un’impresa, ne erano divenuti i padroni e nulla temevano di peggio i soci-capitalisti che di vederli andarsene e perciò li ricolmavano di doni, di uso di automobili, di interessenze crescenti, di quote gratuite di comproprietà. Eppure i dirigenti, secondo la terminologia marxistica, dovrebbero essere classificati tra i proletari e gli azionisti tra i capitalisti e questi dovrebbero star sopra ai primi; e borghesi dovrebbero essere detti i capitalisti e non borghesi, perché accaniti lavoratori, i dirigenti!
Il concetto di «borghese», oltreché essere equivoco dal punto di vista storico considerato dal Croce, lo è dunque ugualmente da un punto di vista economico; e poiché non lo si può, senza abbassarlo al livello delle commedie, applicare a quei poveri untorelli di capitalisti, né decentemente si può svalutare l’intelligenza direttiva degli imprenditori e capitani d’industria col nomignolo di «borghese», così miglior consiglio pare sia quello di abbandonar del tutto lo sfortunato vocabolo, relegandolo, oltreché a significare il mediocre nel sentire, nel costume e nel pensare, a due altri usi, che non vedo ricordati dal Croce: il primo dei quali è comune tra soldati, per indicare le persone non obbligate a vestire uniforme militare, ed il secondo è frequente nelle campagne del Piemonte, dove i «signori» ed i «contadini» chiamano «borghesi» o boursüas i bottegai e in genere il minuto medio ceto del concentrico degli abitati. Così, modestamente, finiscono le grandi categorie storiche!
9. La teoria del materialismo storico continua ad occupare il Croce, sia nel Contributo alla critica di se stesso, sia negli Aspetti morali della vita politica; e bene a ragione poiché pochi diedero, al par di lui, opera fruttuosa a chiarire il significato e l’importanza di quella teoria. Ma non so tacere due impressioni: la prima si è che il Croce sia, quasi senza avvedersene, portato a valutare o a dare importanza a scritture di teoria o di storia economica, a seconda che esse si occupano o meno di quel problema. L’efficacia, ad esempio, dell’opera del Sombart a pro del progresso della storia economica e sociale è assai diversamente apprezzata nel mondo degli economisti; laddove gli storici politici, pur criticandola e respingendola, fanno gran rumore attorno ad essa: ed anche il Croce ne tiene un conto che, da quel che egli stesso ne dice, appare immeritato. Meritato o no, importa rilevare che se le scoperte o le affermazioni degli storici tipo Sombart hanno un valore, quel qualunque loro valore non ha alcun rapporto con l’indole cosidetta economica dei loro studi o con un autorità che potesse ad essi derivare dalla circostanza di affermarsi o di essere creduti economisti. Indole ed autorità cosifatte non sono universalmente riconosciute dai cultori dell’economia.
La seconda impressione è che, anche nel giudizio di avvenimenti recenti, quella filosofia materialistica eserciti tuttora un’influenza eccesiva sul pensiero del Croce, sì da indurlo ad affermazioni che a me non paiono provate. Il che, per connessione a quanto si legge nel Contributo alla critica di se stesso, si può osservare sovrattutto rispetto ad una tesi sostenuta nella Storia d’Italia.
10. – Non posso cioè consentire nell’accettazione, che parmi il Croce faccia (cfr. in Storia, p. 292-293 e 345 della teoria secondo cui la guerra ultima sarebbe stata ricca di motivi industriali e commerciali, tutta nutrita d’incomposte brame e di morbosa fantasia una sorta di guerra del «materialismo storico» o dell’«irrazionalismo filosofico». Non oso dir nulla dell’influenza dell’irrazionalismo filosofico; ma quel dare al «materialismo storico» (che nella nota a pag. 345 è, del reato, ricordato da solo) importanza di fattore determinante della guerra parmi davvero non conforme alla verità storica. È, lo so, quell’opinione propria non solo del Croce, ma di moltissimi che oggi discorrono ancora delle origini della guerra. Ma appunto l’essere quell’opinione la più accettata dovrebbe essere bastevole motivo ad allontanarne il Croce, troppo disdegnoso delle opinioni comunemente accettate. È ovvio pensare che la guerra mondiale sia stata causata dal desiderio reciproco di sopraffarsi economicamente della Germania e dell’Inghilterra; a cui poi si sarebbero aggregati gli Stati Uniti nell’impresa di arraffa-arraffa dei mercati di vendita e nel tentativo di conquista del dominio economico mondiale. Ed è vero che nella letteratura germanica ante-bellica si trovano abbastanza copiose traccie di libri o libercoli intesi a dimostrare la necessità assoluta per la Germania di imporre con la spada il dominio della propria economia sugli altri paesi del mondo. È vero anche che tra i sovventori della letteratura allarmistica degli anni anteriori alla guerra figurarono, come risultò in taluni scandalosi processi giapponesi pre-bellici, grandi imprese di armamento e di forniture militari, ansiose di crescere per tal modo le loro vendite agli Stati. Ma, contro alle forze economiche le quali spingevano alla guerra, sia perché di essa vivevano (imprese di armamenti), sia perché reputavano od immaginavano di avvantaggiarsi da un’annessione forzosa di territori provveduti di materie prime o di mercati di vendita, stavano le altre forze economiche, ben più numerose e importanti e potenti, le quali traevano alimento dalla pace e vedevano con terrore ogni prospettiva di guerra. Nessuno immaginava che si potesse guadagnare di più nel tempo di guerra; e se avessero avuto tanta forza di immaginazione, i più avrebbero allontanato da sé l’amaro calice dei sopraprofitti bellici, perché avrebbero avuto altresì la capacità di vedere, al di là dell’effimero guadagno, il danno permanente dell’intervento opprimente statale, della legislazione confiscatrice, della propria rovina probabile a pro dei nuovi venuti, del malcontento delle classi operaie, del pericolo di rivoluzioni sociali o del propagarsi di infezioni sovvertitrici dai paesi rimasti vittime della peste comunistica. Tutta la banca, il che vuol dire, il cervello dirigente della macchina economica, tutta l’industria che provvede ai bisogni ordinari della popolazione civile, tutta quella che era occupata alle costruzioni di case ed agli impianti nuovi, tutta l’agricoltura, che teme le devastazioni dei foraggiatori e, se lontana dal teatro della guerra, ritiene non a torto che la tranquillità del lavoro operoso sia la garanzia migliore di buoni sbocchi per le sue derrate, tutto il commercio, che desidera pacifiche le vie di terra e di mare, erano contro la guerra. Quelle che si agitavano e facevano rumore erano poche industrie al margine, specificatamente viventi sugli apprestamenti bellici, il che non vuole ancora dire sulla guerra, ovvero da una loro particolare e temporanea crisi spinte a farneticare salvezza in una novità qualunque che desse loro quei mercati che da sé erano incapaci a trovarsi. Non parlisi poi dei teorizzatori dell’economia, i quali erano fin troppo propensi a porre la pace come una delle condizioni essenziali per la produzione della ricchezza. L’onere di provare la verità della tesi secondo cui la guerra mondiale sarebbe stata una guerra tipica del «materialismo storico» opera dovuta principalmente «a motivi industriali e commerciali» spetta dunque a chi l’assevera; e poiché sinora quella prova, s’intende una prova seria, non dedotta dalle vociferazioni di pseudo – economisti di nessuna reputazione scientifica, non è stata data, parmi si possa, assai più fondatamente, contrapporre alla tesi del Croce l’altra che la guerra fu decisa contro l’interesse e la volontà delle forze economiche più potenti, che della guerra avevano terrore e seppero adattarvisi solo a stento ed attraverso a un ben comprensibile smarrimento ed a timori diffusi di catastrofe. Ossia, in quel momento, le forze ideali, qualunque si fossero, ebbero il sopravvento sulle forze materiali ed economiche; ed ebbe nuovamente ragione Adamo Smith quando proclamava che la «difesa ha importanza di gran lunga maggiore della opulenza». Gli interessi materiali si inchinarono dinanzi alle ragioni ideali che in ogni Stato decisero della partecipazione alla guerra; l’istinto pacifico del mercante, del banchiere, del manifattore, del contadino cedette il posto all’impulso patriottico dell’uomo che sapeva di gittare nella fornace ardente i beni suoi materiali pur di salvare e crescere certi beni spirituali od immateriali che, se non da tutti erano visti chiaramente, in confuso erano profondamente sentiti dai più e li spingevano allo sbaraglio.
11. – Come il Croce sia giunto a dare ai motivi economici un così gran posto tra i fattori determinanti della guerra, si può arguire pensando al posto ragguardevole che egli ha sempre dato al problema degli studi intorno al materialismo storico. Si ha quasi l’impressione, leggendolo, che i dibattiti accesi intorno all’importanza del fattore economico come determinante dei destini dell’umanità, e di quelle che Marx chiama le sovrastrutture politiche, religiose, morali e perfino letterarie abbiano davvero avuto gran parte nella storia del pensiero italiano ed europeo di un certo periodo prima del 1905. Per fermo, ripetasi, va messa in gran luce l’importanza del contributo recato dal Croce alla chiarificazione del problema. Ma anche qui spetta ai suoi assertori dimostrare che quel problema fosse davvero dominante e quasi esclusivo e che la sua importanza fosse quasi un riflesso della dominazione effettiva che i fattori economici avevano nel mondo, tanto effettiva e grande da condurre poi alla guerra. Rovesciata, come fu fatto sopra, la tesi storica la quale connette la guerra a motivi economici, resta non dimostrata l’altra tesi che per un certo periodo anteriore al 1915 fosse diffusa e dominante nei ceti che pensavano la concezione materialistica della vita.
È curioso che quel modo di vedere non interessò quasi affatto gli economisti, i quali per ragioni di studio avrebbero dovuto occuparsene di più; e ciò accadde non per una certa loro ristrettezza mentale, quanto piuttosto perché essi non amarono perdere tempo in esercitazioni, forse utili agli storici, bisognosi di dare importanza anche a fattori di solito trascurati, ma poco suggestive per chi dalla consuetudine quotidiana con essi era portato a dare ai fattori economici solo quella subordinata posizione che essi si meritano ed aspirava, per tirare il fiato alla sera, a qualcosa di più alto che non fossero i soliti prezzi e salari e profitti. Sta di fatto che quei dibattiti passarono come acqua limpida sull’incremento, che allora fu tanto e così rapido, della scienza economica, senza quasi lasciar traccia di sé. Quei dibattiti lasciarono invece tracce profonde nell’incremento «continentale europeo» della potenza delle classi operaie. Ma qui il Croce mirabilmente chiarisce come quelle idee di materialismo storico agirono, non per quello che esse letteralmente dicevano, ma come idea atta a dare coscienza di sé ad uomini da secoli addormentati e di se stessi inconsapevoli. Cosicché la fiamma che in Italia e fuori d’Italia si accese al lume della concezione materialistica della vita, fu, tra molto disordine e confusione di lingue, una rinnovata coscienza umana in masse che prima erano quasi brute. La lotta per la elevazione delle paghe, per il maggior riposo quotidiano e domenicale, per la sicurtà contro gli infortuni e la vecchiaia e le malattie parve, in bocca ai socialisti, una lotta per lo spossessamento materiale della classi dirigenti. Fu, in realtà, ed oggi, a distanza, appare chiaramente essere stata una lotta per l’elevazione morale e spirituale non delle masse soltanto, ma anche delle classi proprietarie, che si volevano in apparenza distruggere.
12. – Sono così passato a discorrere della Storia d’Italia dal 1871 al 1915, della quale non dirò più per guanto ha tratto all’economia di quel tempo; ché sul punto più controvertibile, ossia sulla interpretazione materialistica delle origini della guerra, mi dilungai già abbastanza e per il resto, la Storia raccoglie notizie sicure, cautamente e criticamente esposte. Piuttosto, voglio confessare candidamente, contro a quel che ne dissero i più degli amici e degli avversari, che quella Storia non mi parve un libro di polemica politica. Il successo librario che il libro ebbe e le polemiche politiche che suscitò sono il seguito inevitabile di tutti i libri di storia i quali diedero ad un periodo storico passato una interpretazione diversa da quella che era divenuta oramai pacifica. La Storia del Croce rimarrà nella nostra letteratura per avere primamente narrato il travaglio della vita italiana durante un periodo storico (1871-1915), intorno al quale era venuta formandosi, fin da quando esso era in pieno sviluppo, l’opinione, con facilità accettata e divenuta quasi pacifica, di mediocrità grigia, di abbassamento morale, intellettuale ed economico, di disintegrazione politica e sociale. Si contrapponeva quel periodo al glorioso Risorgimento nazionale e si provava una stretta di cuore a tanta decadenza. Gran merito del libro di Croce è di aver dimostrato, in modo definitivo, che l’Italia del 1871-1915 non fu né mediocre, né decadente, né disintegrata; che in quegli anni grandi problemi furono posti, vissuti e, per quanto si possono risolvere problemi, risoluti; che una intensa e varia esperienza economica e intellettuale fu accumulata, sicché alla fine l’Italia era diversa da quella del 1860-1870 e perciò più atta a superare le nuove prove che l’attendevano nel 1915. Naturalmente, il Croce, filosofo e storico, dà la dimostrazione del suo assunto in conformità al suo abito mentale, alla sua concezione della vita così come da tutti gli storici sempre si fece e, sinché non si scopra quell’entità fantastica detta storia «oggettiva», sempre si farà . Perciò ognuno di noi, leggendo, pensa che, se egli si fosse sentito da tanto da scrivere quella storia, l’avrebbe scritta diversamente, perché, trattandosi di accadimenti vicini, ricordati ancora da molti, ognuno se n’era fatta un’idea propria, diversa probabilmente da quella che espone il Croce. Il guaio si è, che bene spesso le idee dei lettori sono confuse e non organate; laddove il Croce ha rivissuto quel periodo, lo ha riorganizzato nella sua testa e ci ha dato una storia, dove si legge almeno chiara una affermazione conclusiva: che un’Italia c’era e che essa fece dal 1871 al 1915 non fu né mediocre né infecondo. Altri dirà che l’Italia d’allora fu diversa da quella che vide il Croce e che le cose compiute furono quando mediocri e quando alte per ragioni e in momenti differenti da quelli asseverati da lui; e potrà darsi che queste altre storie, quando saranno scritte, siano anche esse degne di rimanere come quella che ci sta dinnanzi agli occhi. Allo scopo di recare un lievissimo contributo a quest’opera di revisione continua del concetto che noi ci facciamo del passato, io, invece di riassumere un libro che, immagino, sarà stato già meditato da tutti coloro sotto i cui occhi cadranno queste linee, rileverò una lacuna, che mi pare di scorgere chiaramente nella Storia.
13. – Parmi cioè che il Croce dia troppa importanza, quanto a capacità di foggiare i destini italiani, ai dibattiti che si accendevano sui piccoli fogli d’avanguardia, mensili o settimanali, che si scrivevano e leggevano tra giovani e certamente contribuirono assai a creare le correnti d’idee dominanti poi nel paese; troppa non in sé, ma in rapporto allo scarsissimo peso che egli dà a quell’altra specie di fogli, che era la sola letta dal pubblico, la sola, attraverso a cui le idee elaborate dai filosofi e dagli scienziati, agitate dai giovani, giungevano al grosso pubblico, agivano sugli uomini politici e li facevano determinare a questa o quella azione concreta. La lingua batte dove il dente duole; e si perdonerà perciò a chi, in altri tempi, per quasi trent’anni, visse la vita del giornalismo quotidiano, di augurare che qualcuno scriva la storia del giornalismo italiano dal 1860 al 1915. Sarebbe un capitolo non ultimo della storia generale d’Italia in quel tempo e dimostrerebbe quanto si fosse allora faticato e che cosa grande fosse stata costrutta in quel campo. I più avevano avvertito che a poco a poco il giornalismo si era trasformato; e per lo più si lamentava che da foglio di idee, fatto vivere dai fedeli di un gruppo o di un partito, per difendere le idee del partito, il giornale fosse diventato un notiziario fondato su calcoli mercantili di vendita di copie al pubblico e di avvisi agli inserzionisti di pubblicità. Ed altro ancora si lamentava: che i giornali, non più facili a fondare da chi aveva molte idee in testa e punti denari in tasca, dovessero essere oggi mantenuti, a suon di milioni, da gruppi bancari ed industriali, intesi, in tal modo coperto, a difendere i propri interessi privati, per lo più contrastanti col pubblico interesse. Uomini di alto sentire nutrivano opinioni così fatte; ai quali era impossibile persuadere esistessero giornali che non fossero l’organo di questo o quell’interesse, dei cotonieri, dei siderurgici, degli armatori, degli agrari e via dicendo. Non faccio nomi, ché sarebbero invidiosi; ma ognuno, riandando mentalmente a quei tempi sa porre sotto la linea dei cotonieri e dei siderurgici e degli armatori e degli agrari il nome del giornale o dei giornali universalmente reputati essere l’organo di quei particolari interessi. E questi si dicevano «inconfessabili» e si promuovevano disegni di legge in virtù dei quali i gerenti dei giornali avrebbero dovuto farne confessione periodica ed aperta.
14. – Questa sarebbe, se la si fosse fatta scrivere dal cosidetto uomo della strada, uomo, per convinzione propria, accorto e bene in grado di non lasciarsi ingannare dalle apparenze, la storia, in riassunto, del giornalismo italiano dopo il 1860 e fino al 1915. Una storia dunque di decadenza, di abbiezione materialistica, di penne prezzolate; con forse qualche eccezione per i giornali di partito, superstiti quasi soltanto nel campo dei partiti estremi. Non giurerei, a vederlo citare così pochi giornali e questi quasi soltanto di color rosso, che il Croce non partecipi alquanto al sentire comune; e non abbia giudicato necessario di parlare della forza e della influenza dei giornali, perché li reputava probabilmente mancanti di forza propria, meri traduttori in carta stampata di quelle altre forze, economiche per lo più e raramente di partito, le quali solo erano vive ed originarie.
Eppure nessuna storia sarebbe così lontana dal vero come questa scritta dall’uomo della strada; cieco dinnanzi al sorgere ed all’affermarsi di una delle forze più vive ed autonome caratteristiche della civiltà moderna. Esistevano, è vero, giornali di interessi e giornali di partito; ma i pratici di giornalismo sapevano che i giornali di interessi, se erano numerosi e clamorosi, erano tuttavia un investimento a fondo perduto da parte dei siderurgici, armatori, agrari, cotonieri allo scopo di potere addormentare la coscienza degli uomini politici a cui si chiedevano provvedimenti protezionistici o favori di appalti o sovvenzioni e si doveva far mostra di chiederli in nome di qualche principio. Ma non erano letti da nessuno e non esercitavano alcuna presa sull’opinione pubblica, perché, in regime di concorrenza di idee, il fiuto del pubblico era infallibile e, pur protestando che i giornalisti erano tutte penne prezzolate, comprava e pagava solo quei fogli che in cuor suo sentiva non essere pagati da altri che dai suoi soldi. Più letti erano i giornali di partito, specialmente quelli socialisti, quasi soli sopravvissuti della specie; ma quelli stessi che avidamente li compravano e li leggevano per rafforzarsi nella propria fede religiosa, spesso acquistavano un secondo ed un terzo giornale, di notizie, per sapere, dicevano essi, come andavano le cose in questo vil mondo borghese. Le grosse tirature dell’«Avanti!» non fecero diminuire mai ed io sono persuaso crebbero la vendita dei fogli di notizie.
15. – Che cosa era quest’ultima varietà giornalistica?
Era la creazione di alcuni pochi uomini, tanto pochi che forse si stenta a far passare, noverandoli, tutte le dita di una mano, i quali avevano capito che nel mondo moderno c’era posto per una industria nuova, indipendente da tutte le altre industrie, intesa a vendere al pubblico notizie e avvisi di pubblicità . Sembra un’idea da poco; ma quegli industriali i quali fornivano milioni per fondare giornali e poi si arrabbiavano nel constatare che nessuno leggeva i loro giornali ed essi avevano buttato i milioni, non avevano capito che i milioni erano inutili, anzi dannosi; che il mezzo più sicuro per non vendere neppure una copia era quello di spendere denari di altre industrie per far vivere quella giornalistica; e che l’unica speranza di successo era per il fondatore di un giornale di non accettare quattrini da nessuno e far fuoco colla propria legna. Ignoravano, costoro, che il maggior giornale italiano di notizie era stato iniziato, come si disse sopra (par. 8) ad altro proposito, dal suo fondatore senza un soldo, sulla base di una modesta cambiale firmata da alcuni suoi facoltosi amici, e scontata nei modi ordinari, cambiale che fu a poco a poco rimborsata coi proventi del giornale medesimo; il quale, d’allora in poi, sempre pagò a quegli amici ed ai loro eredi fior di dividendi e, sempre dando e mai ricevendo nulla, poté perciò mantenersi, anche nei loro rispetti, indipendentissimo. Ignoravano che il secondo, per tiratura, giornale di notizie fu assunto, da chi ne rimase proprietario per circa un trentennio, con un modesto apporto impiegato a salvarne la continuità del nome dalla rovina a cui l’aveva tratta l’essere stato sin allora un giornale di partito e di battaglia politica. E dopo quel primo ed unico apporto, sempre quel giornale fornì utili generosi, perché non ricevette mai nulla da nessuno, fuorché dai soldi dei suoi lettori e dal prezzo degli avvisi di pubblicità, apertamente stampati e venduti come tali. Da questa premessa perentoria nacque la conseguenza che il giornale di notizie dové, per vivere, vendere unicamente quelle notizie e quegli avvisi che erano meglio in grado di crescere la sua vendita, ossia i suoi introiti. Nella lotta della concorrenza sopravvissero quei giornali i cui dirigenti avevano, dopo la prima fondamentale detta sopra, afferrata un’altra idea semplice: che il pubblico voleva avere, in cambio del suo soldo, merce genuina e non avariata e cioè notizie vere e non false, ed avvisi utili e non ingannevoli. Anche qui so di andare contro a un vezzo, che i lettori comunemente affettavano, di reputare fandonie molte delle cose lette sui giornali e imbrogli il più degli avvisi che si leggevano nelle quarte pagine. Ma era una affettazione, contraria alla convinzione sostanziale di quei medesimi lettori, i quali ben sapevano scegliere il grano dal loglio, l’inventore di notizie sensazionali dal pacato espositore di fatti accaduti secondo le diverse versioni appurabili nel febbrile volgere di poche ore e di pochi minuti, le quarte pagine degli appuntamenti amorosi e della chiave infallibile per vincere al lotto del frate napoletano, dalle quarte pagine, dove accanto ai residui di specifici farmaceutici ancora, non si sa perché, richiesti dal pubblico, si leggevano sovrattutto avvisi di prodotti industriali, richieste ed offerte di lavoro, di casa, di oggetti ed altrettali servigi di intermediazione forniti gratuitamente ad un pubblico, che in cambio del suo soldo aveva già ricevuto abbondante pascolo di notizie. Raccolta e diffusione di notizie vere ed interessanti e fornitura di avvisi utili, ecco i prodotti venduti da questa nuova industria. Se la fabbricazione di tessuti, di macchine, di frutta serbevoli richiede miracoli di intelligenza, di organizzazione, di collaborazione di migliaia di persone, una dall’altra dipendenti ed insieme operose per un fine comune; non è a dire quali tesori di intelligenza, di prontezza di decisione, di sapiente ed elastica organizzazione richiedesse la fabbricazione di quel prodotto immateriale, delicatissimo che è la notizia vera e l’avviso utile. L’Italia assolse mirabilmente quel compito e l’assolse ad un costo così basso che aveva del miracoloso. Chi ricorda il soldo dell’anteguerra e paragona mentalmente i grandi giornali italiani di quel tempo ai «Times» di Londra, ai «Temps» di Parigi, alla «Frankfurter Zeitung» tedesca, ai «New York Times» od alla «Chicago Tribune» deve concludere che i nostri giornali non erano secondi a nessuno: e se riflette poi al minor avanzamento in materia di avvisi, assai più sordi, in paragone, per la minore ricchezza italiana, a rispondere agli sforzi dei direttori di giornali, concluderà forse che, per quanto tocca la materia propria del giornale, in punto di fattura tecnica, di buon gusto nella presentazione e di eleganza nella esposizione delle notizie, a qualche giornale italiano doveva senza fallo essere attribuito il primato assoluto in tutto il mondo.
16. – Su questo granitico fondamento industriale erasi, a poco a poco, innalzata una nuova forza sociale e politica, indipendente da governi, da partiti e da gruppi economici. Se si volesse definire con una parola sola od una frase questa nuova forza si resterebbe imbarazzati. Non si identificava con l’elettorato, perché quei giornali spesso non avevano per sé i risultati delle elezioni politiche ed amministrative; e di qui traevano argomento gli avversari o meglio i criticati da quei giornali a dire che questi rappresentavano solo sé stessi. Non si identificava con il favore momentaneo del pubblico, perché quei giornali per lo più rimanevano freddi di fronte agli idoli od alle passioni del momento. Se una parola può grossolanamente essere adoperata, si può dire che quei giornali rappresentavano a lungo andare una delle correnti dominanti nel paese di quella cosa indistinta ed inafferrabile, ma tuttavia reale ed esistente, che è l’opinione pubblica. Gli uomini politici del tempo, i partitanti, i difensori di questo o di quel gruppo economico grandemente si inquietavano quando si agitava dinanzi ad essi lo spettro dell’opinione pubblica; ed i capi dei partiti parlamentari non capivano perché, usciti vittoriosi dalle elezioni che avevano dato loro il crisma del suffragio dell’opinione pubblica «legale», non potessero attuare il loro programma o far trionfare le loro tesi, dinnanzi alle critiche di quelli che si proclamavano da sé rappresentanti dell’opinione pubblica vera del paese. Anche qui essi non avevano capito che elezioni, voto, parlamento erano necessarie forme legali, mere forme esteriori, tuttavia, di un qualche cosa di più profondo: che era la libera discussione tra tutti coloro i quali avevano qualcosa da dire intorno ai problemi importanti per la nazione. Discutere il pro e il contro di un provvedimento, le varie soluzioni di un problema, decidersi a ragion veduta per la soluzione più conveniente era il vero bisogno del cittadino; non quello di sapere se la soluzione era conforme al credo di uno o dell’altro partito, alla fede di uno od altro uomo politico. Ciò videro subito i giornali di notizie, i quali aprirono le loro colonne alla discussione dei problemi più importanti di politica estera ed interna, economici, militari e culturali del paese e li discussero necessariamente all’infuori dei reticolati dei partiti, degli interessi dei gruppi e delle predilezioni occasionali degli uomini politici. Essi non potevano fare diversamente, perché se avessero condisceso agli interessi dei gruppi od avessero difeso ad oltranza i programmi di un partito, essi sapevano che avrebbero, forse, acquistato il favore del momento di un pubblico facilmente persuaso dai pseudo-ragionamenti con cui si possono sempre contestare programmi partigiani od interessi particolari; ma a scapito del favore permanente di quel medesimo pubblico, risvegliato ad un tratto dall’insuccesso di una politica popolare o messo sull’avviso dalla critica dei gruppi danneggiati. Poiché la vita del giornale andava al di là di quella effimera di un gabinetto o di un partito, il giornale di notizie doveva mantenersi indipendente da ministri e da parlamentari, ai quali non poteva, con loro grande rabbia e scorno, rendere servigio di articoli laudativi, di rendiconti estesi di discorse e di programmi e talvolta doveva infliggere critiche irriverenti per insulsaggini dette o per errori commessi; sicché da ministri e da parlamentari il giornale di notizie era insieme temuto e cordialmente odiato. Odiato, anche perché quei giornalisti professionali, i quali avevano creduto di farsi sgabello della loro forza giornalistica per far carriera politica, si erano veduti bellamente messi alla porta dai direttori dei giornali di notizie, subito dall’esperienza fatti persuasi essere per la loro impresa mortale il pericolo nascente dalla subordinazione dell’indirizzo del giornale o anche di una sola rubrica di esso ai fini privati od all’ambizione, sia pur nobile, di un redattore o collaboratore.
17. – Non minore era l’odio dei gruppi economici, i quali non riuscivano, a cagion d’esempio, a comprendere perché i soci di qualche potente giornale non avessero alcuna voce in capitolo nel determinare l’indirizzo politico e sovrattutto economico del giornale e talun collega di industria di qualcuno di quei soci, male sapeva spiegarsi come costoro, molto correttamente, non varcassero mai le soglie delle stanze di direzione neppure per avanzare il sommesso desiderio di vedere trattato in un senso o nell’altro qualche grosso problema di dazi o di imposte o di sovvenzioni che stava a cuore della classe e si angustiavano apprendendo che della soluzione da darsi, sul giornale, a quei problemi era arbitro non il socio o padrone del giornale, ma un semplice teorico, il quale non riceveva nessuno, ma godeva la fiducia personale del direttore. Ma quei soci e quei proprietari e quei direttori sapevano che solo così, in perfetta indipendenza da partiti e da gruppi, si creava una forza destinata a far presa sull’opinione pubblica ed a crescere autorità morale ad una impresa sorta come una bottega di notizie e di avvisi, ma capace di conservare a sé una clientela affezionata solo a condizione di darle, insieme con le notizie vere e gli avvisi utili, un lume, una guida per orizzontarsi nel groviglio dei problemi contemporanei, politici, internazionali, economici, culturali.
18. – Che anche su questa via, illuminata da grandi esempi forestieri, l’Italia si fosse avanzata dal 1860 al 1915 in guisa che ciò che era inesistente prima era un fatto compiuto allo scoppio della guerra e compiuto in maniera non inferiore a quella osservata nei paesi di esperienza più antica, parmi fatto storico abbastanza importante da meritare un capitolo in una Storia che narri gli accadimenti italiani di quel tempo. Importante, perché la creazione di una forza economica e tuttavia diversa e indipendente dalle altre forze economiche, di una forza politica, separata e indipendente dai partiti politici, di una forza culturale, diversa e non coincidente né con la scuola né con i gruppi di filosofi o letterati; di una forza la cui condizione assoluta perentoria di vita era il rendere servigio al pubblico di notizie vere, di avvisi utili e di discussioni indipendenti, era un grandissimo passo compiuto nella elevazione del cittadino italiano, messo in grado di giudicare, tra il cozzo di opinioni differenti, le soluzioni che gli erano presentate da gruppi economici, partiti politici, scuole, chiese e sette. Ed era, quello, un avvenimento storicamente importante anche perché cresceva il numero delle forze che si contendevano il dominio del paese e, tenendo a freno gruppi economici e partiti politici, potentemente giovava a dare, in tutto, la supremazia a quell’intelligenza meditante o filosofica che, fra le tante forze, più merita, secondo la sentenza di Platone, di guidare i popoli. Ma come poteva farsi sentire la divina filosofia nel clamore degli interessi materiali e nella vociferazione dei partiti politici ansiosi di afferrare, la mercé di un qualunque simbolo, il potere, se non si fosse costituita una forza nuova, dalla necessità di vita costretta a scoprire, sia pure con ritardo e con ovvia circospezione, la via atta a giovare permanentemente alla nazione?
19. – Il fiorire del giornale vivo di una vita propria rispondeva altresì ad una mutazione profonda verificatasi inavvertitamente, in Italia in proporzione forse meno rilevante di altrove, ma tuttavia abbastanza marcata, nei metodi di effettivo governo dei popoli. Le costituzioni sorte alla fine del secolo 18esimo in Europa e in America ed estese poi dappertutto avevano creato un meccanismo di elezioni, parlamenti, gabinetti, a cui legalmente era affidata la somma dei poteri legislativi ed esecutivi. Sinché le funzioni degli Stati rimasero ristrette, quel meccanismo funzionò abbastanza bene, anche perché al potere si avvicendavano gruppi ristretti di uomini appartenenti a classi politiche esercitate nella difficile arte di governare gli uomini. Col giganteggiare degli Stati moderni, coll’affittirsi dei loro rapporti internazionali, economici e culturali, con il moltiplicarsi dei loro compiti, divenuti ognora più tecnici e delicati, con l’estendersi dell’interesse politico a strati sempre più larghi della popolazione, il vecchio meccanismo costituzionale diventò presto insufficiente alla bisogna. Quei pochi uomini che formavano i parlamenti e si alternavano al potere nei gabinetti, diventarono incapaci a dominare la grande e crescente mole degli affari pubblici. Non perciò era possibile e conveniente mutare metodi di governo. Coloro che allora proclamavano il fallimento dei politicanti incompetenti e affannosamente cercavano e discutevano soluzioni di parlamenti professionali, in cui il potere fosse affidato ai competenti dei singoli rami d’industria o di commercio o di agricoltura o di arti o di scienza, non s’erano avveduti che sotto ai loro occhi il problema andava, faticosamente e per tentativi, risolvendosi. La soluzione non stava nel far legislatori i competenti dei diversi rami dell’attività umana: ché, come ben dimostrò il Croce in altro luogo, l’attività politica è diversa dell’attività professionale e tecnica; ed una congrega di industriali, di negozianti, di artisti e di scienziati, non sarà mai, appunto perché composta di uomini ottimi in altri diversi campi dell’attività umana, un’assemblea politica. La soluzione stava nel conservare il potere in mano ai politici; e nel tempo stesso nel rendere questi accessibili alle influenze dei gruppi sociali. Il processo era visibilissimo sovrattutto in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove ogni interesse, anche minimo, ogni idea, anche balzana, si trasformava in un’associazione, in un movimento, in un circolo; e ognuno di questi raggruppamenti si sforzava di far proseliti, di acquistare rinomanza e forza, di farsi sentire nelle aule legislative. I grandi emendamenti alla costituzione americana non originarono dalla classe politica propriamente detta. Basti citare l’emendamento che introdusse l’imposta sul reddito nel sistema delle imposte federali, dovuto alla tenace propaganda scientifica di pochi studiosi, tra cui eccelle lo Seligman, e quello che proibì le bevande alcooliche, imposto da associazioni proibizionistiche e da gruppi religiosi.
Il meccanismo suffragistico e parlamentare era la forma legale, attraverso a cui facevasi sentire l’impero effettivo dei raggruppamenti professionali, degli interessi economici, delle nuove correnti di idee. Ma il tipo di governo della cosa pubblica che così andavasi costituendo aveva questo di caratteristico: che nessuna legge riconosceva i gruppi, le associazioni, le organizzazioni economiche, religiose e classistiche. Era un caleidoscopio di forze, che si formavano, divenivano potenti e si scioglievano. Ad ogni decennio le forze dominanti erano diverse da quelle che nel decennio precedente avevano tenuto il primo piano sulla scena del mondo. Tale associazione, che aveva in un certo momento fatto tremare la società dalle fondamenta, qualche anno dopo era un mero ricordo storico. Nessuna legge l’aveva riconosciuta, nessun testo ne aveva irrigidita la struttura e perpetuata nel tempo. Ogni forza si faceva sentire sinché aveva un’anima, un pensiero, qualcosa da dire al mondo, una battaglia da sostenere e forze da vincere.
Il giornale di notizie ebbe gran parte nello scoprire, nell’incoraggiare le forze sociali meritevoli di esercitare un’influenza sulle sorti del proprio paese. Poiché la sua forza consisteva nel farsi eco delle correnti di opinione pubblica, nel sentire i bisogni del popolo del cui favore quotidiano viveva, il giornale doveva ogni giorno scoprire i bisogni di carattere pubblico che erano insoddisfatti e pur meritavano attenzione. Il quotidiano veniva, in questo ufficio, rimorchiato dai fogli settimanali e dai giornali d’avanguardia, il cui compito era per l’appunto di far sapere che un’idea era sorta, che un gruppo si era formato, che qualche nuovo scopo pretendeva di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica, del parlamento e del governo. Ma, sebbene venisse dopo, il grande giornale di notizie non aveva perciò un compito meno grave, spettando ad esso di scegliere, fra i mille e mille, quegli scopi. Quegli interessi, quelle iniziative che rispondevano davvero ad un bisogno reale del paese. E scelti, farsene paladino e imporli all’attenzione dei politici. Si capisce perciò come ai giornali di notizie interessassero poco le elezioni o queste dessero loro torto; poiché quando uno scopo, un programma era talmente maturo da essere fatto proprio dai politici e da mutarsi in ragione di lotta elettorale, altri gruppi, altre idee già stavano formandosi, la collettività che si era scissa secondo certe linee in relazione ai vecchi problemi, già si scindeva diversamente in rapporto a nuovi problemi; ed il giornale, per ufficio suo chino coll’orecchio a terra per intuire la direzione delle nuove onde sociali, bandiva nuove campagne, poneva nuovi problemi, con inquietudine dei politici arrivati, i quali vedevano messa in forse la propria situazione, nel momento in che credevano di aver raggiunta la meta. La guerra interruppe questo lento lavorio di trasformazione sostanziale degli ordini costituzionali, entro i quadri immutati delle forme antiche; e subordinando tutti gli intenti a quello della salvezza dello Stato, ridiede importanza alla classe politica propria in confronto alle altre forze sociali.
L’iniziativa della guerra non fu, specialmente in Italia, del parlamento, ossia dei rappresentanti legali del paese. Questi erano rimasti indietro e non sentivano i nuovi ideali. Erano troppo soggetti all’incubo dell’ondata socialista, per sentire le correnti ideali che scuotevano l’Europa e l’Italia. Di nuovo, l’iniziativa spettò ai gruppi di avanguardia ed ai giornali che se ne fecero araldi. Non tutti compresero che si combatteva davvero una grande battaglia contro la minaccia di una nuova egemonia militare, del tipo di Filippo II, di Luigi XIV e di Napoleone; e si può consentire col Croce che gravi fossero le ragioni di opinare diversamente. Ma quei gruppi e quei giornali, che rendendosene liberamente e volontariamente interpreti, vollero la guerra e la imposero ad un parlamento riluttante, non violarono la costituzione. Essi continuarono, in modo che attrasse, per la solennità del momento, l’attenzione di tutti, un processo iniziato ben prima ed in virtù del quale già altre volte correnti d’opinione divenute potenti nel paese erano riuscite a prevalere su maggioranze parlamentari formatesi prima in ubbidienza a correnti venute poi meno; ma gli organi legali avevano ancora abbastanza forza – e probabilmente avrebbero, per la competizione dei gruppi «volontari» non riconosciuti e soggetti a deperimento, visto crescere questa loro forza di resistenza – per «registrare» la volontà dei gruppi solo quando questa fosse divenuta volontà di tutti gli uomini pensanti del paese. Quel che accadde dopo il maggio del 1915 esce fuori del quadro della Storia che qui si esamina.
20. – L’ultimo scritto compreso nell’elenco risale al 1641 ed è pubblicato dagli editori Laterza per onorare la memoria del quarto dei fratelli componenti la grande ditta editrice barese. Pietoso ricordo; di cui il Croce in una acconcia prefazione mette in luce l’importanza storica. Benché sia uno dei tanti trattati seicentisti che la tristizia dei tempi provocava a scrivere intorno all’arte del fingere, del simulare e del dissimulare, dell’astuzia e dell’ipocrisia, il trattatello del Torquato Accetto dagli altri si distingue per la rara sollecitudine morale con cui l’autore consiglia la virtù della dissimulazione non per elogiare chi tace il vero, ma per chiarire che la cautela e la dissimulazione sono laudabili quando equivalgono al ritrarsi in sé, allo stornare la mente, al fissarla nella speranza, al persuadersi nella fiducia che presto al silenzio possa sostituirsi la parola sincera.
[1] Con l’aggiunta di un commento inedito a B. CROCE, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, Laterza, 1928, pp. 354 (dei 20 paragrafi che compongono il saggio qui riprodotto soltanto i primi 11 risultano già pubblicati nella «Riforma sociale») [Ndr].