Popoli dominatori e popoli oppressi
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 16/01/1920
Popoli dominatori e popoli oppressi
«Minerva», 16 gennaio 1920, pp. 41-43
Gli ideali di un economista, Edizioni «La Voce», Firenze, 1921, pp. 229-237
L’India e l’Egitto furono due grandi speranze della Germania durante la guerra. Sollevare il mondo musulmano agitando l’idea della riunione di tutti i seguaci del Corano sotto la bandiera del Califfo, eccitare i partiti nazionalisti indiani ed egiziani; separare nettamente la Russia dall’India risuscitando una antica e quasi spenta idea panturanica, destinata a riunire la razza, non più la religione, dei dominatori turchi del residuo impero musulmano con i fortissimi nuclei turanici del Turchestan e delle altre regioni russe poste sopra all’India e al Tibet; stringere così, grazie ai buoni uffici dei giovani turchi, la mano ai gruppi atavici affini della Cina occidentale estrema.
Il piano grandioso di dominazione mondiale non fu forse mai compiutamente avvertito in Italia, dove lo sguardo si estende al più, in politica internazionale, sino ai lidi dell’Africa, al Mar Rosso e all’Asia Minore. Videro invece nettamente quel pericolo gli Inglesi e si adoperarono a sventarlo con la spedizione di Mesopotamia, che doveva impedire l’arrivo degli eserciti tedeschi fin sul mar persico, con la difesa del canale di Suez e la conquista della Palestina, con la creazione del Regno d’Arabia, con un’opera inavvertita di penetrazione compiutasi, dopo il dissolvimento massimalista dell’Impero russo, nelle regioni del centro dell’Asia situate di là dall’Himalaia. Quel cerchio di ferro che doveva stringere al collo la dominatrice dei mari e farla cadere al suolo, oggi è una cintura magnifica di protezione dell’Impero britannico. L’Egitto e l’India, e con essi l’Africa meridionale e l’Australasia, sono protetti dalla Palestina, dall’Arabia, dalla Mesopotamia e dalle zone di influenza del centro dell’Asia.
L’impero britannico, non più minacciato dall’esterno, pare tuttavia vacillante per dissidi interni: l’Irlanda rivoltosa costituisce un governo repubblicano indipendente e segreto allato al governo ufficiale, per le vie d’Alessandria e del Cairo corre a rivi il sangue egiziano, e dall’India giungono notizie di movimenti insurrezionali gravissimi. L’idea della autodecisione e delle nazionalità, agitata dall’Inghilterra e dall’intesa durante la guerra contro il sogno germanico di dominazione mondiale, si rivolta contro l’Inghilterra medesima, la grande dominatrice.
Tutta la gente fatua, che sui giornali italiani e francesi ha bisogno di inneggiare ai popoli oppressi, tutti i germanofili hanno fatta propria la causa dell’Irlanda, dell’Egitto e dell’India. E ritengono che, insieme alla conculcata libertà dei mari, alla ferma decisione dell’Inghilterra di non allentare la mano la quale detiene Gibilterra e Suez, il ricordo dell’Irlanda, dell’Egitto e dell’India basti a dimostrare l’ipocrisia profonda delle dichiarazioni anglosassoni di voler combattere per la libertà del mondo, e l’abisso di schiavitù effettiva in che siamo caduti per resistere a quello che in sostanza, essi aggiungono, era un immaginario sogno di dominazione, anzi una calunnia inventata dagli inglesi contro l’egemonia germanica.
Di qui la simpatia di tanti cuori sensibili verso le nuove nazioni oppresse dal tallone britannico, l’ironia sarcastica di tante penne scintillanti contro coloro i quali hanno avuto il torto di invocare ragioni ideali e mondiali per spingere l’Italia a fianco dell’intesa. Di qui lo scoramento di molti i quali chiedono: valeva la pena di sacrificare tante vite e tanti miliardi per rinsaldare sul mondo e su noi un giogo spregevole ed umiliante appunto perché si astiene dal piglio truce ma leale del guerriero ed assume la forma insidiosa della sopraffazione mercantile?
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Il problema è, solo in parte, un problema di oppressione militare e di sfruttamento mercantile. Quando i nemici e gli invidiosi dell’Inghilterra affermano che, se essa ritirasse i suoi eserciti, non un giorno di più durerebbe la sua dominazione sull’Irlanda, sull’Egitto e sull’India, e nessuno ripeterebbe l’invocazione che dall’isola britannica abbandonata dalle legioni romane disperatamente giungeva all’imperatore, di voler conservare la sua protezione ai sudditi fedeli, ormai romanizzati e timorosi di cadere sotto il giogo di barbare tribù, forse affermano il vero, sebbene nessuno possa oggi prevedere se nell’India e nell’Egitto, dilaniati dalle discordie intestine e facile preda di orribili miserie e di tirannie effimere, ben presto il grido di angoscia e di invocazione alla pax britannica non sarebbe prima sommessamente e poi a gran voce ripetuto dalle bocche di milioni di lavoratori industriosi, abbandonati in balia della classe letterata, i cui rappresentanti oggi infestano le capitali europee con le loro querimonie.
Il problema di forza è chiaro: nessun paese rinuncia da sé, salvo vi sia costretto da una forza militare prepotente, alle ragioni della propria esistenza. Quando fosse scissa dal nesso dell’Impero, i suoi porti, i suoi seni, il mare interno tra l’Irlanda e l’Inghilterra diventerebbero nidi di sottomarini, la sicurezza delle comunicazioni della madrepatria con le colonie verrebbe meno. Dopo poche settimane di guerra, l’Inghilterra, incapace ora e sempre a nutrire i suoi figli, dovrebbe arrendersi per fame. Se fossero rotti i rapporti dell’Inghilterra con l’Egitto, le comunicazioni con l’India e con l’Australasia diventerebbero lente e difficili, e quella potenza, la quale, d’accordo con il piccolo Stato indipendente possessore del canale di Suez, vi si impiantasse, potrebbe davvero stringere al collo e buttare a terra il colosso britannico. E chi conosce l’opera compiuta dagli inglesi nell’India, sin da quando la salvarono dall’anarchia sanguinosa e dalla carestia perenne e la ridussero a paese popoloso e ordinato e pacifico, non può credere che essi rinuncino, fuorché costrettivi dalla forza, a quella che essi reputano ed è una grande missione storica e civilizzatrice.
Se le accuse di fondarsi sulla forza si spuntano contro la volontà di vita dell’impero, quelle di nascondere con parole umanitarie una sostanza di sfruttamento mercantile sono frutto esclusivamente della incapacità di comprendere i vantaggi economici grandiosi che una saggia amministrazione può arrecare ai popoli economicamente arretrati. La dominazione inglese nell’Irlanda fu macchiata da colpe gravi nei secoli passati; ma quelle colpe furono largamente riparate con una politica lungimirante che dura oramai da tre quarti di secolo. Scomparsa o quasi la grande proprietà inglese, restituita, con sacrificio di miliardi, la terra ai contadini irlandesi, spezzato il latifondo, ricostruite le case, coperta l’Irlanda da una rete di cooperative di produzione, mai l’Irlanda fu così prospera come oggi; e la sua prosperità fu a mille doppi cresciuta dalla guerra, quando, libera dalla coscrizione militare, essa vendette alla dominatrice jugulata dalla fame i suoi prodotti a prezzi altissimi. La ribellione irlandese d’oggi è la ribellione contro il fiume d’oro rovesciatosi a inondare l’isola verde grazie al relativo impoverimento degli inglesi.
Le stesse verità inconfutabili si possono ripetere per l’Egitto e per l’India. Non mai nella storia quei due paesi ebbero a traversare un periodo di floridezza economica maggiore dell’odierno. Uno dei fatti monetari principali di oggi è l’imboscamento dell’oro e dell’argento in masse mai più vedute nell’India. C’è nel mondo oggi una vera crisi dell’argento, determinata dall’assorbimento senza limiti che i contadini indiani fanno del metallo bianco a scopo di costituirne tesori monetari e trasformarlo in oggetti di ornamento. E le classi più alte requisiscono oro. È un imboscamento che in parte ha salvato il mondo da un rialzo di prezzi maggiore di quello che si verificò di fatto; ma è un indice altresì di risparmi colossali, compiutisi in paesi i quali si pretendono dissanguati economicamente dalla potenza dominante, ed i cui rappresentanti raccontano novelle di aneddoti senza senso e di arricchimenti minori di quelli che essi avrebbero potuto conseguire se avessero potuto mettere liberamente il coltello alla gola delle nazioni europee combattenti per la propria salvezza.
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Tuttavia, questi non sono fatti conclusivi per i popoli dominati e per gli stranieri, come siamo noi. Provano solo che la liberazione dell’Irlanda, dell’Egitto e dell’India ferirebbe a morte l’impero britannico e danneggerebbe economicamente i paesi ora soggetti. Ma anche noi italiani – si deve qui rispondere trionfalmente – volemmo ferire a morte l’impero austriaco; ed anche noi, se ci fossimo contentati di divenire i vassalli della Germania, avremmo guadagnato in ricchezza, avremmo potuto assurgere presto ad un grado di prosperità materiale quale forse non otterremo in decenni di sforzi perseveranti. Tuttavia noi abbiamo avuto ragione di ferire a morte a Vittorio Veneto l’impero austriaco, ed a ragione preferiamo di rimaner poveri piuttostoché arricchire in servitù. Se l’Inghilterra potesse invocar soltanto la forza dei suoi eserciti ed i benefici economici arrecati ai popoli da essa dominati, la sua causa sarebbe perduta.
La sua forza è altrove; è nel principio che essa difende. L’Austria meritava di cadere perché non rappresentava più nulla al mondo: né la armonia delle nazionalità conviventi sullo stesso territorio, né la difesa della cristianità contro il turco o contro il barbaro moscovita. Venuta meno la sua missione europea, essa doveva cadere. I nostri soldati furono lo strumento di questa necessità infrangibile. E quale ideale più alto di organizzazione politica avrebbe saputo attuare la Germania per pretendere a giusto diritto la rinuncia alla nostra indipendenza spirituale? Nessuno; ed oggi i suoi stessi scrittori sono costretti a riconoscere ciò che da tempo avevano osservato gli stranieri: essere la forma politica germanica antiquata e inetta ad elevare il popolo medesimo germanico ad una vita collettiva pienamente consapevole.
L’Inghilterra, difendendo se stessa – e ciò per noi non conta nulla, – difende invece un principio il quale oramai si è imposto anche ai più cechi: il principio che non esiste nessuno Stato veramente indipendente, e che tutti gli Stati sono legati insieme da vincoli, i quali andranno via via facendosi sempre più stretti e saldi. L’indipendenza compiuta degli Stati è un’utopia ed è un male. Non esiste e non può esistere uno Stato, il quale, in tempi di ferrovie, di navigazione a vapore, di telegrafi e di rapporti economici moltiplicantisi, possa vivere autonomo e indipendente. È vero invece che ogni Stato è legato agli altri, che non può senza di essi vivere, che deve limitare la sua sovranità per renderla compatibile con la sovranità degli altri. Alla lunga, la verità che l’indipendenza è un mito irreale, e che solamente è vera la reciproca dipendenza, fa sorgere le utopie della pace perpetua e della universale società delle nazioni. Non occorre qui discutere perché queste siano destinate a rimanere utopie, ossia aspirazioni ideali destinate a tradursi nella realtà in forme contingenti ed imperfette; e come solo per il succedersi di tentativi imperfetti si possa giungere ad una realtà la quale si avvicini all’ideale accarezzato dagli utopisti. Orbene, il più grandioso tentativo di organizzazione di una vera società delle nazioni – oltre a quelli magnifici ma ristretti della Svizzera e degli Stati Uniti – è l’impero britannico. Val più un fatto che mille aspirazioni impotenti. Ed il fatto vero, storicamente non emulato, è che non esiste nell’impero britannico uno Stato dominatore e molti popoli soggetti, ma esiste una vera società di nazioni diversamente partecipanti al governo della cosa comune ed ai relativi oneri, a seconda del rispettivo grado di civiltà e di capacità politica, ma tutte avviate a esercitare una eguale influenza sulla cosa comune.
Finché sul continente d’Europa si persisterà a guardare l’impero inglese e le sue colonie come se i rapporti reciproci fossero quelli medesimi che intercedevano fra l’impero germanico e l’Alsazia Lorena, fra l’Austria e l’Italia irredenta, fra l’impero russo e la Polonia, fra la Turchia e l’Armenia, non sarà mai possibile giudicare rettamente della contesa fra l’Irlanda, l’Egitto e l’India da una parte, e l’Inghilterra dall’altra. Finché i primi vorranno scindere le proprie sorti da quelle dell’associata principale, l’Inghilterra dovrà brutalmente usare la forza delle armi e soffocare nel sangue le rivolte sanguinose, così come fecero gli Stati Uniti contro gli Stati sudisti secessionisti. Quando essi si decideranno ad entrare come soci, a parità di diritti e di doveri, nella grande comunità britannica delle nazioni, l’uso della forza diverrà superfluo. Irlanda, Egitto e India difendono una forma antiquata di consociazione politica; l’Inghilterra difende quella che è l’utopia dell’oggi e sarà la realtà del domani. Se quelle di uguaglianza e di libertà nell’ambito della società britannica fossero solo promesse, avremmo ragione di dubitare della loro serietà. Ma sono realtà attuata per il Canadà, per l’Africa del Sud, per l’Australia, per la Nuova Zelanda, per Terranova, Stati perfettamente indipendenti, ma associati nella cerchia dell’impero per il raggiungimento di fini comuni.
L’ideale a cui si deve tendere è una trasformazione intima, spirituale dei popoli irlandese, egiziano, indiano, per cui essi diventino capaci di governarsi da sé, pure riconoscendo l’utilità dei singoli e di tutti al conseguimento di scopi comuni con sforzi associati.
Questa, e non l’indipendenza assoluta, è il massimo bene a cui i popoli, possano aspirare. Dall’esempio dell’impero britannico noi dovremmo imparare, noi italiani, francesi, spagnoli, americani del Sud, per ricostruire, con ampiezza maggiore, l’impero romano di occidente, con civiltà comune e con ideali propri, da conservare mercé la comunità degli sforzi. Se ciò non sapremo fare, ben difficilmente potranno i nostri popoli conservare un potere politico proprio tra i colossi, i quali di là dai mari si afforzano.
Saremo indipendenti; ma saremo anche una quantità trascurabile nel gioco delle forze spirituali ed economiche che muovono il mondo.