Che cosa è l’impero britannico
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 18/01/1915
Che cosa è l’impero britannico
«Corriere della Sera», 18[1] e 19 gennaio 1915
Gli ideali di un economista, La Voce, Firenze, 1921, pp. 91-111
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 748-763[2]
Che la guerra europea, benché sia combattuta sul continente e benché richieda alle nazioni continentali il sacrificio maggiore di vite, sia in realtà una lotta per il primato fra Germania ed Inghilterra, è verità di cui sono ugualmente convinti inglesi e tedeschi. I quali ultimi, mentre non nascondono le intime simpatie del cuore per i francesi e non repugnano ad accordi con la Russia, considerano l’Inghilterra come la loro vera irreducibile nemica.
È un odio che nelle classi meno colte della Germania trae forse principalmente origine dalla credenza di una supposta necessità di lotta a morte con l’Inghilterra per la rovina economica dell’avversario e la conseguente grandezza propria; mentre nell’Inghilterra e presso le medesime classi sociali si diffondono credenze altrettanto erronee e funeste intorno alla necessità di schiacciare la Germania per salvare l’economia britannica dalla rovina.
Pur non negando che queste false immagini dei pericoli, che discenderebbero dal vigoreggiare della contrada rivale, abbiano grandemente contribuito alla seminagione dell’odio da cui scaturì la guerra, io non intendo qui occuparmene. Certamente anche chi, al par di me, sia persuaso che la rivalità tedesca fu invece non ultima causa del rifiorire grandioso della economia britannica dopo il 1900 e ritenga d’altro canto che il contributo del mercato monetario londinese alla risurrezione dei paesi nuovi dell’America, dell’Africa e dell’Asia fu cagione non trascurabile dello sviluppo meraviglioso della ricchezza tedesca negli ultimi 25 anni, deve riconoscere che le credenze erronee degli uomini partoriscono talvolta effetti più grandiosi delle verità più certe e profondamente meditate. E quindi può darsi che i tedeschi si sentano animati alla lotta contro l’Inghilterra dalla speranza di diventare più ricchi e potenti nel giorno in che siano riusciti ad annientare la loro rivale ricca e potente d’oggi.
Ma è doveroso riconoscere che non tutti i tedeschi ragionano in cotal maniera materialistica e predatoria. Anzi gli uomini veramente rappresentativi della Germania, quelli che dai connazionali sono reputati i veggenti ed i profeti della missione storica germanica aborrono da questa maniera di ragionare. Udiamo il vangelo di Treitschke, alla cui fonte si sono abbeverate tutte le classi intellettuali e dirigenti della Germania d’oggi. Egli non predica la crociata contro l’Inghilterra, perché essa sia una temibile e forte e sana concorrente della Germania. Egli invece la odia perché la reputa una maschera, una entità non esistente, una vergogna che non ha diritto di esistere. «In questo nostro mondo – egli afferma – la cosa che è intieramente una maschera, una falsità, una falsità corrotta, può trascinare la sua vita per qualche tempo, ma non può durare per sempre». Ed altrove: «Non fu la grandezza della sua condotta politica che, come già creò Venezia, ha creato ora l’Impero inglese: bensì l’azzardo della sua situazione geografica, la remissività supina delle altre nazioni e la naturale ed innata ipocrisia della nazione inglese. Vecchia Inghilterra! decrepita e corrotta fino al midollo!».
Se fosse vero che l’impero inglese è una cosa falsa, ipocrita e corrotta, se esso fosse davvero una maschera priva di contenuto, un colosso dai piedi di creta, senz’alcun dubbio il suo fato sarebbe indeprecabile e la storia dovrebbe registrarne ben presto la rovina. Nessuno Stato ha, non dirò il diritto ma la possibilità di vivere quando esso è fondato sull’inganno e sull’astuzia, fortificato dall’ipocrisia e raccomandato ad un’idea falsa di una forza inesistente. I tedeschi – e dico i tedeschi per indicare quel qualunque popolo che si sentisse la forza di rovesciare l’idolo – non avrebbero, se fosse esatta la rappresentazione che essi si fanno dell’impero inglese, ragione di odiare l’Inghilterra perché essa è la loro rivale economica. Essi avrebbero ragione di odiarla e di rovesciarla perché in realtà essa non sarebbe veramente una rivale degna di misurarsi con loro nel campo aperto e libero delle competizioni commerciali; ma una tiranna che colla forza dell’astuzia e dell’inganno cercherebbe di ottenere lucri, a cui sarebbe incapace di giungere onestamente, col lavoro emulatore e fecondo. La guerra contro l’Inghilterra sarebbe una cosa turpe e dannosa, se essa mirasse a distruggere una nazione che ha il solo peccato di rivaleggiare con la Germania colle oneste arti dell’industria e del commercio in campo aperto. La guerra, come la predicò per tanti anni il Treitschke, sarebbe invece una santa impresa perché mirerebbe a togliere di mezzo un mostruoso colosso, chiamato impero inglese, sorto coll’inganno e vivente di frodi diuturnamente commesse a danno dell’umanità . Siccome la vittoria delle idee vere, profondamente rispondenti a realtà , è irresistibile, la caduta della Inghilterra sarebbe inevitabile. Più o meno presto, attraverso la varia fortuna delle armi, l’impero inglese dovrebbe andar distrutto e sulle sue rovine si instaurerebbero altri imperi mondiali. Di fronte a questo problema: della vittoria della cosa viva e reale, dell’idea vera e sana contro la cosa vuota ed ipocrita, contro l’idea falsa; scompare l’altro problema: chi debba vincere tra il business-man inglese ed il commesso viaggiatore tedesco. Costoro sono soltanto le fronde esteriori di un albero che ha le sue profonde radici nella terra; e cadranno prime le fronde di quell’albero le cui radici sono marcie e decrepite.
Il problema è dunque: l’impero inglese è una cosa falsa, una apparenza vana, sorta colla frode e mantenuta coll’ipocrisia? Rispondere chiaramente a questa domanda è nell’interesse così degli inglesi come degli altri popoli; degli inglesi, perché un popolo consapevole dei propri difetti, è sulla via della redenzione; degli altri poiché non giova a nessuno farsi un’idea falsa delle virtù e dei vizi degli amici e degli avversari.
Ora, mentre gli inglesi hanno contribuito moltissimo alla conoscenza di se stessi; mentre tutta la loro letteratura politica è una analisi per lo più straordinariamente oggettiva e critica della loro storia e della formazione del loro impero; non mi sembra che fuori dell’Inghilterra si sia seguito con abbastanza attenzione il movimento di idee e di fatti che tendono alla rinnovazione dell’impero inglese. L’ultimo dei grandi italiani che conobbe a fondo, nello spirito e nelle linee essenziali, l’Inghilterra fu una mente politica sovrana; Camillo di Cavour. Dopo di lui e presso le nuove generazioni, l’Inghilterra non è ancora quella cosa irreale e grottesca che ha immaginato il Treitschke, ma è di nuovo la nazione di mercanti astuti, che sfrutta le fatiche degli altri, che esce arricchita dalle guerre combattute fuori dall’isola superba e padrona delle terre irrorate dal sangue dei popoli ingenui, l’ipocrita che predica in casa d’altri l’ideale della nazionalità ed intanto freddamente commette gli eccidi indiani, annette l’Egitto, distrugge l’indipendenza boera; la nazione missionaria che tuona contro i delitti dei belgi nel Congo e si macchia, senza batter ciglio, degli orrori dei campi di concentrazione del Transvaal. Ed è innegabile che presso gli inglesi si trova suppergiù quella medesima percentuale di gente falsa, ipocrita e crudele che, in identiche circostanze, è esistita ed esisterebbe presso ogni altro popolo della terra. Ma non è di questi incidenti che si compone la gran trama della storia; né da questi fatti possiamo trarre argomento a giudicare della posizione che ebbe ed ha nella storia e nella vita del mondo l’impero inglese; così come nessuno di noi vorrebbe giudicare l’opera grandiosa dell’impero romano sull’unico fondamento delle crudelissime azioni che non di rado i romani commisero contro i popoli nemici e soggetti.
No. L’impero inglese si deve giudicare ricordando che esso è l’unico sopravvivente di quattro anzi di cinque grandi imperi che dal secolo decimosesto al decimottavo si succedettero nel mondo: l’impero portoghese, l’impero spagnuolo, l’impero olandese, l’impero francese ed il vecchio impero inglese. Piuttosto si deve dire, poiché la parola «impero» non è del tutto appropriata, come, prima che sorgesse la odierna «più grande Inghilterra» erano sorte e si erano dileguate cinque altre «più grandi» formazioni storiche, che avevano preso il nome dalla contrada europea relativamente piccola che aveva allargato il suo dominio nei paesi nuovi d’America e d’Asia; il Portogallo, la Spagna, l’Olanda, la Francia e l’Inghilterra medesima. Tutte queste cinque «più grandi» nazioni avevano contribuito alla formazione del mondo moderno; ma tutte scomparvero; e solo qua e là si veggono galleggiare ancora i resti di quelli che parevano un giorno dominii mondiali destinati a sfidare i secoli. Scomparve il «più grande Portogallo»; perché all’opera ambiziosa di popolare e civilizzare il Brasile, le Indie e gran parte delle coste africane male rispondevano la piccolezza della popolazione della madrepatria e sovratutto la ripugnanza ai lavori dell’industria, l’intolleranza religiosa, la corruzione amministrativa degli avversari posti a capo delle fattorie commerciali nelle colonie, la libidine del lucro rapido, che li indusse a voler escludere a forza gli arabi dal commercio indiano e ad instaurare dappertutto un monopolio geloso e sterilizzatore a pro dei negozianti della madrepatria.
Cadde la «più grande Spagna» e nella sua caduta trascinò con sé la madrepatria; perché gli spagnuoli considerarono le Americhe come un terreno da sfruttare, come una riserva di caccia, dove gli indiani fossero stati da Dio creati per scavare l’oro a pro dei dominatori. La superstizione dell’oro non produsse forse mai nella storia una decadenza altrettanto tragica come quella dell’impero su cui il sole non tramontava mai. Lasciate in abbandono le terre e le industrie, gli spagnuoli considerarono come la loro vera industria nazionale quella del guadagnare oro nelle Americhe; e l’oro accumulato sperperarono in guerre incessanti combattute per conservare un dominio odioso in Italia e nei Paesi Bassi ed il predominio nell’Europa. Epperciò, malgrado i galeoni d’oro che formavano l’invidia d’Europa, il tesoro spagnuolo era poverissimo, gli abitanti della madrepatria disusati al lavoro fecondo, i coloniali malcontenti e desiderosi di libertà.
Lo stesso sogno di supremazia europea perdette l’impero francese: a cui tuttavia non avevan fatto difetto le concezioni geniali dei Sully e dei Colbert ed il valore di generali meravigliosi. Anche la Francia volle che le colonie servissero alla madrepatria; pretese che esse dovessero fornirle materie prime e prodotti coloniali, in cambio dei manufatti, di cui in patria si promuoveva l’incremento con privilegi gelosi. I francesi, come è loro costume antico, mandarono nelle colonie funzionari numerosi e brillanti ufficiali di corte: e per correre dietro alle apparenze dimenticarono quella colonia del Canadà che ancora oggi è la dimostrazione vivente dei miracoli che avrebbe potuto compiere nel mondo la Francia religiosa, prolifica, patriarcale, rurale dell’antico regime, se la classe politica dirigente del secolo XVIII non fosse stata così inferiore alla sua missione; e se non avesse ritenuto di potere conservare con guerre incessanti e depauperanti in Europa il dominio del mondo.
Né poté essere salvata dalla decadenza «la più grande Olanda», a cui il possesso di Giava, Sumatra e delle isole della Sonda non basta a conservare lo scettro di impero mondiale, che per un istante pareva avesse conquistato. Abitanti di un paese troppo piccolo per aspirare permanentemente ad una grande situazione europea, privi dei caratteri di una nazione veramente autonoma territorialmente ed idealmente, gli olandesi sovrattutto non vollero l’impero, con tutte le responsabilità e gli oneri gravissimi che esso comportava. Essi si preoccuparono soltanto di conservare quelle colonie da cui potevano ricavare un reddito pecuniario diretto. Ottimi mercanti; esperti e benemeriti amministratori delle isole che sono loro rimaste, mancarono dello spirito imperialistico, avventuroso, idealistico che spiega il fiorire delle colonie di popolamento. L’Africa del Sud avrebbe potuto essere una loro grande creazione; ma gli olandesi l’abbandonarono a se stessa e se ne ricordarono solo, meravigliando, nei giorni dell’eroica resistenza boera.
E cadde finalmente la «più grande Inghilterra» del secolo XVIII; quella che si era silenziosamente e quasi inavvertitamente formata sulle coste dell’Atlantico dopo il 1600. Gli Stati Uniti si separarono perché l’Inghilterra del secolo XVIII, l’Inghilterra di Giorgio II e di Giorgio III, di Walpole, di Lord North e della Cabala non aveva nulla da dire agli uomini religiosi, puritani, che da sé avevano assunto la missione di conquistare la foresta e la prateria al regno di Dio. Nessun vincolo ideale riuniva i fondatori delle 13 colonie nord americane alla madrepatria; ed essi erano intimamente scandalizzati nel vedere con quanta leggerezza il Parlamento inglese, tutto occupato intorno a piccoli intrighi di corte e di piazza, attentava senza accorgersene alle loro franchigie. Le casse di tè, che i coloni buttarono nel porto di Boston indicarono non solo che essi non intendevano di pagare imposte senza avervi prima dato il loro consenso; bensì anche che essi non avevano alcun ideale comune con gli uomini che allora rappresentavano l’Inghilterra. Era un conflitto di coscienze, dal quale pareva che l’idea di un impero inglese non potesse più risollevarsi. Per anni e per decenni si credette in Inghilterra che non fosse né possibile né utile la conservazione di un ampio dominio coloniale. Le colonie si consideravano come il frutto che, giunto a maturanza, si stacca da sé dall’albero che gli ha dato vita. Fatte adulte e robuste le colonie erano destinate a diventare indipendenti, conservando con la madrepatria vincoli puramente ideali e morali; ed il compito della vecchia Inghilterra doveva essere quello di una madre e nutrice amorosa, paga di sacrificare se stessa ai figli e lieta di vederli sciamare pel mondo in cerca di avventure, dimentichi quasi di chi aveva loro dato e conservato la vita.
Questa la teoria dominante dal giorno in cui l’Inghilterra si adattò a riconoscere l’indipendenza delle colonie nord americane fino a ben oltre la metà del secolo XIX. Malgrado essa, noi vediamo oggi l’impero inglese più compatto, più unito, più conscio della necessità di conservare e di intensificare i legami che uniscono le varie sue parti quanto non sia stato mai. La “più grande Inghilterra” del secolo XVIII è scomparsa; ed al posto di essa sono sorti due grandi imperi, tra i maggiori che mai si siano visti nella storia: gli Stati Uniti e l’impero inglese. Come accadde il miracolo della risurrezione di questa che parve 140 anni fa una cosa morta; e quali sono le ragioni per cui gli uomini, che vivono nell’impero, sono concordi nel volerlo rendere, per quanto è possibile in loro, più solido e più forte? Gli imperi portoghese, spagnuolo, olandese, francese ed inglese dei secoli XVI, XVII e XVIII caddero tutti per cause interne. L’urto che venne dal di fuori affrettò soltanto un processo di dissoluzione che si era iniziato ed aveva fatto grandi progressi all’interno. Potrà darsi che stavolta l’impero inglese cada soltanto per l’urto esteriore di una infelice battaglia navale, la quale tolga agli inglesi il dominio del mare. Ma è certo che un disastro navale inglese sembrerebbe corrispondere a una necessità storica, parrebbe lo strumento fatale dell’attuazione di un nuovo ideale umano solo quando, come dicono i teorici tedeschi, l’impero inglese fosse una maschera vuota; una cosa vana e falsa, senza eco nel cuore degli uomini. Perché gli uomini oggi non sono disposti a salutare il giorno del disastro navale inglese, come quello della liberazione dal dominio della falsità e dell’irrealità?
Procurerò di esporre, ordinatamente, i principali tra i perché di questo problema storico, che tanto appassiona inglesi e tedeschi e, di riverbero, non può essere indifferente a noi.
Una prima caratteristica dell’Impero inglese è che esso non si estende al continente europeo. Dopo l’amarissima esperienza della guerra dei 100 anni invano durata fino al 1453 per soggiogare la Francia, l’Inghilterra ha abbandonato ogni sogno di conquiste imperiali europee. Conserva qualche rupe e qualche isola, che ritiene necessarie per la libertà delle sue comunicazioni marittime; ma ha restituito le isole Jonie alla Grecia; ha evacuato la Sicilia e la Spagna; ha venduto Heligoland. Continua a combattere nelle guerre europee e spesso è avversario temibilissimo fra tutti, come nelle guerre contro Luigi XVI, contro Napoleone ed oggi contro la Germania. Ma il suo scopo non è di conquistare un dominio su altri popoli europei; bensì di impedire che uno degli Stati d’Europa acquisti il predominio sugli altri; il che vorrebbe dire a breve o lunga scadenza l’annientamento della sua potenza navale e quindi del suo impero extra-europeo. Così operando, l’azione oramai secolare dell’Inghilterra coincide con l’interesse comune di tutti i popoli d’Europa, salvo di quell’uno che vorrebbe acquistare il predominio sugli altri.
Un’altra caratteristica dell’impero britannico, che strettamente si allea con quella ora ricordata ed è anch’essa negativa, si è che esso non è, a parlar propriamente, un impero. Il concetto di un impero non si dissocia dall’idea di una dominazione di un popolo su altri popoli soggetti ad un’unica amministrazione centrale; in cui tutte le parti obbediscono, almeno nelle linee generali, ad una volontà comune, a cui non possono sottrarsi se non con una aperta ribellione. Nulla di tutto questo nell’impero inglese; di cui le parti vivono disunite ed indipendenti tra di loro; senza neppure l’obbligo, almeno per il più gran numero delle colonie, che sono quelle autonome, di soccorrere la madrepatria nei momenti di guerra. Il Canadà, l’Australia, la Nuova Zelanda, l’Africa del Sud sono venute in soccorso dell’Inghilterra perché così esse vollero; e non perché così potesse loro comandare la madrepatria. La ribellione di alcuni gruppi di boeri nel Sud Africa non sarebbe stata una ribellione se il governo del Sud Africa non avesse liberamente deciso di prendere le parti dell’Inghilterra. Se il governo sud africano, che emana dalla maggioranza boera del Parlamento locale, avesse creduto opportuno di incrociare le braccia, la guerra non sarebbe stata proclamata nel Sud Africa e la ribellione non sarebbe sorta. Tutto ciò è poco imperiale, poco euritmico e fa senso a chi pensi ad un impero nella maniera solita; mentre non meraviglia chi ricordi di trovarsi di fronte ad una agglomerazione di Stati, uniti da una vaga professione di fedeltà al medesimo sovrano, e tenuti insieme da vincoli, che sono fortissimi e di fatto spingono ad un’azione comune e financo ad una guerra combattuta solidariamente, solo perché trattasi di vincoli non legali, sibbene morali e spirituali. Ciò che fa esistere questa entità indefinibile e strana non è la forza delle leggi o delle armi, ma il sentimento di una unità imperiale.
L’impero – ed è questa un’altra delle sue caratteristiche essenziali, forse quella che dà più ai nervi ai grandi teorici tedeschi, i quali concepiscono la missione della Germania al dominio mondiale come la attuazione di un’idea organica ed organizzatrice di incivilimento che la Germania deve, anche colla forza, far trionfare sistematicamente sulla terra – è sorto per caso. Fu per caso che alcuni gruppi di puritani e di quacqueri, per fuggire all’oppressione religiosa in patria, si rifugiarono nei territori deserti del Nord America. Perdute le 13 colonie, per caso si scoprì che il Canadà , conservato sopratutto per la repugnanza di parte dei coloni inglesi ad abbandonare la madrepatria, era un paese di grande avvenire. Il Sud Africa fu il prezzo di baratti accidentali durante le grandi guerre napoleoniche e poco mancò fosse dato alla Svezia. Ancora: l’Australia presa per farne una colonia di deportati; la Rodesia conquistata da un uomo, Cecil Rhodes, in mezzo all’apatia ed all’avversione della madrepatria; la Nigeria e l’Africa Orientale dovute all’iniziativa indipendente di Sir George Taubman Goldie e di Sir W. Mackinnon. Persino l’India, la maggiore delle colonie inglesi, non fu dovuta ad un’opera deliberata del governo britannico. Furono compagnie di avventurieri, in lotta con avventurieri portoghesi e francesi che, profittando della dissoluzione dell’impero del Gran Mogol conquistarono alla madrepatria questo immenso dominio. Finché durò la conquista, fino al celebre ammutinamento del 1857, per un secolo quasi non si trovano traccie nel bilancio dello Stato inglese di spese fatte per la conquista dell’India. Sorto senza una teoria, l’impero inglese vive sovratutto grazie al sentimento della convenienza dei suoi abitanti di conservare reciproci legami politici e delle necessità di formare una unità politica più vasta di quella dei singoli Stati sostanzialmente indipendenti che formano l’impero.
Uno dei motivi che hanno spinto questi popoli ad un’azione comune e che li tengono legati strettamente tra di loro è l’appartenenza alla medesima schiatta inglese. Il fondo della popolazione bianca del Canadà, della Federazione australiana, della Nuova Zelanda, della Federazione sud africana è inglese; il che spiega come quegli Stati sentano il bisogno di tenersi stretti alla madrepatria per averne protezione e difesa e per avere la sensazione di partecipare alla vita morale, politica, religiosa di una grande nazione. Non si tratta più come nel secolo XVII per le colonie nord americane, di gente la quale sia fuggita dalla madrepatria perché aveva un ideale di vita diverso da quello ivi dominante. L’ideale nazionale è sempre anglo-sassone e gli abitanti di quelle, che noi chiamiamo colonie inglesi ma sono in realtà Stati liberi facenti parte dell’impero inglese, lo vogliono far trionfare nel mondo e sentono perciò la necessità di una stretta comunanza di rapporti con la madrepatria con gli altri Stati dell’impero.
Vero è che nell’impero vi sono altri nuclei di popolazione non anglo-sassone; di cui i più interessanti sono i Franco-Canadiani del Canadà, i boeri del Sud Africa e gli Indiani. Ma il modo con cui queste popolazioni estranee alla razza britannica sono tenute fedeli all’impero è una delle più singolari caratteristiche di questa formazione storica. Esso si può riassumere tutto nel rispetto illimitato, spinto talvolta fino alla esagerazione, delle tradizioni di razza e di cultura, e delle autonomie e libertà locali. È difficile trovare una popolazione più lealista dei franco-canadesi, ai quali le leggi riconoscono l’uso della lingua e del diritto francesi, istituzioni particolari amministrative, pienissima libertà di governo locale e perfetta parificazione nel governo federale. È difficile sottrarsi all’impressione che i franco-canadesi abbiano goduto, sotto il cosidetto dominio inglese, di una più ampia libertà ed autonomia che non i francesi in Francia; e che per vari rispetti il franco-canadese sia un’individualità altrettanto originale e potente come il francese della madrepatria. Né possiamo dimenticare come il primo atto compiuto nel Sud Africa dalla nazione dominatrice, dopo la vittoria cruenta e vogliamo anche ammettere odiosa, sia stata la concessione della più larga ed assoluta libertà di governo e di amministrazione ai boeri. Cosicché si poté affermare a ragione che una guerra, intrapresa per dare agli inglesi, che già lo avevano nel Capo e nel Natal, il predominio anche nel Transvaal e nell’Orange, per sottrarre le miniere d’oro alle imposte eccessive boere e per aumentare quindi i profitti degli azionisti inglesi auriferi ebbe per effetto invece: la estensione del dominio della maggioranza boera dal Transvaal e dall’Orange anche al Capo ed al Natal, essendosi le quattro colonie riunite in una sola federazione, il cui governo è boero; la permanenza e l’incremento delle imposte preesistenti e la diminuzione dei profitti delle miniere aurifere.
Non voglio, neppure di passata, discutere e risolvere il gravissimo problema indiano, problema dalle mille faccie, avere affrontato il quale costituirebbe da sola la gloria di un popolo. È però probabile che se la pax britannica riuscirà un giorno a ridestare il sentimento, oggi inesistente, di una nazionalità indiana tra il conglomerato di genti innumeri, varie per razza, per religioni, per lingua, per costumanze che compongono l’India, il miracolo si sarà adempiuto perché l’Inghilterra avrà tenuto fede al programma suo tradizionale di rispettare le costumanze, le fedi, il diritto, i regimi dei popoli viventi all’ombra della sua bandiera. Nessuno può oggi preveder se gli inglesi riusciranno a risolvere il problema indiano; certo è che finora nessuno dei popoli dominatori, che l’India ebbe, fece tanti sforzi e così ostinati e sinceri per risolverlo secondo lo spirito e le aspirazioni dell’India medesima. Gli scrittori germanici fanno gran colpa agli inglesi di non essere riusciti a creare nell’India una religione nuova, che desse una impronta originale e progressiva a quella antichissima civiltà. Creda chi vuole, dopo l’insuccesso italiano del Sacro Romano impero germanico, e dopo la larga eredità di affetti lasciata dagli austriaci nel Lombardo Veneto, alla capacità dei tedeschi di guadagnare le popolazioni soggette ai loro ideali spirituali; ma ci consenta di considerare preferibile il metodo inglese, il quale permette alle popolazioni dell’India di svilupparsi secondo i propri ideali e, mantenendo la pax britannica, si sforza di introdurre solo quelle idee occidentali che gli indiani volontariamente sono disposti ad accogliere.
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Coloro che guardano soltanto alle piccole cose, si compiacciono di affermare che l’Inghilterra sfrutta l’India o L’Egitto o qualche altra colonia perché queste debbono pagare stipendi non piccoli ai proconsoli ed ai funzionari inglesi che sono inviati dalla madrepatria per l’amministrazione coloniale; ed in aggiunta debbono loro pagare larghe pensioni quando essi si ritirano a riposo. Sarebbe questo, in ogni caso, l’unico tributo che l’Inghilterra preleva sulle colonie, anzi sulle sole colonie della corona; poiché nelle colonie autonome l’unico funzionario inglese inviato dalla madrepatria e pagato sul bilancio delle colonie è il Viceré o Governatore, figura puramente rappresentativa e senza alcun potere reale. Ma anche quello non è un tributo; poiché per considerarlo tale farebbe d’uopo supporre che i servigi forniti dai funzionari inglesi non valessero almeno quanto gli stipendi e le pensioni pagati dalle colonie. Il che, chiunque conosca quanto più costassero i ceti dominanti indigeni prima della conquista inglese e quanto rendessero di meno, non potrà ammettere mai.
La vera caratteristica sostanziale dei rapporti economici e finanziari fra la madrepatria e le colonie inglesi è un’altra: la madrepatria deve essere disposta sempre a subire dei sacrifici a favore delle colonie. Questa è l’aurea massima che ha consentito finora al nuovo Impero inglese di durare: la madrepatria deve tutto alle colonie; le colonie non devono essere obbligate a dare nulla alla madrepatria. Per avere violato questa norma fondamentale cadde il più grande Portogallo, cadde la più grande Spagna, e caddero le più grandi Olande, Francie ed Inghilterre dei secoli scorsi. Io non voglio fare un merito all’Inghilterra di oggi di avere spontaneamente applicata la regola aurea; ma è certo che essa ha appreso assai bene la lezione della amara esperienza della perdita delle colonie nord-america. Da quando essa dovette consentire alla indipendenza degli Stati Uniti, l’Inghilterra si convinse che, per conservare le colonie, non v’era che un solo mezzo: essere sempre pronta a spendere largamente per la loro protezione navale e militare e per le opere necessarie al loro attrezzamento economico; ma non richiedere in cambio alcuna restituzione, sotto forma di tributi o di preferenze economiche a proprio vantaggio. Non solo le colonie inglesi non pagano un centesimo di tributo alla madrepatria e questa sostiene al contrario da sola il carico di spese militari, navali e di interessi di debiti pubblici contratti per la protezione dell’impero; ma l’Inghilterra ha consentito alle colonie autonome la più ampia facoltà di maltrattare con dazi protettivi le merci provenienti dalla madrepatria. Ammaestrata dagli insuccessi antichi del regime di preferenze doganali l’Inghilterra non soltanto consente alle colonie di respingere con dei dazi le sue merci; ma non pretende neppure di ottenere alcuna preferenza in confronto alle merci tedesche, italiane, francesi, nord americane. Le colonie autonome, ossia sovratutto il Canadà, l’Australia, la Nuova Zelanda e l’Africa del Sud, essendo praticamente degli Stati indipendenti, possono applicare a favore o contro l’Inghilterra i dazi che esse credono più opportuni. E se, in questi ultimi anni, grazie al crescente movimento di solidarietà fra le parti dell’Impero, le colonie autonome, pure tassando fortemente le merci inglesi, si decisero a tassarle alquanto meno delle altre merci straniere, ciò accadde spontaneamente, per iniziativa libera dei parlamenti coloniali.
Io non dico che la lezione della rovina dei grandi imperi portoghese, spagnuolo, olandese, francese ed inglese dei secoli scorsi fosse molto difficile ad apprendersi; il buon senso dimostrando che, a rendere le colonie fedeli ed affezionate, giova grandemente il dar molto e il non imporre nessun tributo in cambio. È indubitato però che quella lezione non fu, per sua disgrazia, appresa dalla Francia, quando dopo il 1870 ricostituì un impero coloniale, ed è certo che la Spagna perdette gli ultimi residui delle sue colonie ed il Portogallo sta apprestandosi la fossa perché non vollero convincersi che gli imperi si costruiscono e si mantengono con sacrifici continui, mentre i benefici possono essere solo indiretti ed ottenuti per lo spontaneo consenso delle colonie. E poiché dovere di chi scrive è di usare la più stretta giustizia verso tutti, giova notare che lo Stato libero del Congo è la dimostrazione chiarissima che la politica inglese della porta aperta è considerata oramai dagli Stati europei come l’ottima fra tutte; e si deve aggiungere che la Germania rese omaggio alla dottrina britannica quando, con imperitura sua benemerenza, ottenne che il Marocco fosse un paese aperto a tutte le importazioni straniere a parità di condizioni.
Su questi fondamenti ed in virtù di queste idee fondamentali di libertà, di autonomia, di rispetto illimitato alla lingua, agli usi, alle leggi dei paesi assoggettati sorse l’Impero inglese. Su questo fondamento, quello che era un conglomerato di Stati indipendenti sta, sotto i nostri occhi, trasformandosi in un vero impero. Poiché quella parola «impero», la quale fino a qualche anno addietro non aveva quasi significato, sta ora acquistandolo. Quei popoli diversi, a cui l’Inghilterra aveva dato un’indipendenza pratica assoluta ed insieme l’esenzione da ogni peso tributario per la difesa della indipendenza medesima, cominciarono ad avere vergogna di se stessi. Come, essi dissero, possiamo noi continuare a godere della protezione della flotta e dell’esercito britannici contro gli assalti dei nemici stranieri, senza contribuire in nulla alle spese del mantenimento della flotta e dell’esercito? Appena posto il quesito, la situazione di sfruttatori della madrepatria parve alle colonie libere insopportabile.
Ma il problema era irto di difficoltà; perché non parve possibile una contribuzione delle colonie alle spese imperiali comuni senza una partecipazione delle colonie nel governo dell’Impero. Se la costituzione dell’impero inglese fosse il prodotto intellettuale di una congrega di dotti o il frutto della conquista di un popolo dominante, il problema sarebbe stato facilmente risolubile. Fu relativamente facile dare una costituzione al rinnovato impero germanico nelle sale di Versaglia, in seguito ad una guerra vittoriosa. Dare una costituzione all’impero inglese è sommamente difficile; perché si tratta di creare organi nuovi di governo per un impero che non ha finora alcun organo comune, serbando nel tempo stesso l’indipendenza reciproca sia della madrepatria che delle colonie autonome e tenendo conto anche della situazione singolarissima dell’India e delle colonie della corona. Come al solito, gli inglesi cercano di risolvere il problema alla meglio, con temperamenti pratici, senza costruire nessuna nuova teoria alla maniera tedesca o francese. Che cosa nascerà fuori dalle conferenze imperiali dei primi ministri inglesi e coloniali che si vanno periodicamente convocando e costituiscono l’iniziale, informe e finora unico organo di governo comune imperiale, non si sa. Forse è inutile preoccuparsi di prevederlo, perché la nuova costituzione imperiale probabilmente non sarà mai scritta in uno statuto, né potrà dare occasione a nessuna elegante ed euritmica costruzione di diritto pubblico alla foggia germanica. Sarà una costituzione formatasi gradualmente, quasi a caso, per rispondere a bisogni immediati, rafforzata dall’interesse degli Stati confederali, cementata dal sentimento e dalla consuetudine. Sarà una cosa bizzarra ed irregolare; un perfezionamento di quella magnifica creazione spontanea che è l’attuale impero britannico.
Anche esso, forse, quando gli inglesi avranno perduto le loro virtù odierne e quando la dissoluzione interna sarà cominciata, andrà col tempo distrutto. Nessun impero è perpetuo. Sulle rovine dell’impero inglese forse sorgeranno altri imperi più belli, più utili all’umanità . Se in quel giorno gli italiani avranno saputo perfezionare se stessi ed acquistare le energie intime che creano i grandi imperi, essi dovranno ricordarsi che il loro orgoglio maggiore dovrà consistere nel creare un tipo di organizzazione politica più perfetto e più alto dell’impero inglese. Poiché questo e non il Sacro Romano Impero e non l’Impero Germanico odierno e non lo Stato francese napoleonico è il vero erede spirituale ed il perfezionatore della più bella creazione politica che il mondo abbia visto: l’impero romano. Al pensiero che un disastro navale dovuto alla fortuna di guerra può mettere in forse il processo stupendo di cementazione politica dell’impero britannico, il quale si sta oggi compiendo e che è straordinariamente accelerato dalla guerra ci stringe il cuore. Poiché quel disastro navale sarebbe un’offesa alla civiltà: e noi italiani, se vogliamo conservare la speranza di essere un giorno i creatori di una nuova civiltà più perfetta abbiamo bisogno che si rafforzino nel mondo le forme più perfette e libere di organizzazione politica: tra le quali niente di più meraviglioso, di più spontaneo, di più vivo e mutevole, di più atto a suscitare la nostra emulazione e di meno geloso di essa, oggi esiste dell’impero britannico.