Salvaltore Cognetti De Martiis
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 07/07/1901
Salvaltore Cognetti De Martiis
«Giornale degli economisti», XII, vol. XXIII, n. 7, luglio 1901, pp. 15-22[1]
Gli ideali di un economista, Ed. La Voce, Firenze, 1921, pp. 11-20
Salvatore Cognetti De Martiis era nato a Bari il 19 gennaio 1844. Dopo aver compiuto gli studi universitari a Pisa dal 1861 al 1866 ed aver ivi ottenuta la laurea in giurisprudenza fu coi volontari garibaldini nel Tirolo nel 1866. E combatté virilmente per la causa dell’indipendenza a Monte Suello ed a Condino.
Dopo, la scienza e l’insegnamento lo attrassero, né mai più li abbandonò. Nel 1867, a 23 anni, fu nominato direttore delle scuole municipali di Bari e nell’anno seguente professore di economia politica nell’Istituto tecnico che allora si era fondato nella sua città nativa. Nel 1868 fu chiamato ad insegnare Economia politica nell’Istituto provinciale di Mantova, dove rimase sino al 1876. A Mantova sposò la signora che fu l’angelo consolatore della sua vita e diresse la quotidiana Gazzetta di Mantova, nella quale difese le dottrine politiche conservatrici con grande calore d’animo e con bella temperanza di forma. Dalla direzione della Gazzetta di Mantova passò alla redazione della parte economica nella Perseveranza, nell’epoca in cui il vecchio giornale moderato lombardo raccoglieva intorno a sé il fiore degli ingegni di parte sua. Ma nel frattempo, essendosi rese vacanti le cattedre di Economica politica nelle Università di Siena e di Torino, il Cognetti le vinse entrambe in pubblico concorso. La sua scelta fu per Torino, dove rimase, prima in qualità di professore straordinario e poi di ordinario, dall’1 gennaio del 1878 e dove gli fu conferito altresì l’insegnamento dell’Economia e Legislazione industriale nel Museo Industriale.
Ed a Torino fondava nel novembre 1893 quel Laboratorio di Economia politica che fu la cura precipua degli ultimi anni della sua vita e che egli ebbe la soddisfazione suprema di vedere riconosciuto con decreto reale come Istituto universitario pochi mesi prima della sua morte. La quale sopravvenne improvvisa dopo una crudele malattia che lo avea a lungo travagliato crudelmente durante il 1900 e dopo parecchi mesi di convalescenza, che gli amici ed i discepoli speravano fosse davvero ristoratrice, passati a Roma nell’inverno decorso. Alla fine di Aprile, impaziente di rivedere la scuola ed il Laboratorio che egli tanto amava, ritornò a Torino, dove tenne la sua prelezione, parlando della Idea economica nel Gioberti; ed i colleghi ed i discepoli, che erano accorsi numerosi a salutare il ritorno del professore amato, si lusingarono che per lunghi anni ancora Salvatore Cognetti De Martiis potesse impartire dalla cattedra il consueto insegnamento. Fu breve speranza; pochi giorni dopo egli era ripreso dal male, solo apparentemente vinto; e dopo una operazione virilmente sopportata, dovette soccombere l’8 giugno.
Salvatore Cognetti De Martiis accanto a molte pubblicazioni di indole svariata, le quali attestano la sua costante ed indefessa operosità, lascia alcune opere principali che sono lo specchio esatto del suo pensiero scientifico. Voglio accennare alle Forme primitive nella evoluzione economica, al Socialismo antico, ed alle Prefazioni alla quarta serie della «Biblioteca dell’Economista».
Nelle Forme primitive egli volle studiare i primi inizi della vita economica nelle società primitive selvagge e barbare; ed anzi, spingendosi più in là ancora, volle rintracciare nella vita delle piante e degli animali quei fenomeni a cui poteva attribuirsi un movente di procacciamento economico. Fu un tentativo che formò oggetto di critiche e di lodi e su cui forse non è giunto ancora il momento di dare un giudizio definitivo. È certo però che l’A. portò nella sua ricerca quello spirito di viva ed attenta osservazione e di acuta comparazione dei fatti osservati, che furono le caratteristiche più notevoli del suo ingegno.
Nel Socialismo antico (1889) egli parve abbandonare per un momento il metodo biologico e sociologico delle Forme primitive per addentrarsi nello studio di taluni fatti interessanti e quasi ignoti del mondo antico. Ancora oggi dopo gli studi poderosi di altri indagatori, quel volume insigne rimane l’unico nel quale sia contenuto uno studio completo delle idee e degli sperimenti socialisti nell’antichità. Perché il Cognetti non si limitò alla Grecia ed a Roma, ma, aiutato dalla sua singolare cultura linguistica e filologica, seppe trarre dalle leggende e dai libri sacri della Persia, dell’India e della Cina materiali preziosi per gittare una luce vivissima sulla storia del socialismo presso quei popoli.
La storia del socialismo lo attrasse un’altra volta quando egli, alcuni anni dopo (1891), pubblicò, a guisa di prefazione al volume di George «Progresso e Povertà», un lungo studio su «Il socialismo negli Stati Uniti d’America». Anche in questo volume rifulgono le sue doti di osservatore accurato ed acuto e la sua attitudine a collocare le idee in giusto risalto nell’ambiente storico in cui esse erano nate.
L’ultima opera di lunga lena, a cui il Cognetti pose mano nell’ultimo decennio di sua vita, fu la direzione della quarta serie della Biblioteca dell’Economista. Egli volle attuare in questa serie il suo concetto di una scienza economica basata sulla osservazione dei fatti ed atta a servire di utile guida agli studiosi, agli uomini di stato, ad industriali e commercianti nello studio delle più urgenti questioni del giorno. Come già nella seconda serie di Ferrara avea raccolta una serie imponente di monografie speciali intese a svolgere partitamente le applicazioni della scienza esposta nei suoi principii dalla prima serie, così il Cognetti volle nella quarta serie raccogliere numerose monografie sulle questioni commerciali, doganali, operaie, monetarie, bancarie, sui rapporti tra capitale e lavoro, sulle crisi ecc., che valessero a dare un’idea dei problemi principali della vita economica contemporanea. Ed arricchì i volumi da lui pubblicati con una introduzione generale su Le variazioni nella vita economica e nella coltura economica e con prefazioni speciali su I due sistemi della politica commerciale, la Struttura e vita del Commercio e la Mano d’opera del sistema economica, di cui l’ultima rimase incompiuta. Voleva altresì por mano ad un Dizionario di Economia Politica che sarebbe stata impresa utilissima ed originale per l’Italia. La morte prematura non glie lo consentì; ma è fortuna che la convalescenza gli abbia permesso di porre termine ad un altra opera che è bella testimonianza della sua singolare e multiforme attività mentale: la traduzione in versi martelliani di tutte le venti commedie di Plauto. Perché Salvatore Cognetti De Martiis amava allietare le lunghe serate con lo studio amoroso dei poeti latini. Dalla lettura di Plauto egli trasse argomento ad uno studio sulle Banche, i banchieri e gli usurai nelle Commedie di Plauto, che fu pubblicato in questo giornale nel 1891-92; e di tutte le commedie plautine ci lascia una traduzione elegante ed adorna di numerose note filologiche sul testo, che sarebbe a desiderarsi potesse venire pubblicata a giovamento degli studiosi.
Ma l’opera principale dell’ultimo decennio di vita di Salvatore Cognetti De Martiis e quella per cui noi, che fummo suoi discepoli all’università e suoi compagni di lavoro in seguito, ebbimo campo ad ammirare maggiormente la sua grandissima bontà d’animo, il suo entusiasmo per le cose nobili e belle, il suo amore impareggiabile per i giovani, fu il Laboratorio di Economia politica.
Io ricordo ancora, come se fosse oggi, quella giornata del novembre 1893 in cui il Professore raccoglieva intorno a sé una decina di giovani, – alcuni laureati e la più parte studenti del terzo e del quarto anno del corso di leggi, – in due modeste stanzette dell’antico Laboratorio di Patologia del professore Bizzozzero. In quelle due stanze vi erano un tavolo e poche sedie date in prestito dal Rettore, uno scaffale a vetri regalato dal Prof. Cora ed un mucchio di libri e di statistiche che il Professore avea portato da casa sua a costituire il primo nucleo della Biblioteca del Laboratorio. Il Professore Cognetti ci spiegò quali fossero gli intenti del nuovo istituto, lesse un abbozzo di statuto e ci comunicò come egli avesse ottenuto, a titolo di incoraggiamento, qualche piccola somma da alcuni soci patroni e non ricordo più se cento e duecento lire di sussidio annuo dal Consorzio Universitario.
La situazione non era brillante; ma la costante fiducia nell’avvenire dimostrata dal Professore alimentava l’ardore degli allievi. In quel primo inverno, siccome i quattrini mancavano, quando veniva il crepuscolo tutti eravamo costretti a sloggiare, e spesso per difetto di combustibile non ci era permesso di tenere accesa l’unica stufa che riscaldava le due stanze; di guisa che alla mancanza di luce si aggiungeva non di rado la mancanza di una temperatura sufficiente.
I primi anni passarono così attraverso a difficoltà gravissime che avrebbero fiaccata qualunque volontà meno energica e meno risoluta di quella del Cognetti. L’Istituto Giuridico avea bensì concesso in prestito parecchie riviste e pubblicazioni periodiche attinenti alla scienza economica; ma d’altra parte non giungevano aiuti. Il professore avea bensì messo a contribuzione tutti gli amici suoi, concedendo loro in cambio dei sussidi ricevuti la qualità di soci patroni del Laboratorio; ma questa fonte di entrate minacciava di inaridire, malgrado che egli fosse instancabile nel chiedere. Il Ministero dell’Istruzione pubblica, a cui si era chiesto un sussidio, rispondeva brutalmente che non poteva dar nulla perché si trattava di una istituzione inutile.
Nel frattempo gli oneri andavano continuamente crescendo. Le due stanze erano cresciute a tre, poi a quattro e finalmente a sei, oltre ad una grande aula per le lezioni. Le pubblicazioni ufficiali, italiane e straniere, chieste ed ottenute in dono con una corrispondenza attivissima crescevano senza tregua e richiedevano sempre nuovi scaffali; gli allievi aumentavano di numero perché agli antichi fedeli si aggiungevano sempre nuovi studenti che nel materiale di studio raccolti nel Laboratorio trovavano i mezzi per scrivere le tesi di laurea con agevolezze altrove non raggiungibili. Agli studenti dell’Università si aggiungevano quelli del Museo industriale, ai quali venivano affidate specialmente le illustrazioni grafiche delle statistiche premio alla esposizione di Torino del 1898.
Il professore Cognetti, instancabile, chiedeva sempre, ed alle ripulse rispondeva con nuove richieste. Un po’ per volta il successo arrise alla pertinace iniziativa. Il Consorzio universitario crebbe il suo sussidio da 200 a 500 lire, la Camera di Commercio diede prima 200 e poi 500 lire all’anno. Il Ministero dell’Istruzione, dietro proposta del compianto rettore Nani, concesse altresì un sussidio annuo di lire 500 e si assunse l’onere dello stipendio da assegnarsi ad un custode, divenuto oramai necessario a mantenere in ordine una così ricca suppellettile scientifica. Il Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, incoraggiato dall’on. Frola, presidente del Museo industriale e benemerito estimatore di tutte le iniziative feconde, diede pure esso 500 lire e si assunse il pagamento dello stipendio ad un assistente. Cosicché negli ultimissimi anni il Laboratorio di Economia Politica aveva ottenuto uno stabile assetto, confermato finalmente dal decreto reale che nell’anno corrente lo riconosceva ufficialmente come istituto scientifico universitario annesso contemporaneamente all’Università ed al Museo Industriale di Torino.
Un augurio ci sia permesso di fare ed è che l’istituto fondato dal Cognetti sia mantenuto non solo, ma fatto prosperare da chi terrà la cattedra economica nell’Ateneo torinese. Esso può dare in futuro risultati scientifici più larghi ancora che del passato, perché non sarà più necessario quel dispendio di energie e di tempo, che il suo fondatore dovette impiegare per sostenerlo e dargli incremento, durante la lunga serie degli anni in cui ogni giorno sembrava imminente la rovina a tutti fuorché a lui, che conservava sempre intatta la fede nel trionfo finale della istituzione da lui tanto amata.
Egli la seppe fare amare anche dagli altri, dai compagni di lavoro (come amava chiamarli) che ebbe numerosi durante l’ultimo decennio; e vi riuscì perché il Laboratorio non era né una biblioteca né una setta. Non era una biblioteca perché i libri erano accessibili a tutti ed a renderli ancora più utili giovava la cortesia del direttore, sempre pronto a fornire indicazioni preziose sui modi di trovare ciò che da mani spesso inesperte si sarebbe cercato invano. Non era una setta, perché il direttore non imponeva le sue idee a nessuno, lasciando liberi tutti di abbracciare le dottrine che a ciascuno più talentavano.
Io ricordo le adunanze domenicali, in cui si leggevano e si discutevano i lavori compiuti nel Laboratorio. Vi intervenivano giovani, di cui tutti nutrivano, con maggiore o minore ardore, una qualche fede scientifica o pratica.
Erano liberisti che sarebbero stati seccati ove si fosse imposto un credo protezionista, che pur da altri era difeso; erano socialisti democratici i quali desideravano liberamente esporre i loro concetti; erano dei socialisti cattolici, che si sarebbero sentiti a disagio in un ambiente ostile. Eppure tutti convivevano e discutevano fraternamente sotto la guida del direttore, il quale astringeva i frequentatori del Laboratorio a due soli obblighi: usare cortesia di forma nel dibattito ed esporre argomentazioni serie, tratte da uno studio accurato del problema discusso. Egli poi riassumeva la discussione in fine con una imparzialità, che poteva sembrare indifferenza da presidente di corte d’Assise, ed era invece dettata dall’amore alla istituzione sua. Di tale carattere di neutralità del Laboratorio egli avea voluto rendere testimonianza palese, facendo dipingere nelle lunette delle varie sale i ritratti di Aristotile, Vico, Adamo Smith, Marx, Schultz e Delitsch, Mons. Ketteler, Cobden, Hamilton, Cavour ecc. ossia di uomini appartenenti alle più svariate gradazioni del pensiero scientifico.
Forse da alcuni si potrà criticare codesta imparzialità verso le scuole più opposte per il motivo che lo scienziato deve insegnare la verità, che è una sola, e combattere l’errore. Il che è vero nei libri e nella cattedra, dove chi scrive o parla ha il dovere di esporre e difendere con convinzione le idee da lui ritenute giuste. Ma sarebbe stato pericoloso per la vita di un istituto come il Laboratorio, il quale deve fornire i materiali di studio a persone, molte delle quali hanno già, a torto od a ragione, un proprio modo di vedere che può essere diverso da quello degli altri e del direttore medesimo. Se il Cognetti avesse voluto far trionfare, ad esempio, il suo metodo biologico o sociologico nello studio della scienza economica, forse il suo istituto sarebbe stato disertato da quelli che in quelle applicazioni della biologia e della sociologia non credevano.
È in grazia del suo singolare desiderio di arrecare giovamento a tutti anche a quelli di cui non divideva il pensiero, che, come egli era grandemente rispettato dagli avversarii della politica conservatrice da lui gagliardamente difesa sulla Gazzetta di Mantova, così ora lo segue nella tomba il memore e riconoscente affetto di coloro che lo videro, nel Laboratorio di Economia politica, largo di sussidii scientifici, e di aiuto affettuoso nei primi ardui passi delle carriere scientifiche e liberali a tutti i suoi allievi, senza distinzione alcuna di convinzioni politiche e scientifiche.
(Torino, 30 giugno 1901)
BIBLIOGRAFIA[2]
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