Opera Omnia Luigi Einaudi

L’evasione all’imposta di ricchezza mobile e di un riordinamento delle categorie e delle aliquote atto a diminuirla

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/07/1928

L’evasione all’imposta di ricchezza mobile e di un riordinamento delle categorie e delle aliquote atto a diminuirla

«La Riforma Sociale», luglio-agosto 1928, pp. 305-328

Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, parte I, pp. 51-76

 

 

 

1. – Le statistiche dei redditi accertati ai fini dell’imposta di ricchezza mobile a carico degli impiegati pubblici e di quelli accertati a carico dei contribuenti privati (industriali, commercianti, professionisti) si sono prestate frequentemente in passato e si prestano tuttora a richieste pressanti di porre rimedio ad una ingiustizia palmare risultante in modo evidente dalla mera enunciazione delle cifre più riassuntive delle statistiche medesime. Le ultime, tra queste cifre riassuntive, si sono lette a carte 53 della esposizione finanziaria fatta alla Camera dei deputati dal ministro delle finanze, on. Volpi, il 2 giugno 1927[1]:

 

 

Reddito medio individuale dei dipendenti dello Stato (cat. D)………………………

L. 11.365

”                ”             ”         degli industriali e dei commercianti (cat. B)………….

” 4.570

”                ”             ”         dei professionisti (cat. C1)…………………………………

” 4.485

 

 

Le cifre sono parse a tutti prova evidente della larghissima evasione dei redditi degli industriali, commercianti e professionisti privati; essendo manifestamente impossibile che i contribuenti privati possano vivere, essi e le loro famiglie, con redditi medi di 4.500 lire all’anno, laddove gli impiegati pubblici conducono vita economicamente mediocre con redditi di 11.365 lire in media. E poiché questi ultimi sono accertati con tutta esattezza, fino al centesimo, si deduce che i redditi dei contribuenti privati sono grandissimamente sottovalutati e si chiede che si provveda con energia a togliere di mezzo il gravissimo sconcio.

 

 

2. – Una lunga meditazione mi ha convinto che la interpretazione comunemente data alle statistiche fiscali non risponde allo spirito della nostra legge e che le illazioni tratte da essa sono erronee.

 

 

Per procedere con ordine, senza confondere problemi nettamente diversi, si cominci a porre il seguente quesito: supponendo giusta l’aliquota esistente dell’imposta di ricchezza mobile per i redditi degli impiegati pubblici, quale aliquota si dovrebbe adottare per i redditi dei professionisti?

 

 

Per «giusta» intendo quell’aliquota che il legislatore italiano ha ritenuto potesse essere assolta dai suoi impiegati. Per questa categoria di contribuenti il legislatore non è stato invero distratto, nel suo giudizio, da timori di evasioni, assolutamente impossibili.

 

 

Per «esistente» intendo quell’aliquota dell’8 per cento che a partire dall’1 gennaio 1929, dovrà essere applicata ai redditi di categoria D (impiegati pubblici). Assumo l’aliquota dell’8 % perché risponde al fatto permanente futuro, invece che a quello transitorio degli anni passati e dell’anno in corso. Ma la scelta fatta non influisce apprezzabilmente sul ragionamento che esporrò; trattandosi di far calcoli non assoluti, ma relativi, e le proporzioni fra le tre aliquote della B, della C1 e della D essendo rimaste, come era ovvio, pressoché invariate nelle successive mutazioni dal 1925 al 1927 ed al 1929.

 

 

Se si parte dunque dalla premessa: essere giusto che gli impiegati pubblici (cat. D) paghino l’8 % sul loro reddito vero, quanto dovrebbero pagare i professionisti (cat. C1), se anche di questi si conoscesse il reddito vero?

 

 

La riserva del se è necessaria momentaneamente, per non confondere, come dissi, problemi diversi. Vedremo poi quale conto si debba fare della circostanza che per i professionisti esiste un margine di evasione. Per ora supponiamo che per costoro sia altrettanto sicura la conoscenza esatta del loro reddito, come è per gli impiegati pubblici.

 

 

3. – Per rispondere al quesito, fa duopo valutare quale differenza, a parità  di somma imponibile, esista tra la capacità contributiva del reddito del pubblico impiegato e quella del reddito del professionista. È pacifico nel sistema della nostra imposta di ricchezza mobile che i redditi non siano tutti trattati alla medesima stregua; ma dal reddito vero si giunga a quello imponibile, applicando coefficienti di riduzione calcolati in funzione dell’indole del reddito medesimo.

 

 

Il reddito perpetuo di capitale è tassabile in pieno, laddove il reddito misto di capitale e di lavoro, più precario, è tassabile solo in parte ed il reddito di puro lavoro è tassabile per una frazione ancora minore. Il principio è osservato tuttora anche se, per ragioni tecniche, invece di ridurre il reddito vero ad imponibile, in ragione di ottavi o di quarantesimi, come si usava un tempo, si tassano i redditi veri con aliquote degradanti. Ragion vuole che il medesimo criterio di differenziazione si osservi altresì tra l’una e l’altra categoria dei redditi medesimi di lavoro. Se l’un reddito è meno sicuro, meno continuativo dell’Altro, della differenza esistente si deve razionalmente tener conto nel calcolo della riduzione a reddito imponibile o nella applicazione di una aliquota minore. Quali sono dunque le differenze esistenti tra il reddito vero dell’impiegato pubblico ed il reddito, ugualmente vero, del professionista?

 

 

Reddito del pubblico impiegato

(Categoria D)

Reddito del professionista

(Categoria C1)

1. È continuativo. È discontinuo.
2. È sicuro. È aleatorio.
3. È pagato durante un periodo annuo di ferie. Non è pagato durante le ferie.
4. Gode del beneficio di brevi congedi pagati (per malattie, ecc.) Non ha beneficio di congedi
5. Gode del beneficio dell’aspettativa per ragioni di salute (con pagamento di metà dello stipendio). Non ha vantaggio di aspettative pagate.
6. Riprende dopo un periodo di aspettativa per motivi di famiglia. La clientela, se abbandonata, con difficoltà ritorna.
7. Gode il beneficio di pensione per malattia od invalidità contratta in servizio. Nulla.
8. È seguito da pensione di vecchiaia. Nulla.
9. La pensione di vecchiaia è parzialmente riversibile alla vedova ed agli orfani. Nulla.
10. Lo stipendio è continuamente progressivo, da un minimo sufficiente all’inizio ad un massimo toccato nell’ultimo anno di servizio. Il reddito può essere nullo per parecchi anni nell’inizio di carriera, cresce ad un massimo nell’età più produttiva e decresce quindi in seguito.
11. Lo scarto tra il reddito minimo e quello massimo non è grandissimo Lo scarto tra il reddito minimo e quello massimo può essere rilevantissimo.

 

 

Le caratteristiche differenziali che ora sono state elencate non sono suscettive di esatta valutazione. Certo esse sono tutte di tal natura da rendere, a parità di importo del reddito vero, assai meglio godibile il reddito dell’ impiegato, di quello del professionista. Il primo reddito è tutto depurato da quote di assicurazione contro la disoccupazione, le malattie, la vecchiaia[2], il rischio di insuccesso nella carriera, ecc. L’impiegato può lagnarsi di avere a propria disposizione poche 100 lire – e sul valore di tale querela si ritornerà poi – ; ma quelle che possiede sono da lui intieramente o quasi intieramente godibili, laddove il professionista, dotato delle comuni attitudini di previdenza del buon padre di famiglia, non dovrebbe finir mai di accantonare per provvedere ai rischi svariatissimi a cui egli va incontro. Che egli, appunto per ciò, guadagni di più – se è vero che guadagni di più – non ha importanza alcuna per la risoluzione del quesito posto. Se guadagna di più, il suo reddito vero totale sarà più elevato e in base al reddito più elevato pagherà imposta. Sta di fatto che, 100 lire contro 100 lire, l’impiegato può spenderle tutte, laddove il professionista non può.

 

 

4. – Volendo fare un calcolo largamente approssimativo della riduzione da apportare per gli undici motivi elencati alle 100 lire del reddito del professionista in confronto alle 100 lire del reddito dell’impiegato, si può ammettere innanzitutto che ben difficilmente una compagnia di assicurazione si accollerebbe l’onere delle pensioni elencate ai numeri 7, e 9 in compenso di un premio complessivo inferiore al 20 per cento del reddito considerato. Né io oserei valutare a meno di un altro 30 per cento i vantaggi rimanenti da 1 a 6 e gli ultimi sotto 10 ed 11. Questi due ultimi vantaggi possono parere di non grande conto; ma sono in verità  importantissimi. La progressività dello stipendio (sub 10) vuol dire che l’impiegato raggiunge il massimo dello stipendio tra i 50 ed i 65 – 70 anni quando i figli sono già  allevati e le spese di famiglia diminuiscono; sicché a lui è consentito allora un margine di risparmio. Laddove il professionista medio, se non ha risparmiato prima quando era nel vigore dell’età ed i guadagni erano massimi, ma anche erano massime le spese di famiglia, ben difficilmente può risparmiare quando si avvicina alla vecchiaia e le forze gli mancano per conservare l’attività e quindi i guadagni precedenti.

 

 

Tutto sommato, pare moderata l’ipotesi che, per larghissima approssimazione, ritiene che le 100 lire del professionista debbano essere ridotte a 50 lire quando si vogliono rendere comparabili, in punto di spendibilità, di godibilità  e quindi di tassabilità, con quelle dell’impiegato pubblico.

 

 

Perciò è legittima la conclusione che se è giusto tassare coll’8 % le 100 lire dell’impiegato pubblico, faccia d’uopo tassare col medesimo 8 per cento solo il 50 % delle 100 lire del professionista. Il che equivale ancora a dire che se l’aliquota giusta per il reddito vero dell’impiegato pubblico è dell’8 per cento, l’aliquota giusta per il reddito vero del professionista dovrebbe essere del 4 per cento.

 

 

5 – Il confronto tra il 4 % del teorico ed il 12 % che è l’aliquota effettiva decretata dal legislatore italiano a partire dal primo gennaio 1929 ci permette ora di calcolare il peso che il nostro legislatore ha dato al fattore, lasciato finora nell’ombra, della evasione fiscale. Dico che «il legislatore ha dato», essendo notissimo che, quando, colla legge 11 agosto 1870, n. 8.784, si differenziò la categoria degli impiegati pubblici da quella degli altri percettori di redditi di lavoro, l’unica ragione non contingente addotta durante la discussione fu per l’appunto che gli impiegati non potevano, ma gli altri riuscivano a frodare il fisco[3]. Fu per fermo meraviglioso che in pubbliche dichiarazioni parlamentari si adducesse lo sfregio alla legge come motivo di introdurre nella legge medesima una norma, la quale codificava e quasi rendeva legittima la frode fiscale. Ma, non intendendo per ora criticare la legge, anzi ragionare strettamente colla sua medesima logica, è manifesto che il legislatore aumentando l’imposta a carico di certi contribuenti (professionisti) al di là di quanto sarebbe giusto secondo le regole adottate per altri contribuenti (impiegati pubblici) percettori di un reddito della medesima natura (provenienti amendue da lavoro), ha riconosciuto che, entro i limiti della disparità voluta, è data una sanatoria legale tacita alla evasione prevista e calcolata.

 

 

Se, nell’ipotesi in cui si conoscano i redditi veri, il reddito dei professionisti dovrebbe essere tassato, come fu dimostrato sopra; col 4 per cento e se l’aliquota fu invece calcolata al 12 % per tener conto delle abitudini frodolente dei medesimi professionisti, si conclude che il legislatore ha, coll’avvedimento della più alta aliquota, già garantita la finanza contro la frode fino al limite di una sottovalutazione al terzo del vero. In sostanza la finanza non è danneggiata sino a che i professionisti denunciano almeno il terzo del loro reddito vero. Il danno della finanza comincia quando essi scendono al disotto del terzo. Il coefficiente legale di evasione è dunque calcolabile al 66,66 per cento.

 

 

6. – Con un analogo processo analitico si può arrivare a valutare il limite che si potrebbe dire di evasione «legale» per gli industriali e commercianti (categoria B).

 

 

Il reddito di categoria B deriva, come è noto, nel sistema della nostra legge tributaria, dall’impiego contemporaneo di capitale e di lavoro. Poiché i contribuenti di cui ci occupiamo sono quelli individuali, ad esclusione dei contribuenti collettivi (società  anonime ed in accomandita per azioni), il fattore capitale è relativamente meno importante del fattore «lavoro». Se per gli enti collettivi «il capitale» pesa di più del «lavoro» nella formazione del reddito, per i contribuenti individuali accade l’opposto. Ricordisi che secondo l’on. Volpi il numero dei commercianti ed industriali a cui si riferiva nel 1926 il reddito medio di 4.570 lire ricordato in principio del presente articolo era di 929.000; in gran parte modesti bottegai e proprietari di laboratori, il cui capitale difficilmente può pesare per più di un quinto ad un decimo nella formazione, del reddito quasi tutto frutto di lavoro. Largheggiando nella proporzione attribuita al capitale, si può supporre che al fattore capitale si riferiscano un terzo ed al fattore lavoro due terzi del reddito complessivo. Su questa base, la capacità  contributiva di 100 lire di reddito misto di capitale e di lavoro in confronto a 100 lire di reddito del pubblico impiegato potrebbe essere stimata così:

 

 

1) Per un terzo, ossia L. 33,33 derivanti dal fattore «capitale», la capacità  di godimento e di tassabilità  sia reputata uguale a quella dei redditi di capitale puro (categoria A). E qui, assumendo senz’altro come «giusta» l’aliquota del 20 % voluta dal legislatore italiano per i redditi di categoria A a partire dall’1 gennaio 1919, dobbiamo, in confronto ai redditi di D, tassati coll’8 per cento, moltiplicare per 2,50 l’ammontare dei redditi accertati per renderli paragonabili a quelli degli impiegati pubblici (8 : 20: : 1: 2,50). In verità, così operando, si suppone che i redditi dei capitali impiegati nelle industrie siano perfettamente sicuri od almeno non sottoposti ad alcun rischio maggiore di quelli dati a mutuo (e tassati in A). Su di che si potrebbe discutere, Pro e contro, a lungo; ma per non far qui ipotesi diverse da quelle accettate dal legislatore italiano, se ne fa a meno. Sicchè per le 33,33 lire del reddito di capitale, noi porteremo in fuori L. 33,33 X 2,50, ossia……..

L. 68,33

2) Per i due terzi rimanenti, L. 66,66, dovuti al fattore “lavoro”, esistono i medesimi coefficienti di riduzione osservati sopra per i professionisti, dovendo l’industriale e il commerciante provvedere con un prelievo del reddito a parare ai rischi di disoccupazione, precarietà, malattia, invalidità, vecchiaia, da cui l’impiegato è immune. Sicché le L. 66,66 si riducono del 50 per cento a……………..

L. 33,33

ed in totale le 100 lire equivalgono a……………………………………………………………….

L.101,66

 

 

ossia a qualcosa più del loro ammontare nominale. Il che equivale a dire che se l’aliquota giusta per il reddito vero dell’impiegato pubblico è dell’8 per cento, l’aliquota giusta per il reddito vero dell’industriale e commerciante dovrebbe essere dell’8,15 per cento.

 

 

Il confronto fra l’8,15 per cento teorico ed il 14 per cento che è l’aliquota effettiva decretata dal legislatore italiano a partire dall’1 gennaio 1929 ci consente di calcolare anche in questo caso il peso attribuito dal legislatore italiano al fattore «evasione fiscale». Poiché 14 equivale a 8,15 X 1,705, così è chiaro che la finanza ha già scontata, colla maggiore altezza dell’aliquota effettiva (14 %) in confronto all’aliquota giusta teorica (8,15 per cento, una frode tale per cui sia denunciata solo 1 lira di reddito invece delle lire 1,705 vere, ossia il 59 % circa del reddito vero. Sino a che industriali e commercianti denunciano almeno il 59 % del reddito vero, la finanza nulla perde, essendosi garantita coll’avvedimento delle aliquote, ed il danno cominciando solo quando essi scendano al disotto del 59 per cento; cosicché il coefficiente legale di evasione si può calcolare al 31 per cento.

 

 

7. – Riassumendo in un quadro i risultati ottenuti:

 

 

 

Impiegati pubblici

(D)

Professionisti (C1)

Industriali e commercianti (B)

a) Reddito vero…………………………………………………………………..

100

100

100

b) Reddito vero ridotto a godibile…………………………………………..

100

50

101,66

c) Aliquota «giusta» dell’imposta sul reddito vero dell’impiegato  pubblico…………………………………………………………………………….

8%

d) Aliquota «giusta» teorica dell’imposta sul reddito vero ridotto al godibile…………………………………………………………………………..

8%

8%

8%

e) Aliquota «giusta» teorica dell’imposta sul reddito vero…………..

8%

4%

8,15%

f) Aliquota legale…………………………………………………………………

8%

12%

14%

g) Coefficiente «autorizzato» di evasione risultante dal confronto delle aliquote e) ed f)…………………………………………………………..

66,66%

31%

h) Supponendo uguale a L. 11.365 il reddito godibile, i redditi veri delle diverse categorie per consentire una uguale godibilità dovrebbero (vedi b) ammontare a…………………………………………

L. 11.365

22.730

11.179

i) e quelli accertabili ai fini delle imposte dovrebbero essere (vedi g) almeno di……………………………………………………………….

”   11.365

7.576

7.715

l) Invece i redditi medi accertati ai fini delle imposte erano nel 1926 di………………………………………………………………………………

”   11.365

4.485

4.570

m) corrispondenti, tenuto conto della evasione «autorizzata» a…

”   11.365

13.455

6.623

n) con uno scarto in meno in confronto ai redditi che, per uguaglianza, dovrebbero reputarsi veri (h-m), di……………………..

     ”       –

9.275

4.556

o) e con una evasione, eccedente quella «autorizzata» (i-l), di….      ”       –

3.091

3.145

p) Essendo però i redditi accertati per le due categorie B e C1 cresciuti nel 1928 a……………………………………………………………..      ”       –

5.875

5.661

q) lo scarto, in confronto ai redditi accertabili teorici (i) si è ridotto a……………………………………………………………………………..  

”       –

1.701

2.054

 

 

Il quadro, a primo aspetto, può sembrare singolare. Ma le sole obbiezioni che ad esso possono muoversi non sono di errore nel ragionamento, sibbene di errore nelle stime fatte per passare da un anello del ragionamento all’altro. Si possono ritenere cioè errate in meno od in più le stime fatte della godibilità  dei redditi di C1 e di B in confronto ai redditi di D. A taluno potrà parere eccessiva la valutazione al 50 ed al 101,66 %, e ad altri troppo tenue; ma sorpassato questo scoglio (linea b del quadro), tutto il resto è deduzione logica incontrovertibile. Deduzione logica, s’intende, quando si parta dalla premessa che il contribuente si avvalga del consenso tacito dato dal legislatore medesimo a svalutare il suo reddito in relazione alla discrepanza esistente fra l’aliquota giusta (4 e 8,15 %) e quella effettiva (12 e 14 %). S’intende che il contribuente non sa nulla dei calcoli istituiti nel presente articolo, né dei precedenti legislativi, né della disgraziatissima autorizzazione datagli ad evadere l’imposta il giorno in cui il legislatore irrazionalmente diminuì l’aliquota sui redditi accertabili in cifra sicura in confronto ai redditi variabili e non valutabili in cifra certa, laddove il ragionamento conduceva a

conclusione precisamente contraria. Pur essendo di tutto ciò all’oscuro, il contribuente medio delle categorie B e C1 avverte il peso dell’imposta, ha la sensazione dei rischi a cui va soggetto il suo reddito, e se ha un reddito come professionista di lire 100 e sa che l’aliquota che su lui grava è del 12 per cento, si sente moralmente autorizzato a ridurre il suo reddito a 33,33 lire. Né egli solo ha questa sensazione, ma l’hanno i funzionari medesimi delle imposte e le commissioni tributarie, le quali, sia detto ad onore del loro buon senso, guardano, al di là della lettera della legge, alla realtà dei rapporti umani, all’effettiva giustizia comparativa fra contribuente e contribuente, alla pressione che l’imposta esercita sui redditi effettivi godibili. Finché l’aliquota rimane per i professionisti fissata al 12 per cento, laddove giustamente dovrebbe essere del 4 per cento, non si riuscirà  mai, in un ordinamento in cui si faccia giustizia sostanziale, ad accertare sui ruoli a più di 33,33 lire, redditi che in verità siano di 100 lire[4].

 

 

8. – A questo punto può essere, sulla base del quadro medesimo, formulato un altro diverso quesito. Ammettasi che il professionista sia moralmente autorizzato, dal sistema medesimo della legge, a concordare in 33,33 lire un reddito che in realtà  è di 100 lire; ammettasi parimenti che la finanza non sia danneggiata dalla sottovalutazione, perché già prevista in tal misura e controbilanciata dalla elevazione corrispondente dell’aliquota dal 4 % giusto teorico al 12 % legale. Come si può, tuttavia, ammettere che il professionista medio italiano lucri soltanto 4.485 lire accertate e 13.455 lire vere all’anno (linee l e m), quando il reddito medio del pubblico impiegato è di 11.365 lire? Ben più guadagnano i professionisti; e qui è per l’appunto lo scandalo, di immaginare che essi e le loro famiglie in media possano vivere e risparmiare con meno di 400 lire apparenti e con poco più di 1.100 lire effettive al mese.

 

 

Partasi pure dalla premessa che il reddito medio godibile dei professionisti sia uguale e non superiore a quello dei pubblici impiegati. Se questo è di lire 11.365, il reddito medio del professionista dovrebbe essere (vedi linea h del quadro) di lire 22.730. Soltanto con un reddito nominalmente doppio può infatti il professionista avere i medesimi godimenti che ha l’impiegato. Quindi, pur ammettendo una evasione – ahimè! legalmente ammissibile – del 66,66 per cento, il reddito medio iscritto a ruolo dovrebbe essere (linea d) di lire 7.576. Invece è appena di 4.485 lire (linea l), corrispondenti a sole 13.455 effettive (linea m), invece che a 22.730, con uno scarto in meno sul vero di 9.275 lire (linea m) e sull’iscritto a ruolo di lire 3.091. Il quadro dimostra dunque che, anche fatte tutte le ragionevoli ammissioni rispetto alla gravezza dell’aliquota ed al consenso tacito all’evasione dato dal legislatore, i professionisti (e gli industriali e commercianti altresì) defraudano la finanza in misura non spregevole.

 

 

Per saggiare la verità della quale conclusione, farebbe d’uopo di essere ancora in grado di rispondere al quesito: supposto che il reddito medio dell’impiegato pubblico sia di lire 11.365 lire, il reddito del professionista si avvicina di più a lire 22.730 od a lire 13.455?

 

 

E più chiaramente; se si ammette, per larghezza verso i professionisti, che il loro reddito medio godibile sia soltanto uguale e non superiore a quello degli impiegati pubblici, poiché questo è di lire 11.365, il reddito dei professionisti, godibile solo pel 50 per cento, dovrebbe essere di 22.730 lire. Invece i ruoli delle imposte ci vorrebbero far credere, pur trasformando le 4.485 lire accertate a seconda del coefficiente legale di evasione dei due terzi, che esso sia soltanto di 13.455 lire. Quale delle due cifre è più vicina al vero?

 

 

9. – L’opinione pubblica dei non professionisti pare propensa a ritenere che esso sia in media superiore non solo alle L. 13.455 ma anche e di non poco alle 22.730 lire. Non esistono dati di fatto capaci di risolvere attendibilmente il quesito. Tutto ciò che si può dire è che l’impressione volgare intorno al livello medio rispettivo dei redditi degli impiegati pubblici e dei professionisti merita di essere accettata soltanto con grandissima cautela. I redditi medi, sia accertati (lire 4.485), sia corrispondenti legalmente agli accertati (lire 13.455), paiono bassi in confronto alle 11.365 lire certe per gli impiegati, perché si dimenticano troppo taluni coefficienti che diversificano gli uni dagli altri redditi:

 

 

  • in primo luogo il reddito dell’impiegato pubblico è stato calcolato dallo Stato in modo da bastare a sovvenire ai bisogni medi, sebbene modesti, di una famiglia intiera; laddove spesso il reddito del professionista non soddisfa tale condizione. Il professionista non guadagna ciò che dovrebbe bastare a lui ed alla sua famiglia; guadagna ciò che può. Quanti professionisti non potrebbero vivere col reddito della professione, ma lo integrano con redditi di capitale ereditato! Una indagine illuminante al riguardo potrebbe farsi sui ruoli dell’imposta complementare, studiando se i redditi di capitale entrino a costituire il reddito totale dei professionisti e degli impiegati nella stessa proporzione. Sembra oggi piccolo il numero degli impiegati pubblici tratti dalle classi ricche ed agiate. Prima della rivoluzione francese, la burocrazia era prevalentemente tratta, anche in gradi che parrebbero umili, dalla nobiltà  e dalla borghesia provvedute di patrimonio ereditario. Oggi la burocrazia è prevalentemente proletaria, e ciò contribuisce a spiegare le sue tendenze legislative anticapitalistiche, invidiose delle iniziative individuali, vincolatrici della proprietà e dell’industria. Non esiste più, in molti paesi, comunanza di interesse tra la burocrazia e le classi possidenti. Le classi professionali sono meglio provvedute di patrimoni privati; ed a ciò le costringe, se sono vere le osservazioni fatte sopra, la precarietà  dei loro stessi guadagni. Nella seconda e nella terza generazione sono numerosi i professionisti i quali chiedono alla professione soltanto un reddito integrativo dei loro redditi patrimoniali. Nel ceto commerciale, il medesimo fatto spiega in parte la moltiplicazione delle botteghe, così vivamente lamentata in tante scritture. il bottegaio spesso è il marito o la moglie di persona che ha un impiego o lavora in uno stabilimento e cerca di sfruttare un piccolo capitaletto e l’opera di persone della famiglia. Questi redditi «parziali» o «complementari» di altri redditi tirano giù la media dei redditi di categoria B e C1, laddove il medesimo fatto non influisce sulla media dei redditi di categoria D, fissati dallo Stato in guisa da sopperire modestamente ai bisogni della vita dei suoi dipendenti e delle loro famiglie medie;

 

 

  • in secondo luogo, è assai minore per gli impiegati il peso dei redditi «iniziali» in confronto al peso che questi hanno per i professionisti. Già  nel 1910 il Pantaleoni, in uno studio che ricorderò sotto, aveva trovato soltanto 849 pubblici impiegati con stipendio zero e 177 con stipendio inferiore a 500 lire su un totale di 149.497. Oggi quel numero, di alcuni prestanti un servizio gratuito o con paga nominale, deve essere ancora scemato. Per contro, chi sa dire gli anni di tirocinio gratuito o quasi gratuito dei professionisti? Se nei ruoli delle imposte figurano professionisti sulle mille lire annue di reddito, questa non è una finzione, ma una dura realtà  di un gran numero di giovani, i quali lavorano tenuti su dalla speranza di formarsi una clientela. Tra gli impiegati pubblici non c’è nulla che possa essere neppure lontanamente paragonato alla paziente attesa, per anni ed anni, dei professionisti privati, la cui ora di guadagno giunge dopo i 30 e talvolta dopo i 35 anni di età . Anche di questa circostanza si dovrebbe tener conto, più di quanto comunemente si faccia, nell’apprezzare il valore delle cifre medie dei redditi professionali. Gli anni iniziali pesano assai, per numero di contribuenti, nel tirar giù la media;

 

 

  • in terzo luogo, l’età  avanzata influisce in senso contrario sulla media delle due specie di redditi. Tira su la media del reddito degli impiegati, i quali avanzano lentamente, ma sicuramente fino al momento in cui escono dai ruoli attivi; laddove il professionista, anche se vecchio, non scompare quasi mai dalla scena, e, pur vedendo diminuire redditi e guadagni, continua ad essere tassato. Gli può accadere che non si presti fede alle sue allegazioni di guadagnar poco; ma finché esiste un margine anche modesto, fra le spese di ufficio e le imposte pagate da una parte ed il guadagno dall’altra, egli non si decide a riposare del tutto. Talun professionista medico acquisterebbe una modesta automobile e sarebbe disposto a sacrificare all’uopo gran parte dei suoi guadagni pur di poter continuare le visite senza sua crescente fatica; non lo fa, perché teme che l’acquisto sia attribuito, non alla ragione vera dell’età ed al desiderio di non perdere troppa clientela, ma ad ipotetici maggiori guadagni. L’influenza del fattore «decadenza di guadagni per avanzata età» non deve dunque, per equità verso i professionisti, essere trascurata nell’apprezzamento della media dei loro guadagni;

 

 

  • vengo al coefficiente di differenziazione più importante dal punto di vista psicologico: la diversa ampiezza dello scarto tra redditi minimi e massimi per le due categorie degli impiegati e dei professionisti. Già  innanzi alla guerra, lo scarto fra stipendio minimo e stipendio massimo non era grande: alcuni pochissimi godendo appena di 500 lire ed i soli ministri di quello di 25.000 lire, laddove gli altri oscillavano fra 1000 e 16.000 lire. Dopo la guerra, gli stipendi minimi furono ottuplicati e decuplicati ed i massimi al più triplicati; sicché lo scarto tra gli estremi decrebbe ancor di più. Poiché qui non si fanno calcoli esatti, ma si vogliono unicamente constatare impressioni influenti sulle norme legislative, si può affermare che l’impressione più forte data dalle cifre dello stipendio medio, minimo e massimo dei pubblici impiegati è quella, ben nota, della mediocrità, dei «pochetti, ma sicuretti», a cui tutti, una volta entrati in carriera, possono aspirare. Non tutti arrivano ai gradi massimi, ma tutti possono aspirare a giungere, nella propria categoria, ad un grado bastantemente elevato. Ben diverso sarebbe il quadro delle remunerazioni vere, se conosciute, dei professionisti. Numerosi i minimi inferiori, anche in età  matura, alle necessità famigliari ed integrati da altri proventi; una gran massa di redditi medi penosamente avvicinantisi alle esigenze della vita; ed alcuni pochi massimi di professionisti celebri, che si dilungano clamorosamente dalle cifre medie. A queste grosse cifre, caratterizzate prima della guerra dai cinque ed ora dai sei zeri, guarda stupefatto il mondo; e queste cifre sovrattutto danno l’impressione che i redditi medi dei professionisti siano in realtà  assai più alti di quelli medi, conosciuti, dagli impiegati pubblici. Il grosso dei professionisti è vittima, nella stima media che dei loro guadagni fa il pubblico, delle punte a cui giungono i professionisti celebri. A queste punte guardano i giovani, nel momento di scegliere la loro carriera; e sebbene non uno su mille sia destinato neppure ad avvicinarvisi, la visione di esse li sostiene lungo il cammino.

 

 

Statisticamente, la diversa distribuzione dei redditi degli impiegati e dei professionisti ha questo significato: che la media reale dei redditi dei professionisti sente poco l’influenza dei rari redditi di punta e molto quella dei numerosi redditi «insufficienti» o «iniziali» o «di vecchiaia»; sicché vi è non piccola probabilità che la stessa media reale, la quale dovrebbe essere, per eguagliare quella di 11.365 lire degli impiegati, di 22.730 lire (linea h della tabella) vi stia al di sotto, non si sa di quanto.

 

 

10. – Nell’articolo già citato del Pantaleoni[5] si nota, col solito linguaggio incisivo, che «gli impiegati civili e militari costituiscono una classe estremamente privilegiata […] I loro stipendi sono in buona parte politici di servizi personali e non già prezzi economici. L’indole politica del presso giova ai gradi ultimi e mediani, facendo loro ottenere stipendi più vantaggiosi di quelli che la libera professione loro procurerebbe in modo permanente. E questi gradini abbracciano la massa. All’incontro, il prezzo politico danneggia economicamente il personale più elevato, il quale nell’esercizio della libera professione guadagnerebbe assai più denaro. Ma esso è numericamente ristrettissimo a paragone del primo, ma non tanto quanto lo è nell’industria e nei grandi commerci. In breve possiamo dire, che sono tre le classi dei cittadini: la classe degli impiegati, che hanno la curva di redditi più favorevoli e in cui prevalgono prezzi politici; quella dei ferrovieri di Stato, che vengono dopo di loro, a notevole distanza, in cui ancora concorrono prezzi economici; poi, la classe dei cittadini ordinari, che si guadagnano la vita esercitando arti, mestieri e professioni libere, dal contadino e operaio bracciante in su, fino al commerciante, avvocato, ingegnere o medico, di cui la curva dei redditi si spinge enormemente più in alto delle altre, ma con numeri piccolissimi per i componenti le categorie degli alti redditi e va più in giù  delle altre con numeri grandissimi per i componenti i redditi più bassi. In questi redditi l’azione dei prezzi politici sugli economici è quasi nulla».

 

 

La ressa dei postulanti ai pubblici impieghi è la dimostrazione perentoria della verità della conclusione ultima dello studio di Pantaleoni: «essere gli impiegati una aristocrazia nel mondo della gente che vive di pane». Tuttavia, volendo tener conto che nelle categorie B e C1 non vi sono operai e contadini giornalieri (sebbene, ahi! quanto taluni professionisti invidiarono, in certi anni passati, i loro più umili compagni di lavoro!) e che la classe dei professionisti dovrebbe potersi paragonare piuttosto a quella gli impiegati medi e maggiori che a questi ed ai più umili insieme, si può, per largheggiare prudentemente nei calcoli, ritenere che il livello medio dei guadagni dei professionisti non sia inferiore a quello dei pubblici impiegati; sicché esso si aggirerebbe sulle L. 22.730 effettive e L. 7.576 accertate.

 

 

Per gli industriali e commercianti (categoria B) la meta dovrebbe essere di L. 11.179 effettive e di L. 7.715 accertate.

 

 

11. Stiamo avvicinandoci a questa che si potrebbe chiamare la media ideale degli accertamenti?

 

 

Dopo il 1926, la media degli stipendi degli impiegati non è certamente cresciuta. Forse è diminuita in ragione dell’abolizione del caro-viveri e di talune riduzioni di stipendio, conseguenti alla rivalutazione della lira. Tuttavia, per giungere a conclusioni quanto è possibile rigide nei confronti con i professionisti ed i commercianti, supporrò che il metro di paragone sia rimasto invariato, sulle già dette 11.365 lire; e che le cifre teoriche corrispondenti ad esse costituiscano pur sempre la meta degli accertamenti per industriali e commercianti. Su questa base, ecco quanto cammino si è percorso tra il 1926 e il 1928 (Esposizione finanziaria Volpi del 25 maggio 1928, pag. 44):

 

 

 

Categoria C1 (professionisti)

Categoria D (industriali e commercianti)

Reddito teorico da accertarsi……………………..

7576

7715

     ”       accertato nel 1926………………………..

4485

4570

Scarto in meno

3091

3145

Reddito accertato nel 1928

5875

5661

Scarto in meno

1701

2054

 

 

Lo scarto è tuttora apprezzabile; ma si ha l’impressione che ci stiamo avvicinando al limite. Anche il ministro delle finanze deve avere la stessa impressione, a quel che si può arguire dalle sue prudenti parole: «Non crediamo di essere giunti ancora ad una chiarificazione esatta degli oneri proporzionati di tutti, ma molto cammino si è fatto, senza comprimere oltre misura il contribuente in momenti economici non facili e senza arrestare la intensificazione dei rilievi fiscali» (Espos. cit., pag. 44). Nel non facile momento della stabilizzazione monetaria, in cui i redditi variabili (B e C1) sono forzatamente destinati a ridursi, è certo possibile e forse probabile che il limite pratico degli accertamenti sia stato provvisoriamente raggiunto e che non possano né debbano farsi, finché le circostanze non mutino, progressi ulteriori negli accertamenti.

 

 

12. – La fondatezza della conclusione dubitativa ora esposta potrebbe essere saggiata alla luce di taluni dati, che l’amministrazione finanziaria assai utilmente potrebbe pubblicare:

 

 

a)    Quante denuncie di cessazione di reddito in B e C1, furono presentate in ciascuno degli anni, ad esempio, dal 1921 al 1928? Le denuncie di cessazione di reddito sono un indice non sfruttato, ma espressivo delle variazioni effettive dei redditi e dei costi, e tra i costi è notabile quello delle imposte. Quanto più crescono le denuncie di cessazione di reddito, tanto più si deve presumere che ci stiamo avvicinando al limite degli accertamenti.

 

 

b)    Quale fu, nello stesso periodo di tempo, la variazione nel numero dei ricorsi presentati, pendenti e risoluti dinnanzi alle Commissioni amministrative delle imposte dirette?

 

 

c)    Quale è il numero, parimenti, nei successivi anni, degli accertamenti in aumento rimasti sospesi e delle domande di revisione in diminuzione? Una eventuale maggior frequenza dei ricorsi, la resistenza contro i maggiori accertamenti, la messa a dormire provvisoria delle schede di aumento sono indice di avvicinamento al limite.

 

 

d)    E finalmente un indice espressivo si potrebbe trovare in una eventuale divergenza nella serie degli accertamenti per i contribuenti privati e per gli enti collettivi. Gli accertamenti per gli enti collettivi (società anonime, ecc.),essendo eseguiti su bilancio, seguono assai davvicino, con uno sfalsamento in ritardo di due anni, le variazioni dello stato economico. Se si riscontrasse, dunque, che i redditi dei professionisti e degli industriali – commercianti privati crebbero continuamente dal 1921 al 1928, laddove i redditi degli enti collettivi, dopo essere cresciuti fino ai ruoli del 1926, scemarono, ad ipotesi, nei ruoli del 1927 e del 1928 e minacciano ulteriori riduzioni per il 1929, si potrebbe fondatamente concludere che l’opera solerte dell’amministrazione finanziaria sia riuscita, pure in momenti non propizi, a compiere pressoché intiera la sua opera di ricognizione dei terreni inesplorati o male esplorati dei redditi privati.

 

 

13. – Tuttavia, bisogna confessare che i risultati meravigliosi e di quasi pienezza sostanzialmente ottenuti non ci possono soddisfare. L’essersi avvicinati tanto per i professionisti (e lo stesso ragionamento può essere ripetuto, con opportuna mutazione di cifre, per gli industriali – commercianti) alle 7.576 lire teoricamente accertabili, è, indubbiamente, un gran trionfo della giustizia sostanziale. Non dimentichiamo però che accanto alla giustizia sostanziale vi è quella «apparente»; la quale ha non minore valore morale. In sostanza è giusto tassare solo 7.576 lire quando il reddito vero è 22.730; perché l’aliquota legale è del 12 per cento laddove avrebbe, per equità distributiva, dovuto essere solo del 4 % e perché il legislatore ha, col sistema della legge vigente e con dichiarazioni parlamentari pacificamente ammesse, legalizzato la riduzione delle 22.730 vere alle 7.576 accertabili. Tutto ciò lascia nondimeno insoddisfatta una ragione più profonda di giustizia. Ognuno di noi sente che fa d’uopo porci una meta più alta: sia ridotta all’equo l’aliquota sui redditi di lavoro professionale, dal 12 al 4%, ma siano tassate tutte le 22.730 lire vere invece delle 7.576 lire accertabili. La finanza è fuori causa; poiché per essa tanto vale il 12 % su 7.576 quanto il 4 % su 22.730; ma la seconda alternativa è la sola la quale soddisfi le esigenze della coscienza tributaria, renda omaggio alla verità vera, si astenga dal creare una verità fittizia legale, tolga ogni ragione di malcontento, appresti una base veritiera di tassazione per le altre imposte, come quella complementare, la quale deve fondarsi sull’addizione di fattori omogenei.

 

 

14. – Esiste un ostacolo al raggiungimento della meta ideale, ed è la categoria D dei redditi degli impiegati pubblici. Finché esisterà la categoria D, l’imposta italiana di ricchezza mobile non potrà essere liberata dal cancro che la rode e ne falsa tutta la struttura. Quando, in virtù  della legge del 1864 e non esistendo ancora la ritenuta diretta, i redditi mobiliari erano divisi soltanto in A, di capitale, tassati agli 8 ottavi, B, misti di capitale e lavoro, tassati ai 6 ottavi e C, di lavoro, tassati ai 5 ottavi, l’imposta era perfetta. Nessun ostacolo esisteva alla ricerca della verità; perché si sapeva che i redditi veri scoperti sarebbero stati trattati equamente gli uni nei confronti degli altri. Quando fu introdotta la D, dei redditi di lavoro degli impiegati pubblici e si giustificò la riduzione di essi ai 4 ottavi col dire che essi non poterono essere in alcun modo occultati, si introdusse nella legge tributaria un germe di falsità, di ipocrisia, di invidia, che fu causa di mali senza numero.

 

 

Gli impiegati, tassati sul vero, invidiano i professionisti che possono sfuggire alle maglie tributarie; e non contenti del vantaggio di essere tassati con aliquota di favore, vorrebbero che i professionisti, gli industriali ed i commercianti non solo pagassero aliquote più alte, ma le assolvessero sul reddito vero. Giustizia vorrebbe che, se gli impiegati sono tassati all’8 % i professionisti lo fossero col 4 per cento. Ma nessun legislatore oserebbe sancir tanto, anche se fosse sicuro di tassare i professionisti sul reddito vero. Le ottime ragioni addotte a suo luogo (cfr. paragr. 9), sarebbero negate contro ogni evidenza e, confondendo ragionamenti pertinenti all’aliquota costante delle imposte reali (come è, salvo qualche correzione, l’imposta di ricchezza mobile), con quelli relativi alle aliquote crescenti della imposta complementare, si griderebbe all’ingiustizia di tassare di meno i redditi alti dei professionisti (le solite punte impressionanti) degli stipendi modesti dei funzionari. Giustizia strettissima vorrebbe che se lo stipendio dell’impiegato pubblico è tassato all’8 per cento, lo stipendio assai meno sicuro, meno continuativo, meno generalmente progrediente, meno integrato da riposi sicuri, da pensioni di vecchiaia e pensioni riversibili, dell’impiegato privato fosse tassato al più al 6 per cento. Ma è impossibile rendere giustizia all’impiegato privato, in punto ad aliquota, senza far sorgere querimonie senza numero degli impiegati pubblici contro chi è sospetto di occultare, d’accordo con i privati datori di lavoro, parte del suo reddito.

 

 

15. – Sono oramai giunto alla conclusione, logico punto di arrivo di quanto sinora fu esposto: fa d’uopo sopprimere la categoria D, ossia abolire l’imposta sugli impiegati pubblici. Il pubblico erario non patirebbe nessun danno dall’abolizione, così come nessunissimo danno ha patito, a suo tempo, in conseguenza della abolizione, oramai quasi assoluta, della imposta sugli interessi dei titoli di debito pubblico. Al par di questa, la ritenuta sugli stipendi dei pubblici impiegati è, parlando in linguaggio comune, una farsa, in linguaggio tecnico, una partita di giro. Nessun impiegato fa conto di ricevere 100 lire di stipendio, ma tutti calcolano sulle 92 che percepiscono o percepiranno al netto dall’imposta[6]. Quando si redassero le tabelle degli organici dei pubblici funzionari, gli stipendi furono fissati al lordo in una data cifra, perché si sapeva che quel lordo corrispondeva ad un certo «netto» è quest’ultimo era la sola cosa seria a cui si pensava. Perché si conservi questo abracadabra di stipendi lordi e netti, di ritenute, di somme che entrano ed escono sui libri dei contabili e nei rendiconti del tesoro, perché si continui a ingrossare la pubblica contabilità con queste inutili complicanze, davvero non si capisce. Per darmene ragione, un tempo pensai che fosse necessaria la ritenuta, per infondere nei colpiti la consapevolezza di pagar tributo e di sentirsi membri della collettività  statale. Ed è vero; ma il beneficio è certamente minore del danno dell’irritazione e dell’invidia che la ritenuta fa sorgere nell’animo degli impiegati contro tutti gli altri contribuenti e dell’incoraggiamento e della giustificazione che la sua apparente ingiusta altezza fornisce a commettere ingiustizie reali contro gli altri contribuenti. Poiché già oggi è vero che lo stipendio non è 100, ma 92, che l’imposta 8 non esiste, che essa figura solo sulla carta ad incremento di passioni di classe e di sentimenti anticollettivi, meglio sarebbe adeguare senz’altro la lettera della legge alla realtà e dichiarare che lo stipendio è 92 esente da qualunque imposta e ritenuta diretta.

 

 

16. – «Sarebbe», dico; poiché se questa è la soluzione «scientificamente» corretta, non è tale «politicamente». L’arte di governo deve tener conto della ragion pratica, oltreché della ragion ragionante; e la ragion pratica dice che la riforma deve essere attuata in modo che gli impiegati abbiano la sensazione di un beneficio effettivo ad essi arrecato, non di una mutazione formale. Esentarli dall’imposta, ma ridurre nel tempo stesso lo stipendio da 100 a 92, parrebbe ad essi uno scherzo; e non si otterrebbero i vantaggi desiderati di incremento di sentimenti socialmente utili. Gli impiegati penserebbero pur sempre di pagare l’8 per cento d’imposta sotto forma di riduzione dello stipendio, laddove gli altri privilegiati pagherebbero di fatto assai meno.

 

 

Importa invece costituire i pubblici impiegati in una situazione formale di privilegio tributario. Privilegio sentito da essi e dal pubblico, come riconoscimento della dignità del loro ufficio. Perciò ho voluto, alla analisi del male, far seguire la proposta del rimedio, in un momento in cui non è possibile attuarlo nella sola maniera gradita agli interessati e giovevole alla cosa pubblica. La maniera non è di ridurre lo stipendio da 100 lordo a 92 netto; ma di dichiarare nette le attuali 100 lorde. Ciò è impossibile oggi, ché il bilancio dello Stato deve far fronte alla necessaria crisi della stabilizzazione monetaria. Relatori alla Camera e al Senato e ministro delle finanze hanno insistito sulla necessità del più rigido governo del denaro pubblico, per sormontare le conseguenze delle ovvie contrazioni del gettito tributario in tempi di ritorno alla moneta sana. E poiché rinunciare ad 8 lire di ritenuta equivale ad aumentare di 8 lire lo stipendio, non se ne può parlare oggi.

 

 

Appunto per ciò, giova oggi cominciare a discutere l’idea. Può darsi che, sebbene a lungo meditata, essa sia erronea. Essa cadrà, in tal caso, nel limbo delle idee mai esistite. Se vera, farà la sua via. Quando la crisi monetaria sarà esaurita, quando il bilancio dello Stato sarà nuovamente al largo, il metodo migliore per risolvere il problema dell’imposta di ricchezza mobile sarà di abolirla per quanto riflette i pubblici funzionari.

 

 

L’abolizione, in quel momento, produrrà un aumento nella rimunerazione effettiva degli impiegati; epperciò la si potrà effettuare se, per altre ragioni, il legislatore riterrà di dovere effettuare quell’aumento. Quali possano essere le altre ragioni non è mio compito neppure discutere. Se esse non sorgeranno o non si imporranno, non se ne trarrà  la illazione che qui mi interessa. Accadde però in passato, dal 1860 al 1928, che si siano dovuti, a parecchie riprese, anche per cagioni non monetarie, accrescere gli stipendi dei pubblici funzionari. Se nuovamente, in avvenire, circostanze nuove produrranno il medesimo effetto, la tesi qui sostenuta dice soltanto che, anche a costo di qualche arrotondamento, lo Stato debba cogliere l’occasione per raggiungere, contemporaneamente all’aumento voluto degli stipendi pubblici, l’altro effetto di abolire una categoria tributaria inesistente di fatto, invidiosa e perturbatrice.

 

 

17. – L’abolizione darà un altro frutto: di far rientrare gli impiegati nella normalità, per quanto si riferisce alla complementare. Oggi gli impiegati assolvono, sui loro emolumenti, una aliquota costante del 0,50 per cento, laddove essi medesimi sull’insieme degli altri eventuali loro redditi e tutti gli altri contribuenti sul loro reddito complessivo pagano un’aliquota progressiva dall’1 al 10 per cento. Il trattamento fatto agli impiegati è assurdo. È l’adombramento subcosciente dell’idea fondamentale esposta nel presente studio: essere cioè vano tassare gli impiegati sul loro stipendio; ma l’applicazione dell’idea è fuori posto. L’idea è vera per l’imposta di ricchezza mobile che è imposta reale, sul reddito della cosa, nel caso nostro sul reddito dell’impiego come tale; ed è perciò imposta ad aliquota costante che riduce tutti i redditi, qualunque ne sia l’ammontare, da 100 a 92. Un’imposta di questo genere, oltre a produrre i mali effetti, sopra descritti, è una semplice partita di giro, ed è quindi cosa vana. Invece la complementare, se vuole essere conforme alla sua indole, deve essere personale, ad aliquota variabile crescente col crescere del reddito imponibile. Essa non colpisce gli impiegati sul loro stipendio, come tale, ma li colpisce in qualità di contribuenti, in quanto essi hanno un reddito di tale importo, goduto da tanto numero di famigliari, gravata da tali oneri passivi. Scindere il reddito degli impiegati in due parti, di cui l’una tassata al 0,50 per cento e l’altra con l’aliquota propria dell’intiero reddito, è un non senso, spiegabile soltanto con la preoccupazione di risarcire in un modo purchessia, fosse pure il più inidoneo immaginabile, gli impiegati del torto ad essi fatto col tassarli eccessivamente in sede di ricchezza mobile. Così operando, si è creato un insieme di stridenti assurdità tecniche, per cui la complementare, che dovrebbe essere personale, diventa reale, dall’aliquota progressiva sua propria volge ad una inidonea costante, dall’essere un qualche cosa a sé stante diventa una semplice addizionale all’imposta mobiliare, e centinaia di migliaia di contribuenti non compaiono più nei ruoli.

 

 

L’abolizione della categoria D dall’imposta di ricchezza mobile consentirà di abolire insieme cotale stranezza tributaria. Gli impiegati, esenti dall’imposta mobiliare reale, non potranno accampare alcuna ragione di essere trattati diversamente dagli altri cittadini di fronte ad una imposta, la quale, al pari della complementare, non distingue più fra categoria e categoria di redditi; ma tutti li somma e li riferisce alla persona. Se godenti di bassi redditi, se carichi di famiglia, se indebitati essi otterranno sgravi e trattamento favorevole, alla pari di chiunque si trovi nelle stesse condizioni. Se forniti di stipendio ragionevole, e di altri redditi di capitale o di lavoro, essi saranno tassati sull’intiero loro reddito, all’aliquota proprio di questo. Di fronte alla complementare scompare l’impiego, lo stipendio, resta il contribuente munito di un certo reddito.

 

 

18. – Eliminata così la D, il trattamento fiscale delle altre categorie potrà essere studiato senza nessuna preoccupazione estranea alla giustizia tributaria. Senza volere fare alcuna proposta ed a titolo di semplice illustrazione dei criteri i quali dovrebbero essere adottati razionalmente, mi azzardo a mettere in carta un confronto tra le aliquote vigenti a partire dall’1 gennaio 1929 e quelle che io supporrei eque:

 

 

   

Aliquote vigenti a partire dal 1° gennaio 1929

Aliquote proposte

Cat. A:

redditi di capitale puro…………………………………………….

20%

20%

Cat. B:

redditi misti di capitale e di lavoro…………………………….

14%

  B2: redditi misti percepiti da società anonime e in accomandita per azioni…………………………………………..

16%

  B1: redditi misti percepiti da altri industriali e commercianti (individui e società di persone)…………….

8%

Cat. C:

redditi di lavoro.

  C2: redditi di lavoro di carattere fisso costituiti da stipendi, pensioni, assegni e vitalizi………………………….

10%

6%

  C1: redditi di lavoro di carattere incerto e variabile, derivanti dall’esercizio di arti, di professioni (e di lavoro manuale)………………………………………………………………

12%

4%

 

 

La categoria A, sui redditi di capitale puro, è fatalmente destinata ad obliterarsi. L’esenzione di quasi tutti gli interessi dei titoli di debito pubblico, quella oramai generale delle obbligazioni emesse all’interno ed all’estero dalle società per azioni, dagli enti pubblici, l’altra delle cartelle di credito fondiario, quelle svariatissime concesse a mutui agrari ed edilizi, sono l’indice di un grave malessere da cui la categoria A è travagliata. Chi paga oramai imposte in categoria A? Certi interessi di titoli di debito pubblico e privato di vecchia data, gli interessi dei mutui ipotecari, gli interessi accreditati sui depositi a risparmio (qui non si nasconde in parte un’altra gigantesca partita di giro e talun reddito acchiappato qua e là  a caso in seguito a spogli, senza dubbio fatti con mirabile acume, di atti, registri, citazioni in documenti di ragion pubblica. Siccome, in un articolo solo, non intendo raddrizzare tutte le gambe storte dei tributi vigenti, mi basti dire che le esenzioni concesse per motivi apparentemente singolari ed oramai divenute imponenti riconoscono in sostanza una idea vecchia, la quale merita di essere ridiscussa: la tassazione autonoma dei mutui ha ragion d’essere nelle imposte reali? Se una casa, se un fondo, se una impresa industriale dà un reddito 100 e di queste 50 rimangono al proprietario e sono trasmesse al creditore, è meglio tassare 100 in blocco, ovvero 50 e 50 separatamente? Molti legislatori, tra cui il nostro in taluni casi, hanno scelto una terza soluzione: tassano 100 presso il proprietario della casa, del fondo, dell’impresa, e poi di nuovo 50 presso il creditore. Le esenzioni recenti a portatori di obbligazioni e di cartelle ad enti mutuanti sono anche qui il riconoscimento implicito che a tassare prima 100 e poi 50 si commette errore di doppia tassazione. Il problema merita di essere ristudiato, così da giungere ad una soluzione razionale. Senza volere anticiparla, mi limito ad affermare che, se esiste davvero qualche reddito di capitale puro, dotato di vera autonomia, il quale meriti di essere tassato a sé, non vi è ragione abbia a mutare, per quel reddito, l’aliquota attuale del 20 per cento.

 

 

L’attuale B è un conglomerato di redditi vari per indole; in cui, sovrattutto, i due fattori costitutivi, capitale e lavoro, entrano in proporzioni assai differenti. Poiché, nel costruire imposte, bisogna resistere alla tentazione di complicare troppo, mi limiterò a dire che all’attuale B bisognerebbe sostituire non meno, ma anche non più di due categorie (B1 e B2), per tener conto della circostanza che il reddito netto delle società  anonime e in accomandita per azioni è sovrattutto reddito di capitale e perciò meritevole di essere tassato poco al disotto del 20 % (propongo il 16 per cento, laddove il reddito delle società di persone e degli industriali e commercianti singoli è assai più reddito di lavoro e perciò meritevole di non essere tassato troppo al di sopra dei redditi di lavoro puro (propongo l’8 per cento). Tassarli amendue col 14 % non risponde ad equità tributaria. Il reddito delle società anonime e in accomandita per azioni è già depurato da stipendi a direttori generali, compensi per opere di dirigenza degli amministratori delegati, ecc., ecc.; e se merita di esser tassato meno dei redditi di capitale puro, ciò accade sovrattutto perché materiato di elementi di rischio più vistosi.

 

 

Inutile ripetere i motivi, sovra ampiamente esposti, per i quali le attuali aliquote del 12 e del 10 % per la C1 e la C2 (redditi di lavoro) debbono ritenersi esageratamente alte ed è giustificata una loro riduzione assai ragguardevole. Importa qui notare inoltre che i rapporti reciproci tra la C1 e la C2 debbono essere addirittura rovesciati. Oggi si fa pagare di più alla C1 (redditi dei professionisti) che alla C2 (redditi degli impiegati privati), perché i primi, incerti e variabili, sono più frodabili. Bisogna escludere del tutto l’elemento della frode dal novero dei criteri formatori delle tabelle delle aliquote. Bisogna ripetere sino alla noia che il legislatore non si può rendere mallevadore e suscitatore di un’azione immorale come la frode fiscale. Far pagare il 12 % ai professionisti ed il 10 % agli impiegati, perché i primi possono frodare, vuol dire incoraggiare i professionisti a frodare, giustificare l’azione antistatale colla riflessione che, dopo tutto, il legislatore ha già  tenuto conto della frode. Lo Stato mette in tal modo se stesso in una falsa situazione; e disarma i suoi funzionari ed i suoi magistrati nella lotta contro la frode. Restituiamo i rapporti tra reddito e reddito alla realtà  vera; e poiché i redditi dei professionisti (C1) sono più incerti, discontinui, terminabili, non pensionabili, ecc., ecc., dei redditi degli impiegati (C2), facciamo ai primi pagare di meno (ad esempio il 4 per cento) che ai secondi (si propone il 6per cento).

 

 

Ove non si voglia creare per i redditi dei lavoratori manuali una categoria a parte (C3) tassata con un’aliquota ancor più bassa (ad esempio il 3 per cento) di quella che colpisce i redditi dei professionisti, li collocherei in C1 con una detrazione iniziale fissa di x lire, allo scopo di tener conto della circostanza che i redditi pagati a giornate od a settimane sono altrettanto incerti come i redditi dei professionisti ed in più sono deprezzati da un fattore di dipendenza dalle vicende economiche (disoccupazione per variazioni cicliche) che rende quei salari meno sostanzialmente godibili, anche se la classe, la quale li percepisce, per colpa sua o d’altri, di circostanze storiche o di educazione imperfetta, è meno atta all’esercizio della previdenza.

 

 

19. – Tutti questi sono, tuttavia, meri particolari. Il punto essenziale è sottrarre la struttura delle aliquote all’influenza di ogni criterio che non sia di mera giustizia comparativa. Solo così sarà possibile combattere la frode e cercare la verità effettiva, senza essere, come oggi accade, trattenuti od incitati da sentimenti di pietà o di invidia. Sentimenti che alla lunga contrastano con l’interesse della cosa pubblica.



[1] Nell’esposizione finanziaria fatta dall’on. Volpi il 25 maggio 1928 alla Camera, le cifre per il medesimo anno 1926 dei redditi medi accertati di categoria B e C1, sono stabilite in L. 4.539 e 4.396. La differenza fra quelle ricordate nel testo e queste nuove è trascurabile; e d’altro canto è preferibile conservare le cifre del testo perché probabilmente meglio comparabili con quella di categoria D, che nell’esposizione del 1928 non è più fornita. Per questa ragione le cifre per il 1928 saranno utilizzate meglio in seguito, per illustrare qualche riflessione esposta nel testo.

[2] Si noti che lo stipendio 100 dell’impiegato è bensì ridotto a 94 per la ritenuta del tesoro del 6 per cento per la pensione; ma, ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, lo stipendio non offre deduzione alcuna, perché l’imposta colpisce le 94 e non le 100.

[3] Veggasi, per la storia della D, il Commento alla legge sulla imposta di ricchezza mobile (terza edizione, vol. terzo, Pag. 194 e seg.) del QUARTA. L’on. Pescatore e con lui il commissario regio, on. Finali, si fondarono precipuamente «sulla maggiore gravezza della tassazione mediante ritenuta (propria della D)… la quale colpisce con precisione matematica il reddito nella sua totalità» laddove, «la tassazione per denuncia (propria della B e della C) istituisce un procedimento che presuppone il concorso volonteroso del contribuente, dipende da certe qualità morali dei contribuenti, dipende ancora sempre da un giudizio poco meno che arbitrario del contribuente stesso, senza parlare delle frodi; si può ritenere per certo guardando alla verità  dei fatti, che un reddito commerciale od industriale tassato nominalmente in ragione 10 per cento in realtà pagherà appena l’8 per cento; e tassato per l’8 per cento, forse non pagherà effettivamente che il 6 per cento; la ritenuta dovrebbe avere la propria quota, e questa quota dovrebbe essere inferiore non meno di un quinto a quella quota che è stabilita alla tassazione col processo della denunzia». A questa tesi, che è la tipica teorizzazione legislativa del fattore «frode» si oppose strenuamente il Valerio, proclamandola «antistatutaria» e contraria al principio della uguaglianza tra i contribuenti viventi del frutto del proprio lavoro; ma sebbene il ministro Sella riconoscesse che «logicamente parlando» chi aveva ragione era l’on. Valerio, e il commentatore Quarta rincalzasse poi con ottime ragioni la tesi contraria alla discriminazione tra la C e la D, questa divenne legge e con essa implicitamente fu dichiarato, nel sistema della legge e secondo la logica di questa, che vi sono contribuenti chiamati a pagare una aliquota più alta ed altri a cui si consente di applicare una quota più bassa, perché i primi possono possono nascondere alcuna parte del loro reddito al fisco. Funestissima ammissione, come si dirà  poi nel testo.

[4] Leggasi in questa stessa rivista a carte 434 e seg. dell’annata 1927, la assai fine analisi di un egregio funzionario delle imposte, Antonio Deni, dell’importanza preminente per la “valutazione del reddito” dell’ammontare dell’imposta totale da pagare. Il reddito accertato non è dato primo, bensì il risultato finale di una operazione di stima, di cui il punto di partenza è: quanto può pagare Tizio di imposta in relazione all’imposta pagata da Caio e Sempronio? Chi abbia discorso talvolta con funzionari e con contribuenti, resta persuaso della vanità  delle discussioni sulle cifre di reddito, quando tutto il problema verte sulle possibilità  comparative di pagare tale o tale altro ammontare d’imposta. Fissata l’imposta ed essendo nota l’aliquota, si deduce il reddito da iscriversi a ruolo, non viceversa. Né le cose muteranno, sinchè l’ordinamento delle aliquote non torni, assolutamente e relativamente, a coincidere con gli apprezzamenti medi soggettivi che i contribuenti delle diverse categorie fanno della loro capacità rispettiva di pagare imposta. Il presente studio vorrebbe essere per l’appunto un tentativo di far ridiscutere il fondamento razionale della differenziazione delle aliquote, sicchè venga abolita ogni spinta a coonestare gli scarti odierni dei redditi legali accertati dai redditi veri.

[5] MAFFEO PANTALEONI, La curva dei redditi degli impiegati dello Stato. Osservazioni varie (in «L’Economista», vol. 45esimo, n.2.072, 18 gennaio 1914).

[6] Faccio astrazione, per il momento, dal 6 per cento di ritenuta tesoro per le pensioni, e da altre minute deduzioni, che, anch’esso, sono pratiche partite di giro e dovrebbero ugualmente essere, al momento opportuno abolite. Non discuto neppure, per ora, del trattamento da farsi agli impiegati non di Stato, ma di enti pubblici pure compresi nella D. In massima, la soluzione della abolizione parmi anche per essi consigliabile, tenuto conto che la mancata trattenuta può essere compensata all’erario con qualcuna delle molte maniere di rapporti di dare ed avere fra gli erari dello Stato e delle altre pubbliche amministrazioni.

 

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