Stato liberale e stato organico fascista
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 16/08/1924
«Corriere della Sera», 16 agosto 1924
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 794-798
Passiamo sopra alle difficoltà spinose di attuazione del nuovo ordinamento costituzionale a base di corporazioni e di consigli tecnici poiché esse potranno formare oggetto di attento esame nel caso poco probabile che l’Italia volesse fare quest’altro esperimento di novità vecchie. Per ora siamo ancora nel campo delle formule generali; ed importa cominciare a discutere il principio.
Forse non è dubbia la massima che un qualunque regime costituzionale deve essere approvato o condannato, a seconda della sua capacità od inettitudine a creare una classe politica degna di reggere la somma delle cose dello stato. Carte costituzionali e statuti sono puri strumenti per questo fine; diventano venerandi quanto meglio e più a lungo l’esperienza ne ha dimostrato l’attitudine alla formazione di una buona classe politica. Saggiato a questa pietra di paragone, quale giudizio comparativo si deve dare del decrepito ed esaurito stato demo-liberale e del nuovo stato fascista, organizzato in corporazioni ed in consigli tecnici?
Lo stato demo – liberale, il quale affida i poteri legislativo ed esecutivo ai designati dalla maggioranza di un parlamento scelto da un suffragio universale o larghissimo, di uomini votanti nella loro indistinta qualità di cittadini, crea la propria classe politica col seguente congegno:
- libertà illimitata di discussione per cui ogni uomo può colla parola e collo scritto cercare di dimostrare l’errore o l’insufficienza delle idee e dei propositi di ogni altro uomo, il quale aspiri a partecipare alla vita pubblica;
- assenza di qualunque posizione acquisita personale; per cui ognuno, il quale sia giunto ad alta posizione politica è sempre soggetto ad essere scalzato da un qualunque nuovo venuto, il quale sappia meglio cattivarsi il favor popolare;
- assenza di qualunque posizione acquisita da parte dei grandi gruppi di interessati. Se gli industriali, se gli agricoltori, se gli intellettuali, se i contadini o gli operai vogliono far sentire la loro voce, debbono agire per mezzo dello strumento discussione. Debbono cioè organizzarsi, parlare, agitarsi per attrarre a sé gli elettori; per dimostrare che i loro interessi meritano attenzione o tutela.
Il sistema politico che si chiama liberale non ignora dunque gli interessi economici, le forze organiche, le tradizioni, le idee. Neppure dice che lo stato debba rimanere indifferente e lasciarsi malmenare dagli interessi contrastanti. Chi parla così, fa la caricatura dello stato liberale; non ne sfiora neppure l’intima sostanza. Lo stato liberale ha una fede: quella che il diritto di governare spetta a chi abbia maggior forza di persuasione, a chi abbia un più alto ideale di vita; a chi, per attuare questo ideale, abbia la forza di farne diuturna propaganda, di imporne, colla persuasione, l’accettazione al popolo così da ottenerne il voto ed il consenso.
L’idea che vince, andando al potere, non rimane, nello stato liberale, passiva; ma di sé permea tutto lo stato e lo fa agire e lo spinge verso i fini che sono suoi proprii. Il proprio, il caratteristico dello stato liberale, non è, come favoleggiano i nuovissimi critici, l’assenza di idee proprie, la tolleranza e l’indifferenza verso tutte le idee; sta nel timore che deve continuamente avere ogni idea, ogni tendenza, ogni interesse, giunto al governo attraverso il regime di pubblica discussione, di essere soppiantato dall’idea avversa, dalla tendenza opposta, dall’interesse contrastante. Perciò l’idea al governo, per vivere, deve sforzarsi a vivere sempre meglio; deve coll’opera propria dimostrare di essere operosa e viva e più feconda delle idee concorrenti. Se di tale sforzo continuo non è capace, essa cadrà e darà luogo al dominio di altre idee, le quali di sé informeranno lo stato e lo faranno agire in conformità ai loro proprii caratteri.
Accade talvolta che il governo cada in mano di procaccianti e di mediocri; che per arrivare al potere si piaggino le passioni più basse del popolo; che, invece di elevarlo alla conquista dei grandi ideali lo si abitui alla richiesta di vergognose elemosine. La concorrenza può agire nel senso di far cacciare la classe politica più buona da altre classi politiche ognora più cattive. Ma qualunque regime, di monarca assoluto, di tiranno, di aristocrazia, non è forse soggetto ad uguali o peggiori vizi? Ma se la realtà è inferiore all’ideale, forseché dobbiamo darne colpa al concetto di stato liberale? Questo concetto è una formula politica, simile in ciò a tutte le altre che gli si contrappongono; né può estrarre dal paese gli uomini che non ci sono; non può d’un tratto costringere una popolazione apatica o materialistica od ingorda a fare scelte migliori di quelle a cui dalle proprie mediocri attitudini è portata.
Lo stato liberale offre però alle minoranze animate da alti ideali, composte di uomini di forte carattere il mezzo migliore per imporsi ad una collettività disorientata e fiacca. Se neanche queste minoranze coraggiose e colte esistono, quale altra formula sarebbe capace di crearle per propria taumaturgica virtù?
Il nuovo stato fascista-corporativo-tecnico offre forse questa formula miracolosa? Ahimè! esso conduce a ben diverse e gravi conseguenze. Se la formula significa qualcosa di serio, essa deve significare che non gli «uomini» eleggono, discutono, sono oggetto di promesse, di inviti, di educazione; ma gli «organismi», le «corporazioni», gli «interessi» materiali ed intellettuali.
Dunque, sarà giuocoforza dividere gli uomini in gruppi, classificarli, organizzarli. La classificazione non potrà essere mobile, a volontà dei partecipanti, ché allora ricadremmo nell’antica deprecata anarchia atomistica. Ci dovrà essere in principio una legge la quale dirà: i calzolai contano tanto, i meccanici tanto, i professori medi tanto, gli universitari tanto, ecc. ecc. Ad ogni gruppo sociale, di proprietari, di contadini, di intellettuali, di ufficiali, di impiegati bisognerà dare un peso politico; attribuire cioè un coefficiente di partecipazione al governo della cosa pubblica.
Per lunghi anni, ogni corporazione conserverà nello stato quel peso politico che le fu attribuito in principio. Per cambiare i rapporti tra i pesi politici quale mezzo esisterà fuor di una rivoluzione periodica? I corpi costituiti sono tenacissimi dei loro privilegi; e guardano con sospetto ai nuovi venuti. Per decenni avremo selvaggi senza voto, mestieri «nuovi», nuovi interessi, nuovi ideali privi del diritto legale di partecipare alla vita politica del paese.
Quale sarà questa vita? Una vita miserabile per fermo, di cui la trama quotidiana sarà data da mediocri patteggiamenti sulla divisione delle spoglie comuni tra le corporazioni inizialmente più potenti.
Peggio: chiunque conosce il modo con cui oggi si forma la classe dirigente dei gruppi associativi liberi, sa che essa non è frutto di libera, aperta competizione; ma di selezioni casualmente avvenute tra persone per lo più in altre faccende occupate. Il che vuol dire che nei gruppi corporativi predomina l’autoselezione; prevalgono coloro che professionalmente si dedicano alla gestione dell’interesse comune. È diffuso il tipo del segretario politico, del segretario di lega, del professionale il quale dalla politica trae i mezzi di vita.
Nello stato liberale la scelta della classe politica può avvenire anche all’infuori dei professionali: i grandi interessi pubblici sono sempre alla ribalta. I giornali concentrano su di essi l’attenzione del pubblico; i dibattiti si accendono; le polemiche imperversano; la classe politica si affina nell’esercizio continuo e violento di cattivarsi l’opinione pubblica. Uomini di vaglia sono attratti dalla grandezza e dal fulgore della lotta. Questa cosa indefinibile, fatta dagli ondeggiamenti delle masse intermedie, dei non partitanti, che si spostano incessantemente dai rossi ai bianchi ai tricolori o viceversa, questa opinione pubblica è la vera dominatrice. Il pendolo politico continuamente oscilla e salva il paese dalle esperienze estreme pericolose.
In un regime corporativo, dove mai si nasconderà l’opinione pubblica? È pensabile che ci sia un’opinione pubblica dei cotonieri, dei facchini dei porti, dei ferrovieri, dei professori d’università, degli artisti? Ma tutti questi sarebbero piccoli interessi complottanti per procacciare a sé benefizi privati ai danni della collettività. Uno stato siffatto potrà esprimere una ben meschina classe politica di oscuri professionisti in confronto alla ricca gamma di valori umani che possono essere il risultato del regime di discussione. Eppure si osa dire che questo ludibrio di stato agirà in virtù di quell’idea che il consunto stato liberale più non possiede!
In verità, il nuovo stato avrebbe un compito: cristallizzare il potere in mano di quel gruppo di conquistatori che nel momento della sua formazione avessero saputo mettere le mani sugli organismi corporativi chiamati a fornire gli uomini di governo. Tolta di mezzo l’opinione pubblica, distratte le menti dalla discussione dei grandi problemi nazionali, concentrati gli sforzi degli individui nella difesa dei proprii interessi di gruppo contro i gruppi concorrenti al saccheggio dello stato e contro le minacce dell’insorgere di nuove forze selvagge non classificate, gli uomini via via si avvilirebbero alla condizione di mendicanti. Lo stato avrebbe l’apparenza di forte, perché i capi distributori facilmente otterrebbero l’omaggio dei dipendenti. Colosso dai piedi di creta; ché le mutazioni incessanti dell’organismo sociale, gli spostamenti continui delle forze economiche e sociali lo renderebbero ben presto anacronistico. La lotta fra i privilegiati intesi a tenere per sé il potere, fonte di ricchezza, ed i diseredati, ansiosi di conquistare una posizione legale corrispondente alle proprie virtù, fatalmente condurrebbe ad una rivoluzione distruggitrice di così detestabile ordinamento statale.
Ma la rivoluzione non verrà, ché gli italiani non vogliono il dominio permanente di nessuna minoranza conquistatrice; ma, fedeli agli ideali dello stato liberale, intendono che le classi politiche si alternino al potere, conquistandone a volta a volta il diritto mercé sforzi incessanti per creare nuovi più perfetti ideali di governo.