I cambi sono troppo alti?
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 02/07/1924
I cambi sono troppo alti?
«Corriere della Sera», 2 luglio 1924
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 739-743
Una tra le più frequenti domande a cui noialtri studiosi di economia siamo talvolta costretti inopinatamente a rispondere è: i cambi sono troppo alti? Discenderanno? È gran fortuna che per lo più la domanda non sia fatta per ottenere un giudizio morale e politico e che si limiti alla richiesta di un parere economico puro e semplice: non su quel che dovrebbe essere, ma su quel che è o sarà.
Anche così ridotta, la domanda è spinosissima; ed immagino che gli interrogati useranno tutti per lo più qualche avvedimento per non rispondere in modo netto. Rispondere nettamente non si può, perché la risposta non esiste. In regime di moneta fiduciaria, permutabile in oro, ci vuol poca fatica a sapere quando il cambio è troppo alto o troppo basso. Basta guardare ai cosidetti punti dell’oro: quando il cambio sale oltre 100,40 o 100,50 si dice che è troppo alto; quando scende sotto 99,60 o 99,50 si dice che è troppo basso e si prevede a colpo sicuro che presto rientrerà entro i limiti infrangibili dei punti.
In regime di corso forzoso, invece, non esistono limiti al vagabondaggio dei cambi: ed un cambio non si può dire alto o basso, poiché non esiste un punto di riferimento su cui misurare l’altezza. Questo punto di riferimento non è la cosidetta pari, perché, rotto il vincolo tra la carta e l’oro, quel punto della pari è divenuto uno tra i tanti punti possibili, non dissimile in nulla dagli altri. Ridiverrà, quello o un altro, importante solo quando lo stato dichiarerà di riprendere il cambio dei biglietti in moneta vera. In regime di corso forzoso, il concetto di «alto» o «basso» è fluttuante. Quanti cambi che parvero vertiginosi ad una certa data, sembrarono poi bassissimi, di fronte alle maggiori altezze toccate dopo!
Tuttavia, si può dire che il cambio è troppo alto o troppo basso anche in regime di carta forzosa, dando a queste parole il significato di cambi male aggiustati con altri fatti contemporanei della vita economica. È frequente sentir dire, ad esempio, da uno straniero che egli trova la vita a buon mercato in Italia. Il che vuol dire che, con le lire acquistate con i loro dollari o sterline o fiorini o franchi, gli stranieri comprano in Italia più roba di quanto acquistassero in patria con la moneta d’origine. Il che vuol dire ancora che i cambi sono male aggiustati con i prezzi interni, sono cioè troppo alti in relazione ai prezzi interni.
Si può dimostrare che l’impressione degli stranieri corrisponde a realtà. Per non confonderci la testa, ragioniamo su poche cifre:
Maggio 1913 | Maggio 1914
| |
Numero indice dei prezzi italiani all’ingrosso secondo la camera di commercio di Milano
| 1,00 | 5,46 |
Numero indice dei prezzi nordamericani
| 1,00 | 1,50 |
Prezzo del dollaro in lire italiane
| 5,18 | 23 |
Numero indice del prezzo del dollaro in lire italiane
| 109 | 444 |
La tabella dice che, per comprare negli Stati uniti tanta merce quanta prima ivi si comprava con 1 dollaro, bisogna ora negli stessi Stati uniti spendere 1 dollaro e mezzo.
Quindi, un italiano il quale prima della guerra doveva spendere lire 5,18 per comprare negli Stati uniti ciò che ivi valeva 1 dollaro, oggi per comprare la stessa quantità di roba dovrebbe spendere tante lire quante occorrono per comprare 1,50 dollari, e cioè ossia lire 34,50.
Il che vuol dire anche che l’italiano deve oggi in Italia spendere 5,46 invece di 1 per avere una data quantità di roba; ma deve spendere negli Stati uniti 34,50 invece di 5,18 per ottenere lo stesso effetto.
Continuando, e riducendo tutto a percentuali, ciò vuol dire che con 1 lira si compra oggi in Italia il 18,30% di quanto si comprava prima della guerra; ma, se l’italiano si recasse con la stessa lira negli Stati uniti, comprerebbe oggi solo il 15% di ciò che avrebbe comprato nel 1913.
Dunque la vita è rincarata meno in Italia che negli Stati uniti. Il calcolo è stato fatto sui prezzi all’ingrosso; ma se si facesse il calcolo sui prezzi al minuto (aumentati a Torino, ad esempio, secondo l’ufficio municipale del lavoro, da 100 a 465), il confronto riuscirebbe ancor più favorevole all’Italia.
La conclusione a cui si è arrivati dimostra altresì che ai produttori americani conviene di meno – in confronto all’ante-guerra – vendere in Italia, mentre ai produttori italiani conviene di più vendere in America.
Infatti, un produttore americano, il quale oggi vende negli Stati uniti ad 1,50 dollari una merce che prima della guerra vendeva ad 1 dollaro, per avere convenienza ad esportarla in Italia, dovrebbe almeno ricavarne tante lire quante gli consentono di cavarne 1,50 dollari. Ossia dovrebbe incassare 23 lire x 1,50 e cioè lire 34,50.
Ma egli non riesce in media a far ciò, perché quelle merci egli le vendeva in Italia prima della guerra a lire 5,18, equivalente in allora di 1 dollaro. Le merci in Italia sono cresciute bensì di prezzo durante e dopo la guerra; ma da 1 a 5,46. Moltiplichiamo 5,18, prezzo antebellico, per 5,46, moltiplicatore medio dei prezzi, ed otteniamo un prezzo medio di lire 28,28. L’americano non ha convenienza in media a vendere in Italia, perché ricava solo lire 28,28, che a noi sembrano molte, ma che a lui non rendono quella somma di 1,50 dollari, che può ricavare nel suo paese. È chiaro che per la stessa ragione conviene invece agli italiani vendere negli Stati uniti. Ricevono 1,50 dollari ossia lire 34,50 per la merce che qui in media venderebbero per 28,28.
Quando i vari fatti economici si trovano in quella situazione reciproca che ho descritto sopra con gli esempi numerici addotti – puri esempi, che non bisogna assumere come oro in barra applicabile a tutti i casi, ma come indicazioni generiche di tendenze – si dice che essi sono squilibrati. Prezzi interni, cambi esteri e prezzi esteri sono tra di loro in disaccordo. Poiché neppure i prezzi e i cambi possono seguitare in perpetuo a mostrarsi i pugni, arriverà il giorno in cui si metteranno d’accordo. Gli italiani, a furia di esportare di più, faranno aumentare i prezzi interni; ovvero gli stranieri, esportando di meno, lasceranno cadere i proprii: od i cambi si muoveranno, sino a mettersi tutti insieme in una condizione di equilibrio reciproco.
Le tre soluzioni estreme potrebbero essere le seguenti:
- o i prezzi interni in Italia già aumentati in media da 1 a 5,46 aumenteranno ancora a 6,66;
- o i prezzi esteri nordamericani ribasseranno da 1,50 ad 1,23;
- o il cambio della lira sul dollaro scenderà da 23 a 18,85 lire.
Fatti i conti, che qui non sto a riportare, in ognuna di queste tre ipotesi, prezzi interni, prezzi esteri e cambi esteri si troverebbero in equilibrio, mentre oggi non sono.
È estremamente difficile prevedere quale di queste tre ipotesi debba verificarsi, e se una sola o una combinazione di tutte tre e quale tra le tante combinazioni possibili. Scrivendo questo articolo non ho voluto affatto azzardare una qualsiasi profezia. Ho inteso soltanto mettere in chiaro – seppure in questa materia si può essere tollerabilmente non del tutto incomprensibili – in qual senso può parlarsi di cambi troppo alti. Sì, dati i prezzi italiani ed i prezzi nordamericani delle merci, il cambio del dollaro è troppo alto. Dovremmo pagare il dollaro 18,85 invece che 23 lire. Constatazione questa di carattere puramente economico astratto, tendenziale. Non è un giudizio morale, non è una previsione. Ho già detto invero che l’equilibrio può essere raggiunto per altre due vie principali – rialzo dei prezzi italiani, ribasso dei prezzi americani – e per innumeri combinazioni tra esse e il ribasso dei cambi. Aggiungo che l’equilibrio non si raggiunge mai d’un colpo; ma richiede mesi e per lo più anni al suo compimento, attraverso oscillazioni imprevedibili e quasi sempre inaspettate. Certo, l’elemento più facile e rapido a muoversi dovrebbe essere il cambio. I prezzi interni ed esteri sono fatti vasti, complicati, soggetti ad attriti ritardatori innumerevoli. Dovrebbe essere più facile al cambio scendere da 23 a 18,85 che non ai prezzi interni salire da 5,46 a 6,66 od ai prezzi nordamericani scendere da 1,50 a 1,23.
Ma i cambi sono forse più soggetti ad influenze politiche interne ed internazionali, a speranze e a timori. Entra in scena l’imponderabile, si afferma ciò che non può essere oggetto di giudizio economico.