Pace e guerra nel mondo del lavoro
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 15/11/1923
Pace e guerra nel mondo del lavoro
«Corriere della Sera», 15 novembre 1923
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 447-452
Una certa maggior asprezza di linguaggio fra organizzazioni e corporazioni operaie ed organizzazioni padronali, qualche importante interruzione di lavoro verificatasi qua e là, hanno potuto far credere che il tempo delle continuate e gravi perturbazioni nel campo industriale stesse, se non per ricominciare, almeno mandare nuovamente qualche bagliore. Qui importa distinguere due specie di movimenti operai. Uno è quello che caratterizzò, in quasi tutta Europa, eccettuata forse soltanto l’Inghilterra, il mondo operaio negli anni dal 1919 al 1921; ed era il movimento a tipo millenario, dell’aspettazione dell’ordine nuovo, del messia annunciato da Mosca, il quale avrebbe dovuto instaurare in terra il paradiso, distruggere il capitalismo, dare la ricchezza alle turbe. Questo movimento è finito dappertutto. Al pari di noi, ne furono colpite l’Ungheria, l’Austria, la Cecoslovacchia, grandi zone della Jugoslavia, della Rumenia, della Spagna e della Germania. Talvolta, parve che qualche paese stesse per soccombere alla febbre avveniristica; ma poi, ad uno ad uno, tutti i paesi infetti si salvarono. Né pare che così presto possano riprodursi le circostanze le quali avevano prodotto l’infierire del morbo messianico della distruzione. Persino la Germania, flagellata dalla più tremenda delle malattie economiche che è lo sconvolgimento dei rapporti monetari, resiste, e gli sporadici focolari di infiammazione sono spenti. Anche ad uomini torturati da inquietudini nere e da bisogni urgenti, la vita, sia pur misera, appare preferibile alla morte che sarebbe la conseguenza del flagello moscovita.
Ma vi è un altro genere di agitazioni e di controversie operaie che è perenne ed insopprimibile. Ed è quello derivante dalla necessità di dividere in date proporzioni il prodotto comune tra i diversi partecipanti alla produzione agricola od industriale. Capitalisti, imprenditori ed operai hanno un primo fondamentale interesse comune: che è di spingere la produzione al massimo, affinché la torta da dividere sia la più grande possibile. Non solo hanno questo interesse i capitalisti, gli imprenditori e gli operai, ma lo hanno anche gli altri fattori della produzione, come lo stato, i comuni, i consorzi e gli enti pubblici in genere i quali, garantendo sicurezza, giustizia, difesa, viabilità, istruzione, creano l’ambiente giuridico ed economico entro cui la produzione può svolgersi.
Il disaccordo sorge nel momento successivo della distribuzione del prodotto: quanto grande sarà la fetta che sulla torta comune si ritaglieranno i capitalisti (interesse), ovvero gli imprenditori (profitto), ovvero gli operai (salario) od ancora lo stato (imposta)? Se gli uni si allargano un po’ troppo, non staranno male gli altri? Che ciò possa accadere sarebbe temerario ed irreale escludere. Tanto più che può anche darsi – gli economisti più recenti hanno compiuto in argomento indagini finissime – che ognuno dei partecipanti abbia interesse e possibilità di rendere massima la propria quota anche a costo di diminuire un poco la torta comune. Gli imprenditori (industriali) possono con accordi tra loro (sindacati o trusts) ovvero con dazi protettivi lucrare di più, pure diminuendo il prodotto lordo al disotto del massimo. Gli operai possono avere lo stesso interesse e cercano di attuarlo con privilegi di leghe e di cooperative. Lo stato, dal canto suo, può esigere imposte esorbitanti, poco curandosi di danneggiare la produzione. Perciò è probabile che il vantaggio massimo della collettività si raggiunga quando i vari collaboratori della produzione procedano d’accordo, sorvegliandosi e limitandosi a vicenda. L’accordo è necessario, perché in fondo in fondo l’interesse comune prevalente alla lunga è quello di rendere massima la produzione. Un po’ di gelosia e di sorveglianza, un po’ di stato di battibecco è tuttavia necessario nello stesso interesse comune, per impedire che ognuno pensi solo ai casi proprii e, non preoccupandosi degli altri, adotti quei metodi produttivi che, giovando a sé, danneggiano gli altri e quindi l’interesse comune. Né si può dire che vi sia uno tra i fattori, il quale possa fare da moderatore assoluto. Neppure lo stato; ché anch’esso è un fattore di produzione, anch’esso si taglia la propria fetta sulla torta comune ed anch’esso è soggetto alla tentazione di tagliarsela un poco troppo più grossa del necessario. In realtà ognuno modera gli altri; e il controllo di tutti sugli altri è necessario affinché la collettività raggiunga il massimo di benessere, compatibilmente colla imperfezione connaturata agli uomini.
Pare dunque che la fondamentale necessità della cooperazione lasci un certo margine alla possibilità di contese e di lotte. Anche in una società economica normale una certa proporzione di quei fatti che si chiamano scioperi e serrate è inevitabile. La proporzione cresce o diminuisce per ragioni economiche che si potrebbero chiamare naturali. Per parlare in linguaggio volgare, quando la torta cresce, c’è nel mondo un gran dar di gomiti per appropriarsi tutto l’aumento. Se gli affari vanno bene e c’è più da dividere, tutti vanno all’arrembaggio: operai, imprenditori, capitalisti, stato, tutti cercano di arrivare per i primi a tirare sul proprio piatto quella pietanza in più che è portata sul tavolo. Quando la torta rimpicciolisce, ognuno sta quatto quatto colle mani ferme attorno alla porzione acquisita in passato. Non si guarda sul piatto del vicino; paghi di rimanere in stato di difesa contro le eventuali offese altrui. In tempi di affari cattivi, scioperi e serrate calano.
Ho detto sopra che l’Inghilterra era il paese d’Europa dove l’ondata messianica del dopo guerra aveva esercitato la minore influenza; la «minore» – dico – poiché anche là si era fatta sentire. In quel paese perciò le controversie «economiche» si possono osservare meglio che altrove, meno disturbate cioè dalla interferenza delle controversie a tipo leninista o millenario. Ed ecco che gli scioperi passano attraverso ai minimi ed ai massimi che qui sotto si vedono:
Numero controversie | Numero operai | Numero totale di giorni di lavoro perduto
| |
1909
| 422 | 298.000 | 2.675.000 |
1912
| 834 | 1.462.000 | 40.901.000 |
1916
| 532 | 276.000 | 2.475.000 |
1921
| 763 | 1.801.000 | 85.872.000 |
1922
| 565 | 551.000 | 19.918.000 |
1923 (primi 9 mesi)
| 489 | 358.000 | 8.347.000 |
Sono tre ondate o cicli economici che qui sopra sono delineati; con tre minimi e due massimi. Si comincia col 1909, epoca di depressione economica. La quiete è grande e i giorni di lavoro persi sono minimi. Gli operai hanno troppa paura di rimanere fuori, in balia della disoccupazione, per aver tempo e voglia di scioperare. Nel 1912 gli affari vanno bene; e si perdono 40 milioni di giornate di lavoro per disputarsi sulla migliore distribuzione della torta. Nel 1916 il minimo è raggiunto per altra via: quello della regolamentazione bellica. Gli operai non disputano, perché preferiscono l’officina alla fronte. Nel 1921, grande prosperità e grande orgasmo; 85 milioni di giornate perse. Nel 1922, colla depressione industriale e con l’esercito dei disoccupati alle spalle, la litigiosità industriale diminuisce; e la diminuzione si accentua nel 1923. Forse nel 1924 i giorni perduti saranno ancor meno; per ripigliare poi a risalire, ai primi bagliori di prosperità economica. Ove le riparazioni andassero in porto, la questione della Ruhr fosse risoluta e la Germania ritornasse a comprare ed a vendere, il termometro degli scioperi e delle serrate tornerebbe indubbiamente a salire. Sono vicende naturali, che possono essere temperate, smussate, rese meno accentuate; ma che è impossibile obliterare del tutto. Cambiano i nomi e gli ideali dei dirigenti del movimento: sindacati rossi o bianchi o gialli o corporazioni fasciste; ma le sue leggi sono segnate dall’esperienza. Questa ha segnato fortunatamente altresì quali siano i metodi più efficaci per ridurre al minimo – minimo variabile secondo le leggi ora dette – gli attriti e le perdite. Non bisogna assistere impassibili alla lotta. Non è indifferente che negli anni di morta si perdano 2 ovvero 5 milioni di giornate; e negli anni di prosperità 40 ovvero 85 milioni. Tutta l’arte dell’uomo di stato e dei condottieri industriali ed operai sta non nel sopprimere la lotta, impresa assurda e probabilmente perniciosa, ma nel ridurne al minimo possibile le manifestazioni dannose alla collettività.