Opera Omnia Luigi Einaudi

La svendita delle uve e la tassa sul vino

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 03/11/1923

La svendita delle uve e la tassa sul vino

«Corriere della Sera», 3 novembre 1923

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 432-436

 

 

 

Nelle regioni viticole italiane non si ricordava da un pezzo una stagione così abbondante per quantità e così disastrosa per prezzi come quella appena adesso conchiusa. Debbo risalire al 1908 per riandare con la memoria un parallelo approssimativo alla situazione attuale; ma anche in quell’anno la stagione erasi svolta più favorevolmente e, se le uve erano abbondanti, erano anche maturate bene. Mentre quest’anno, per motivi vari, in molte località le uve stentarono a maturare, e, per quanto la vendemmia siasi perciò prolungata oltremisura, si avranno molti vini a bassa gradazione alcoolica e poco serbevoli.

 

 

Chi azzardava, in principio di settembre, previsioni sui prezzi delle uve, e partiva dal dato del basso raccolto, presumeva che, poiché i prezzi l’anno scorso erano andati dalle 12 alle 20 lire al miriagrammo per le uve comuni della collina piemontese – mi riferisco a questa, che conosco meglio; ma, fatti gli opportuni ragguagli, la situazione delle altre regioni italiane non fu diversa – quest’anno la media avrebbe forse oscillato sulle 8-12 lire. Il raccolto invero in media non fu doppio di quello precedente; ché, se ci fu chi vendemmiò il triplo, altrove si superò di poco il raccolto dell’anno precedente. Non si teneva conto di una celebre legge economica, conosciuta sotto il nome di legge di King, e che comunemente si esprime così: se il raccolto – King parlava del frumento, ma possiamo applicare il suo discorso ad altre derrate – si riduce alla metà, ossia a cinque decimi, il prezzo non diventa doppio, ma si moltiplica per cinque. Invertendo, se il raccolto è doppio, il prezzo non si riduce alla metà, ma ad un quinto. Per il frumento la cosa si spiega pensando che trattasi di una derrata di prima necessità ed a consumo poco elastico, cosicché il troppo non riesce a trovare chi lo consumi e la deficienza mette in allarme la popolazione.

 

 

Per il vino, non ci sarebbe da temere la difficoltà di trovare clienti: lo stomaco si rifiuta di consumare più pane del necessario; ma l’ugola di molti uomini non ripugna dal consumare più vino del decente. Il consumo più abbondante dovrebbe impedire al vino di ribassare troppo di prezzo. I viticultori però, durante la vendemmia, non vendono vino, ma uve. E per queste gli sbalzi di prezzo possono essere formidabili, per una causa principale: che i viticultori non sempre posseggono i recipienti necessari a conservare il vino. Quando un contadino non sa dove mettere il vino, deve vendere ad ogni costo le uve. Anni fa, c’era una seconda ragione di dover vendere ad ogni costo; ed era il bisogno di far subito danaro. Questa ragione oggi pesa assai meno, perché i viticultori hanno riserve di risparmio degli anni passati, grazie alle quali possono affrontare il ritardo di qualche mese nella realizzazione del vino invece che delle uve. Ma contro l’impossibilità di tenere il vino non si lotta. Bisogna vendere le uve e venderle ad ogni costo. Questa e la qualità scadente di una parte delle uve vendemmiate quando non erano mature, sono le due cause del disastroso crollo dei prezzi. I quali, tenutisi nei primissimi giorni, quando sui mercati non arrivava ancora roba, sulle 8-10 lire, a poco a poco caddero a 7, a6, a 5 e poi a 3 e poi a 2 lire. Vi furono luoghi e mercati, in cui si fecero contratti persino a 1,50 al miriagramma. E trattasi di lire carta che si dovrebbero dividere per 5 o 6 per avere prezzi paragonabili a quelli dell’ante guerra. Quale sia per essere il prezzo medio delle uve è difficile dire, in tanta varietà di uve, di qualità, di località, di giorni; ma ci sarebbe grandemente da stupire se, con un raccolto quasi doppio, certamente molto superiore a quello dei due anni scorsi, il viticultore avesse incassato molto più della metà dei danari che aveva incassato gli anni passati. Se il raccolto crebbe da 1 a2, l’incasso totale (quintali di uva raccolta moltiplicati per il prezzo unitario), scemò forse da 1 a 0,50, e certo si tenne di parecchio inferiore a quello dell’anno scorso.

 

 

Il ribasso delle uve non significa che uguale ribasso si debba verificare nel vino. Poiché le cause del ribasso sono state due: mediocre qualità di una parte del raccolto e impossibilità di tenere le uve sovrabbondanti, ambe agiranno nel senso di far ribassare i prezzi del vino. Ma forse il vino rimarrà più sostenuto perché manca ormai l’urgenza di vendere. Il vino è stato collocato, se non dai viticultori, dai compratori delle uve. Il commerciante, la casa vinicola, l’oste che ha comperato, per fortuna sua, le uve a prezzi vili, per esempio di 3 lire al miriagrammo, non ha obbligo di vendere il vino a 45 lire per ettolitro, che sarebbe all’incirca il prezzo corrispondente, più s’intende, tassa, dazi e trasporto. Saranno venduti e subito i vini scadenti, quelli a bassa gradazione, quelli che, pur essendo fatti con uve acerbe, hanno oggi un certo aspetto gradevole, che si teme domani possa risolversi in punta acida o in sapor di muffa. Questi saranno i vini che si potranno avere subito a prezzi bassi; ma, passata questa furia e smaltita la zavorra, la massa dei vini buoni, serbevoli, avrà probabilmente prezzi inferiori a quelli dell’anno passato, ma non così vili come poterono far temere le basse quotazioni delle uve nei giorni di piena sui mercati.

 

 

Il danno tuttavia è irreparabile per i viticultori che hanno venduto le uve e per quelli che hanno in cantina vini leggeri e pericolanti. Naturalmente, essi invocano dallo stato provvidenze. E se io parlo delle disgrazie dei viticultori, è per accennare alle loro richieste. Le quali si riducono in sostanza ad una sola: la riduzione della tassa sul vino. C’è, in verità, anche qualche sommesso brontolamento contro il decreto sulla riduzione d’orario degli spacci di vino, capitato ad allarmare gli osti proprio prima della vendemmia e ad allontanarli dai mercati. Ma, poiché trattasi di un provvedimento moderato, il quale si inspira ad alte esigenze di tutela della pubblica salute, il brontolio è, come dissi, sommesso e rassegnato.

 

 

Contro la tassa sul vino invece gli animi dei viticultori sono inferociti. Essi riconoscono che si deve pagare una tassa; ma affermano che 20 lire sono troppe. Potevano essere giuste quando il vino si vendeva – parlo sempre dei mercati piemontesi – da 200 a 300 lire l’ettolitro; ma sono troppe quando si sentono fare prezzi da 50 a 70 od 80 lire l’ettolitro. Sono già, i viticultori, malcontenti di dover cominciare a pagare la nuova imposta sui redditi agrari proprio in un anno in cui, se si facessero conti culturali sulla base dei prezzi realmente incassati, il soldo sarebbe quasi dappertutto passivo, perché non si cruccino di dovere, in aggiunta, pagare ancora 20 lire per ettolitro. Perché in quest’anno, non solo sono essi a tirar fuori di tasca materialmente le 20 lire, come oramai è costume universale, checché dica la legge, ma non possono aumentare il prezzo del vino della somma corrispondente. Pagare 20 lire per un prodotto che si sta già vendendo a 70 lire, tassa pagata, pare ai contadini durissima cosa.

 

 

Taluno, per non chiedere senz’altro il ribasso della tassa, ha domandato che si gradui la tassa in ragione della gradazione alcoolica. Ma a ragione il ministro delle finanze ha risposto che la cosa non era fattibile, perché l’accertamento dei gradi alcoolici richiederebbe un personale numeroso e competente, rivoluzionerebbe l’ordinamento ora vigente, crescerebbe troppo i costi, darebbe forse luogo a frodi e quindi a controlli per evitarle. Si può aggiungere che non sempre un’alta gradazione alcoolica vuol dire maggior pregio del vino. Ci sono vini fortissimi da taglio meridionali i quali valgono meno di certi vini più leggeri della Toscana o del Piemonte. Perché tassarli di più se valgono meno?

 

 

Scartato questo espediente, ne ho sentito propugnare un altro: che è l’esenzione completa dei vini leggeri, a troppo bassa gradazione alcoolica; qualcosa di simile quanto si pratica già per i vini secondi, cosidetti d’acqua, per uso familiare, a gradazione non superiore non ricordo se ai 3 od ai 5 gradi. Bisognerebbe, si dice, esentare quest’anno i vini fino a 7 od 8 gradi, i quali, se si dovesse pagare la tassa totale, quasi non lascerebbero più un residuo netto al detentore. Nei miei paesi ci fu chi regalò, a chi le voleva, le uve di scarto, affermando che non valeva la pena di vinificarle perché il valore sarebbe stato tutto assorbito dall’imposta. La cosa merita di essere studiata. Negli anni di accertata abbondanza di raccolto e di forte proporzione di uve mediocri, immature, c’è una zona di vini che, se non sono d’acqua, praticamente vi si possono assimilare. Quando il vino sta sotto ai 7 gradi, è acqua colorata. Normalmente, credo si debba far pagare la tassa intiera anche ad essi per non incoraggiarne la fabbricazione artificiale e per non dare un premio ai terreni di pianura produttori di uve scadenti. Ma negli anni in cui si è sicuri che l’abbondanza dei vini piccoli è un vero dono della natura ed in cui lo svilimento dei prezzi è ottima garanzia contro la fabbricazione artificiale dei vini, non si corre alcun rischio a fare opera di giustizia tributaria esentando coloro i quali non possono pagare. La esenzione dei vini piccoli non dovrebbe produrre complicazioni maggiori di quelle già ora necessarie, posto che ora già si esentano le acque colorate di vino fino ad una certa graduazione.

 

 

Più semplice ancora sarebbe variare, per tutti, la tassa in relazione al prezzo medio generale delle uve realizzato in ogni vendemmia. Poiché il prezzo è indice dell’abbondanza del raccolto, la finanza sarebbe sicura di incassare la somma voluta, sia che la tassa unitaria sia fissata a 10, od a 20 od a 30 lire. Crescendo o diminuendo gli ettolitri tassati, il risultato sarebbe identico. Il detentore di vino, quando, per la vendemmia scarsa, spera di rifarsi della tassa sul prezzo del vino, è disposto a pagare di più che non quando, per la abbondanza delle uve, teme di doversi accollare lui la tassa. Anche con questo metodo ci si può sbagliare, perché non sempre i prezzi del vino sono quelli che si dovrebbero presumere in base ai prezzi delle uve. Ma la approssimazione alla tollerabilità ed equità tributaria sarebbe maggiore che non col sistema delle 20 lire immutabili qualunque sia il prezzo realizzato dal produttore.

 

 

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