Controllo dell’attività sindacale e svalutazione della rappresentanza politica
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 27/06/1925
Controllo dell’attività sindacale e svalutazione della rappresentanza politica
«Corriere della Sera», 27 giugno 1925
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VIII, Einaudi, Torino, 1965, pp. 342-344
Mentre si attende la pubblicazione del testo delle conclusioni della commissione dei 18, la stampa fascista pubblica, insieme con altre notizie sull’ordinamento corporativo dello stato, un’intervista col sen. Gentile. Dalle une e dall’altra appaiono sempre più chiare le conseguenze dirette della proposta riforma costituzionale: il controllo statale sull’attività economico sindacale; la svalutazione della rappresentanza politica.
Il controllo dell’attività sindacale è implicito nella costituzione delle corporazioni in enti autarchici soggetti alla vigilanza del governo. Tutti i datori di lavoro, tutti i tecnici, tutti i lavoratori dovranno essere iscritti alle corporazioni, le quali soltanto saranno riconosciute dallo stato, anzi saranno organi dello stato. Non solo i sindacati di lavoratori, ma anche le associazioni di industriali e di proprietari di terre saranno fuori del campo del diritto in quanto non si siano trasformate in corporazioni o in organismi elementari facenti parte di esse. Non sarà consentita l’esistenza delle grandi associazioni nazionali di lavoratori o di industriali della stessa categoria, o delle confederazioni nazionali del lavoro, dell’industria e dell’agricoltura, perché esse «potrebbero creare impacci all’autorità dello stato». Praticamente, adunque, la libertà di organizzazione sindacale nel campo dei lavoratori e in quello dei datori di lavoro sarebbe soppressa, venendo tutti i produttori d’ufficio iscritti nelle corporazioni statali.
Il sen. Gentile afferma che queste innovazioni sono utili e necessarie in quanto sopprimono «l’individualismo atomistico ed egoistico e l’associazione frammentaria e partigiana». Ma egli dimentica che l’individualismo è stato uno dei fattori preminenti dello sviluppo della moderna società industriale ed è uno dei capisaldi dell’ordinamento capitalistico. Finché durarono le corporazioni di mestiere, la vita economica non ebbe largo respiro. Quando invece, nel secolo XVIII, le dottrine liberali conquistarono il sopravvento anche nel campo economico, e lo spirito individualistico d’intrapresa non fu più inceppato della vecchia legislazione monopolistica, l’economia mondiale trasformò in pochi decenni l’aspetto del mondo pressoché immobile da tanti secoli. Né si dica che le proposte della commissione dei 18 concernono soltanto la limitazione della libertà di organizzazione e non offendono la libertà più propriamente economica: se così fosse non vi sarebbe alcun bisogno di creare i consigli corporativi, e tanto meno di dar loro il carattere di organi statali per il controllo della produzione.
La stessa libertà e molteplicità dei sindacati è, del resto, un elemento indispensabile della moderna economia. Lo riconosce anche la relazione di minoranza, la quale, mentre ammette, d’accordo con la dottrina liberale, l’opportunità del riconoscimento giuridico dei sindacati (che può assicurarne le responsabilità legali ed economiche), afferma l’utilità delle libere organizzazioni, mercé le quali soltanto è assicurato, sia nel campo industriale, sia nel campo operaio, il gioco vitale della libera concorrenza.
Ma che cosa è poi, se non una limitazione della libertà economica, l’assegnazione ai consigli corporativi della «tutela dell’interesse generale nei conflitti del lavoro» e sovratutto del «coordinamento delle aziende nel senso della riduzione dei costi»? Questo non equivarrebbe a quella economia statale che tanti danni produsse subito dopo la guerra?
Quanto alla svalutazione della rappresentanza politica, si conviene ora che, nel pensiero del relatore e di alcuni commissari, «tutta la camera dovrebbe essere composta sulla base del collegio corporativo», mentre «solo per ragioni d’opportunità e di graduale attuazione si è proposto di limitare per il momento alla metà dei deputati la così detta rappresentanza degli interessi».
Ma questa camera nella quale i rappresentanti corporativi in un primo tempo prevarrebbero sui rappresentanti politici e poi siederebbero soli legislatori, quale investitura, quale autorità, quale competenza avrebbe per giudicare sui problemi schiettamente politici e giuridici, e sovratutto sui problemi altamente nazionali che investono, non tanto gli interessi dei produttori, quanto la coscienza del cittadino, il sentimento dell’italiano?
Qui davvero la critica della relazione di minoranza appare fondata, e si comprende la preoccupazione di un nazionalista come Francesco Coppola nel vedere ridotto lo stato materialisticamente ad «un sistema di interessi meramente economici». Né può esservi alcun dubbio sulla meditata deformazione della camera dei deputati quando la relazione di maggioranza assegna ad essa precisamente «la giurisdizione nazionale in materia economico sindacale, sottratta alle grandi organizzazioni nazionali soppresse».