Il meccanismo che i decreti hanno distrutto
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 21/04/1925
Il meccanismo che i decreti hanno distrutto
«Corriere della Sera», 21 aprile 1925
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VIII, Einaudi, Torino, 1965, pp. 234-238
È qualche tempo che la situazione nelle borse italiane è inquietante. Se la liquidazione di aprile si farà, le insolvenze non saranno poche; né si può pensare a prorogare la liquidazione di aprile a fine maggio, perché ciò non farebbe che prolungare lo stato di ansia e di sfiducia, con aggravamento della crisi.
La crisi deriva da ciò che colui il quale ha comprato un titolo a 1.000 lire e oggi lo vede caduto a 600 lire deve: pagare le 1.000 lire e ritirare il titolo, ovvero rivendere il titolo a 600 e pagare di tasca sua la differenza, ovvero ancora trovare chi gli dia a mutuo 600 lire, pagando egli la differenza, e tenere il titolo nella speranza di poterlo rivendere a corsi migliori (riporto). Tutte queste soluzioni sono oggi rese difficili, perché il danaro si è impaurito e rifiuta sia di acquistare titoli, anche a prezzi ridotti (nell’esempio ora fatto a 600 lire contro le 1.000 di un mese fa), sia di dare a mutuo danaro contro pegno di titoli. Si ha oggi la sensazione che persone fornite di buon credito, disposte a dare in pegno titoli solidi, valutati ai bassi prezzi attuali, decurtati ancora del 25% e disposti a pagare l’8% alle banche, incontrino quivi un netto rifiuto. In queste condizioni come può incoraggiarsi la fiducia?
Si può chiedere: come mai il compratore del titolo ha acquistato a 1.000 quando sapeva di non avere il danaro per ritirarlo alla scadenza? Fu imprudente ed è giusto paghi il fio della sua imprudenza.
A ragionar così, si ragiona frettolosamente. Bisogna sempre ricordare che la borsa adempie ad un ufficio economico di necessità assoluta e che ho già ripetutamente indicato colle parole: incanalare il risparmio verso le industrie. Importa ora spiegare con parole le più semplici possibili, senza le complicazioni tecniche del linguaggio borsistico, in che modo avvenga questo incanalamento.
Supponiamo che in un determinato lasso di tempo, per esempio un anno, le industrie italiane gerite da società per azioni abbiano bisogno di un capitale nuovo o fresco di cinque miliardi di lire, per nuovi impianti, allargamenti, ecc. Se le società si rivolgessero direttamente ai risparmiatori e cioè al professionista, all’impiegato, al proprietario offrendo le azioni e chiedendo il danaro, non troverebbero i cinque miliardi. Non che in Italia non si formino cinque miliardi all’anno di risparmio nuovo. Se ne formano assai di più, forse quattordici. Ma non ci sono ogni anno cinque miliardi di nuovo risparmio così coraggioso da investirsi direttamente in azioni nuove.
Il risparmiatore preferisce comprar case, terre, titoli di stato, cartelle fondiarie o depositarsi presso casse o banche. Solo una minoranza piccola compra azioni nuove. Chi risolve il problema? La borsa. Nella quale si opera una divisione di lavoro fra due categorie di persone: gli speculatori da una parte ed i capitalisti dall’altra. Gli speculatori sono persone più ardite, che fiutano l’avvenire delle azioni nuove, che scelgono quelle promettenti e sono disposte ad acquistarle a 1.000 lire, perché sanno o sperano che finiscano di valere di più. Ma gli speculatori non hanno le 1.000 lire; ne posseggono soltanto 100 o 200. Intervengono allora i capitalisti (banche e casse di risparmio rappresentanti dei risparmiatori, e capitalisti diretti un po’ più coraggiosi dei risparmiatori soliti e chiamati riportatori), i quali sono disposti ad anticipare 800 o 900 lire contro pegno del titolo (contratto di anticipazione o riporto) e contro la responsabilità dello speculatore e, quasi sempre, anche contro la responsabilità di un agente di cambio intermediario.
Ecco che, così, la società può collocare il titolo: lo vende allo speculatore, il quale, per pagare 1.000 lire, si serve delle sue 200 lire e delle 800 lire ottenute a prestito dal capitalista-riportatore. Per i suoi servigi oggi il capitalista riceve l’8%; e fino a poco fa dal 6 al 7 per cento. Senza l’unione delle due classi: degli speculatori e dei capitalisti, la borsa non funzionerebbe e nessuna azione potrebbe collocarsi. Il collocamento o classamento è, certo, provvisorio. Dura finché il titolo, essendo conosciuto ed apprezzato attraverso le quotazioni di borsa, sovratutto attraverso quotazioni crescenti, viene acquistato definitivamente da un’altra categoria di capitalisti, quelli che acquistano i titoli per tenerli. Costoro arrivano, perché diffidenti, sempre in ritardo, quando il titolo è cresciuto di prezzo, è divenuto vecchio e gode oramai fama sicura. Venduto il titolo al portafoglio privato, lo speculatore prende altri titoli nuovi a balia e ripete l’operazione.
Senza questo stadio preliminare, ripeto, i titoli non si collocano nel pubblico. Ma perché questo compito di allevamento possa esser condotto a buon fine, uopo è che esista uno stato di tranquillità, di fiducia. Finché è diffusa la persuasione che, salvo avvenimenti impreveduti, i titoli possono da un mese all’altro variare solo del 5, del 10, del 20%, si trovano, per un titolo che vale 1.000 lire, speculatori disposti ad arrischiare 200 lire e capitalisti disposti a mutuare, su pegno del titolo, 800 lire. Il primo, contro l’alea di guadagnare altrettanto o più, rischia di perdere 50, 100 forse anche le 200 lire; il secondo è quasi sicuro che le sue 800 lire non le perderà ed il piccolo rischio è compensato dall’alto interesse percepito. Ma se nelle due categorie si infiltra il timore dell’impreveduto, lo speculatore si arretra spaventato, perché teme di fallire, se il titolo, ribassando da 1.000 a 600, gli mangia tutte le sue 200 lire e lo lascia scoperto per altre 200 lire; ed il capitalista riportatore scappa anche lui, perché teme di trovarsi con un pegno di valore inferiore (600 lire) al suo credito (800 lire).
Scomparse le due classi di allevatori del mercato, questo è distrutto: un anello, assolutamente necessario, del meccanismo economico è rotto e il risparmio non fluisce più alle industrie. Oggi gridano contro i decreti De Stefani solo gli speculatori e i capitalisti di borsa; domani, se la fiducia non rinasce, grideranno gli industriali, incapaci a fare impianti nuovi, perché non saranno riusciti a collocare titoli; e dopo grideranno gli operai disoccupati.
È facile prevedere quale sarà il seguito dei tumultuari decreti, con cui si volle d’un colpo raggiungere uno scopo sinora ufficialmente ignoto e in ogni caso, con tali mezzi, irraggiungibile. Bisognerà fare una inalazione artificiale di fiducia; ossia sostituire, provvisoriamente, per un mese o due, alla classe in rotta dei capitalisti riportatori un organo nuovo incaricato di fornire i fondi necessari per l’allevamento dei titoli. Si sa quale è l’organo: la banca di emissione, la quale, ad evitare disastri, interverrà, direttamente o indirettamente, a anticipare essa biglietti su pegno di titoli. Così sono fatalmente destinati a finire tutti i tentativi improvvisati di rialzar d’un colpo la lira, di ridurre la circolazione a colpi di centinaia di milioni o di miliardi. Si semina la sfiducia e per ricrearla bisogna fare, almeno provvisoriamente, una politica inflazionista. Deprecabile politica, di cui però la responsabilità sarà esclusivamente di coloro che immaginarono di poter fare in grande, senza contraccolpi e senza reazioni, la politica contraria.
Giova sperare che l’episodio clamoroso persuaderà in avvenire i finanzieri responsabili che la macchina economica e finanziaria del paese è cosa da trattarsi con grande riguardo, con delicatezza estrema, con passaggi graduali e concordati. Il pericolo delle improvvisazioni non è cessato; e, se si guarda a fondo, l’orgasmo delle borse non è tanto dovuto ai decreti passati – oramai in pratica ridotti all’obbligo della cauzione che il primo terzo degli agenti ebbe, incredibilmente, invito di versare entro lunedì 20, come se, in questi giorni di paura, i milioni spuntassero come funghi! – quanto alla paura di nuovi decreti, all’incognita dell’avvenire. Le notizie più strampalate corrono sulla politica monetaria e finanziaria; giornaletti di quart’ordine annunciano propositi di nuove imposte, di decreti disciplinatori – come se la «disciplina» equivalesse a fracasso e terremoto – di questo o quel mercato: dopo aver disciplinato le borse, si vorrebbero disciplinare i mercati delle terre, delle case, delle merci, ecc. ecc. Orbene, l’esperienza dimostra che esiste un solo mezzo per ricondurre la calma e per riaprire la via alla fiducia: la dichiarazione solenne che dai due ministeri delle finanze e dell’economia nazionale – e, s’intende anche dagli altri; ma qui si parla di questi – non uscirà più nessun decreto, di nessuna specie; e che se i ministri si persuaderanno che un qualsiasi provvedimento è utile nell’interesse del paese, sarà imitato l’esempio del passato ministro della guerra, il quale sottopose i progetti militari all’esame del parlamento.
Quando il paese sarà sicuro di non poter essere sconvolto da decreti-legge, la fiducia a poco a poco tornerà; e la vita economica rientrerà in carreggiata. La caratteristica più straordinaria invero della presente crisi di borsa, caratteristica che la distingue dalle crisi note nella storia, è questa: i titoli ribassano, il meccanismo si incanta mentre le industrie vanno bene e l’attività ferve nel paese. Ribassano perché improvvisamente un decreto ha imposto alcune norme di impossibile attuazione per seguire una politica monetaria, che non si sa quale sia. Se si sarà finalmente sicuri che il governo non delibererà alcuna politica monetaria o finanziaria e non sceglierà alcun mezzo per attuare quella politica, senza una previa pubblica discussione in parlamento, il paese respirerà. Non prima. Solo la pubblica discussione sceglie tra i diversi piani, progetti, sistemi il migliore; solo essa riesce ad eliminare gli errori irreparabili; solo essa dà modo agli interessati di adattarsi, col tempo, alle novità. Anche le novità buone producono disastri, se arrivano tra capo e collo all’improvviso. Riescono benefiche, se antivedute, ed accettate prima col pensiero che coll’azione.