I dazi creano ricchezza?
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 25/07/1923
I dazi creano ricchezza?
«Corriere della Sera», 25 luglio 1923
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 308-310
Ha ragione l’amico prof. Cabiati, il quale, occupandosi di una lunga lettera dell’on. Benni pubblicata in molte colonne su un gran numero di giornali, invoca dagli industriali perdono per il fastidio che gli economisti provano quando sentono i loro ragionamenti.
Prendiamo il cavallo di battaglia dei nostri contraddittori:
«Dovete voi, economisti, dimostrare che, senza la protezione, l’industria si sarebbe sviluppata in Italia dopo il 1878 così come si sviluppò e con quegli stessi benefici effetti per l’economia nazionale che in virtù di essa si ottennero».
Nessun protezionista, il quale conoscesse il suo mestiere, avrebbe posto il problema in simile stravagante maniera. Poiché è indubitato che un dazio doganale, ossia la proibizione o, per lo meno, il forte impedimento ad importare in paese una certa merce estera, non può produrre se non gli effetti che sono suoi proprii, e cioè:
- tendere a rincarare di altrettanto il prodotto nazionale. Se, senza dazio, una merce estera potrebbe essere introdotta in paese al prezzo di 100, anche la merce nazionale dovrebbe essere venduta a 100. Se alla merce estera si fa pagare una dogana di 100 lire, essa non può, in generale, vendersi a meno di 200 lire; e quindi il fabbricante nazionale, il quale prima doveva vendere a 100, ora può spingere il prezzo a 200;
- quindi, se prima non conveniva produrre all’interno la merce per venderla al prezzo di 100, perché il costo era maggiore di 1.000 il margine di guadagno non era e non pareva sufficiente, oggi, che il prezzo può essere portato fino a 200, quella produzione è possibile;
- quindi, ancora, è indubitato che il dazio doganale crea industrie nuove, fa sorgere opifici, fa coltivare campi. Tutto ciò è pacifico, e si legge in tutti i manuali;
- dove si legge altresì che tutto ciò si ottiene, però, ad un costo. Comprare o produrre a 200 ciò che si potrebbe avere a 100 non è un guadagno, è un costo, è una fatica. Anche su tal punto non vi può essere dubbio. E badisi bene che non si tratta, come immaginano, nelle loro ritorsioni, i protezionisti nostri contraddittori, di un costo sopportato da quell’entità, abbastanza giustamente qualificata di astratta, che ha nome di consumatore; bensì di costo sopportato dai produttori protetti. È o non è un costo produrre a 200 una data merce che altri produce a 100?
- e si legge altresì che può valer la pena, in certi casi, di sopportare quel costo. Ove si tratti di difendersi contro il nemico, può essere necessario pagar 200 quel che si potrebbe avere, dal possibile nemico, a 100. Ove sia dimostrato che, sopportando oggi un maggior costo di 100, si otterrà domani il vantaggio di un minor costo di 20, ed ove si presuma fondatamente che il maggior costo di 100 durerà solo per 10 anni, mentre il beneficio futuro di 20 sarà perpetuo, si può conchiudere alla convenienza del vantaggio della protezione (temporanea, per definizione, e non crescente, dal 1878 al 1887, e al 1921, come vogliono quei magnifici ragionatori che si chiamano Benni, Olivetti, Mazzini e via dicendo). Ecc. ecc.; i casi seguitano nei manuali.
Ma il dazio non può produrre effetti che non sono suoi proprii. Il dazio è quella certa cosa che impedisce ad una merce estera di entrare nello stato e cagiona in seguito gli effetti connessi con quell’impedimento. Ma il dazio non è quella certa cosa, in virtù di cui vengono uomini al mondo o gli uomini fanno dei risparmi. Per quanto si tiri, non ci si arriva. Il principe dei protezionisti, Federico List – a leggere i cui libri e discorsi si prova godimento insuperato – forse ci sarebbe arrivato, ma alla terza o quarta generazione. Si può cioè astrattamente ammettere – vedano i protezionisti quanto sono generosi gli economisti a suggerire loro i ragionamenti buoni da mettere al posto di quelli sbagliati che essi solitamente adoperano – che quando il dazio temporaneo è riuscito a creare una industria nuova e questa si è rafforzata talmente che il dazio è già stato abolito e l’industria, divenuta adulta, vende a prezzi di concorrenza con l’estero, tal fatto abbia migliorato talmente le condizioni dell’economia paesana, che, non soffrendosi più costi, ma godendosi solo i benefici, i risparmiatori possono risparmiar di più e fors’anche, sebbene ciò sia per altri motivi dubitabile, vengono al mondo più bambini. Ma tal caso è oggi, in Italia, dove si discorre da parte protezionista ancora e solo di aumento di dazi, e non di loro abolizione, puramente astratto e non conta.
Oggi, in Italia, possiamo tener per fermo che il dazio non è quella certa cosa per cui vengono al mondo più uomini o si producono più risparmi. Il dazio avrà tutte le virtù, non certamente queste. Quindi il dazio non crea capitali e lavori nuovi. Non creandoli, il dazio non può far altro se non spostare capitali e lavoro dall’industria (agricola o manifatturiera) A all’industria B. I lavoratori ed i risparmi, esistenti in paese, non variando per effetto dei dazi, se dai dazi sono invitati a impiegarsi nelle industrie tessili, metallurgiche o chimiche, non possono, per la impossibilità fisica dell’ubiquità, impiegarsi contemporaneamente nelle sete, nelle industrie delle conserve alimentari, in quelle della frutticultura o del pollame o nella produzione di quella qualunque altra merce o derrata che sarebbe piaciuto scegliere ai produttori. Questo è dunque sicurissimo, senza possibilità di dubbio, che il dazio non crea un centesimo di ricchezza nuova; sposta l’indirizzo della produzione. Al posto di una scelta fatta dai produttori liberamente, secondo le loro spontanee preferenze, mette una scelta fatta dietro il consiglio del legislatore, consiglio dato col mezzo dei dazi. Ecco tutto.
A che dunque chiedere agli economisti di dimostrare che senza i dazi non ci sarebbe questo o non ci sarebbe quest’altro? Dimostrino i protezionisti se ci riescono – ed in tal caso prometto loro, a nome degli economisti di tutto il mondo, un posto d’onore, al disopra di Adamo Smith o di Ricardo, nella storia della scienza – che i dazi creano e non spostano lavoro e capitale.