L’abolizione dell’imposta successoria
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 13/07/1923
L’abolizione dell’imposta successoria
«Corriere della Sera», 13 luglio 1923
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 299-302
Dei tre importanti provvedimenti finanziari deliberati nell’ultimo consiglio dei ministri, quello sull’imposta patrimoniale richiede un esame attento delle precise disposizioni decretate, onde poter consigliare ai contribuenti quel riscatto che il decreto si propone e che è senza dubbio urgente per sbarazzare il terreno tributario di un tributo divenuto oramai anacronistico; il secondo, sull’imposta sul vino, è senz’altro da approvarsi perché rende più sicura per l’erario e meno molesta per i contribuenti l’esazione del tributo.
Il terzo decreto ha, suppongo, destato la più grande sorpresa nel pubblico. Tutti erano d’accordo nel pensare che l’imposta di successione, così come era congegnata, era una cosa mostruosa, annientatrice delle famiglie, distruggitrice del risparmio, un vero flagello di Dio, scatenato dalla demagogia imperversante per distruggere la privata proprietà senza neppure sostituirvi la proprietà collettiva. Nessuno però si sarebbe immaginato che il ministro delle finanze avrebbe avuto il coraggio di abolirla. È vero che l’abolizione non è totale, ma riguarda soltanto il gruppo familiare; il che parrebbe volersi riferire alle successioni in linea retta (genitori e figli, avi e nepoti) ed a quelle tra coniugi. Ma anche la legge del 14 luglio 1866, la più larga in materia di esenzioni dopo l’unificazione, esentava soltanto la quota «legittima» delle eredità fra ascendenti e discendenti e colpiva con l’aliquota nominale dello 0,20% la quota disponibile. De Stefani ha voluto far piazza pulita; sicché dell’aborrito tributo, cagione di tante lagrime e di tanti dolori negli anni recenti, più non rimanesse alcuna traccia. Bisogna risalire, in Italia, al 1819, credo, per trovare un precedente di totale abolizione, ad opera dei Borboni di Napoli, desiderosi di non portare il fardello dell’odio che per tale causa erasi cumulato contro la dominazione francese.
Per giungere alla conclusione dello spazzamento totale, De Stefani è partito da un dato di fatto incontrovertibile: l’imposta di successione soffre di un vizio insanabile. I dati che l’amministrazione finanziaria pubblica dimostrano che l’imposta colpisce soltanto una parte delle ricchezze trasmesse per successione. Agli immobili ed ai valori nominativi, i quali sono colpiti in pieno, si aggiungono, ora, in virtù di avvedimenti escogitati dalla guerra in poi, le aziende commerciali ed industriali, le scorte agricole, e poco altro. Il danaro, le gioie e simili sono tassati in base a presunzioni legali, il che vuol dire che non sono tassati affatto, venendo invece tassati di un tanto per cento in più gli immobili ed i mobili visibili. I titoli al portatore non sono tassati affatto. Non accade mai che titoli al portatore figurino nelle dichiarazioni eccetto quando essi sono materia litigiosa o fra gli eredi vi sono enti morali o pupilli, rispetto a cui i tutori non ritengono di potersi assumere responsabilità.
Il vizio non esiste laddove esiste la consuetudine dei titoli nominativi; ma in Italia la consuetudine ha una presa limitata; e neppure l’imposta del 15% ha impedito astuzie rivolte ad esimere le grosse fortune dalle investigazioni fiscali.
Il vizio non è rimediabile con i mezzi i quali possono essere usati, entro certi limiti, per la patrimoniale e per l’imposta sul reddito. Per queste, la finanza può fare appello al tenor di vita, alle spese del contribuente. Come può avere un reddito di 20.000 lire colui che ogni anno ne spende 100.000? Rispetto alla successione, il sistema degli indizi, come su queste colonne a suo tempo dimostrai, sarebbe spaventevole. Il tenor di vita del morto come può costituire presunzione a danno degli eredi? Quanto più il morto sperperava, tanto più forse gli eredi dovrebbero pagare? La certezza che il morto possedeva titoli al portatore non basta perché si possano tassare gli eredi visibili a tal titolo. Prima di morire, i titoli possono essere stati consegnati manualmente a terzi incogniti.
L’imposta successoria, essendo necessariamente claudicante, diventa un oltraggio al concetto della progressività. Invece di far pagar molto a chi più ha e poco a chi meno ha, essa fa pagar molto a chi ha molta roba in vista e poco o nulla a chi ha tutto il suo in titoli invisibili. Epperciò, ha ragione il ministro nel dire che l’imposta agisce contro il mezzogiorno, povero di titoli e ricco solo di terre; ed immagino che, dopo aver chiamato la terra, con l’imposta sui redditi agrari, a dare qualche centinaio di milioni all’erario e dopo avere ordinato la revisione dell’imposta fabbricati, abbia voluto, con un colpo di sterzo, ristabilire l’equilibrio che appariva rotto a danno della ricchezza immobiliare.
Tutto sommato, non ha gran peso l’obbiezione che le critiche sopra fatte all’imposta valgono non solo entro il gruppo familiare, ma anche per le eredità fra parenti ed estranei. L’imposta è sperequata e claudicante anche per costoro. Il ministro può rispondere che una tassazione singolare della ricchezza immobiliare è odiosa quando distrugge la famiglia, ma può rientrare nel quadro generale dei contrappesi, di cui vive qualunque sistema tributario, quando non produce danno alla compagine familiare.
Piuttosto devono essere stati accuratamente ponderati due punti, transitorio il primo, permanente il secondo.
Quando una imposta è abolita, e l’imposta non era periodica, pagabile a giorni od a bimestri, ma saltuaria, il caso decide chi debba pagare e chi deve rimanere esente. Gli eredi di chi è morto sino a ieri pagano tariffe micidiali; gli eredi di chi è morto oggi non pagano nulla. Fortuna di guerra, si può osservare, dovendosi pure fissare una data qualsiasi. Ed è vero; ma un qualche temperamento transitorio sarebbe utile, anche per dare il buon esempio a quel futuro ministro, il quale, in un’epoca più o meno lontana, premendo la necessità di eventuali spese straordinarie, si credesse costretto a ristabilire l’imposta ora abolita. Anche allora gioverà un periodo transitorio di aliquote dimezzate o comunque ridotte, innanzi che l’ordegno fiscale lavori in pieno.
Il secondo punto, permanente, tocca la logica del sistema tributario. L’imposta successoria era invero quella in cui l’insanabilità del vizio della immunità pratica dei titoli al portatore era più evidente. Ma anche la complementare sul reddito soffre dell’identico vizio, a cui si aggiunge quello della immunità dei redditi, qui tassabili, provenienti dall’estero e della deficiente accertabilità dei redditi di lavoro. Appena, appena, il vizio è attenuato dalla facoltà di usare dei metodi indiziari tratti dal tenor di vita.
Le vecchie imposte reali non soffrono di questi vizi, perché la ricchezza mobile tassa, fino all’ultimo e con precisione assoluta, tutti i titoli al portatore, accertando i redditi presso l’ente che ha emesso i titoli. Le imposte personali progressive sul reddito, dovendo tassare colui che gode il reddito, sono fatalmente claudicanti a danno della ricchezza visibile. Perciò, la logica dell’odierno atto audace del ministro delle finanze porta dritti dritti a due conclusioni:
1) dar opera, come già si è cominciato, al riordinamento delle imposte reali sui terreni, fabbricati e ricchezza mobile, le quali non lasciano sfuggir nulla e possono compensare le quattro o cinque volte le perdite inflitte al bilancio dall’attuale rinuncia, che forse toccherà i 200 milioni di lire;
2) trasformare la claudicante futura complementare sul reddito in una imposta, pure progressiva, sulla spesa totale, del tipo di quella che dovrebbe essere la imposta di famiglia, congegnata all’incirca secondo le regole del progetto Soleri di riforma dei tributi locali.
Io sono convinto che in tanto una imposta sul reddito è giusta, in quanto esenta il risparmio; il che vuol dire in quanto è una imposta sul reddito speso. Se si vuole superare l’obbiezione dell’immunità ai titoli al portatore altra via non esiste: invece di guardare al momento in cui il reddito entra nell’economia del contribuente, bisogna badare a quello in cui ne esce. Non il reddito guadagnato bisogna tassare, bensì il reddito goduto. Forse è giunto il momento di far passare il principio dal campo della dottrina, dove da più di tre lustri invano lo propugno, a quello della pratica applicazione.