Il problema urgente dei cantieri navali
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 09/01/1923
Il problema urgente dei cantieri navali
«Corriere della Sera», 9 gennaio 1923
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 24-30
La questione dei cantieri navali ha fatto un notevole passo con la votazione avvenuta nel congresso genovese degli ingegneri navali a favore della introduzione in franchigia dei materiali occorrenti per la costruzione, l’allestimento e le riparazioni delle navi. Pare, dalle notizie dei giornali, che il governo non sia alieno dall’accogliere il concetto della franchigia; non si sa però ancora se per tutto il materiale e quindi anche per l’ammobiliamento, i macchinari e gli utensili necessari per l’allestimento, come chiese il congresso di Genova, o solo per i materiali metallici. Vale la pena perciò di esporre le ragioni per cui i tecnici dei cantieri si sono dimostrati favorevoli al sistema dell’assoluta e totale franchigia doganale. La nave italiana deve navigare in condizioni di libera concorrenza con le navi di tutti gli altri paesi del mondo, epperciò non può pagare il ferro, il legno, le macchine, tutto ciò infine che concorre a formarla, ad un prezzo che sia, anche di pochissimo, superiore a quello che è pagato dalla nave concorrente estera. Per ottenere ciò, vi sono due metodi: il primo dei quali consiste nel costringere i cantieri a comprare i materiali all’interno, ossia gravati dai dazi doganali, e poi rimborsare ad essi il dazio pagato. Il sistema è condannabile, perché è impossibile calcolare esattamente l’importo dei rimborsi e quasi sempre lascia un vantaggio ai cantieri, perché rende i cantieri schiavi dei siderurgici, crea una innaturale comunità di interessi fra due industrie differenti, ed allontana il momento in cui si potrà abbandonare il sistema della protezione universale. Perciò è preferibile considerare il cantiere come una prosecuzione del mare; e come il mare, su cui deve navigare la nave in concorrenza con le navi straniere, è libero, così sia libero il cantiere; ed i materiali, i macchinari e tutto quanto occorre alla vita del cantiere e della nave possano entrare ed uscire liberamente, senza pagamento di dazi e senza sorveglianza doganale, fuorché all’uscita, verso l’interno del territorio nazionale. Questa è la sola soluzione razionale del problema: l’industria dei cantieri non ha bisogno, per vivere, che dell’aria ossigenata della libertà.
Che i tecnici dei cantieri si siano dimostrati favorevoli alla tesi liberistica è argomento di tanta soddisfazione per noi altri, deprecati teorici, che saremmo tentati, in via di transazione, a consentire senz’altro alla seconda parte delle loro richieste, se non ci corresse l’obbligo di spiegare altresì in che cosa consista questa seconda parte e quali sono i dubbi nostri al riguardo.
La sola libertà non basta, dicono i cantieri. La franchigia risolve una parte, importantissima per fermo, del problema: non lo risolve tutto. Non basta che la nave possa essere costruita con materiali comprati dovunque si trovino, all’interno od all’estero, al più basso prezzo possibile. Restano, si afferma, vive tutte, salvo una, le cagioni di inferiorità dell’industria nazionale dei cantieri di fronte all’industria straniera. La franchigia mette i nostri produttori nelle stesse condizioni degli stranieri per quanto riguarda i materiali. Anche su tal punto si dovrebbero fare delle riserve; poiché, per quanto sia libero di comprare dovunque, il cantiere sarà pur sempre costretto a comprare una quarta od una quinta parte dei suoi materiali: mobili, stoffe, parti di macchine, piccoli arnesi e strumenti, da provveditori vicini e cioè nazionali e cioè gravati da dazio. Ma passiamo pur sopra a tali riserve; poiché esse in sostanza si riducono agli incomodi ed ai danni che il cantiere in genere ha nel fare acquisti lungi dal luogo dove si trova. Il cantiere, cioè, anche munito di franchigia doganale, deve pagare, in confronto al cantiere inglese, sovrapprezzi per il nolo del carbone, per i dazi e i noli sulle altre provviste da farsi all’estero, per la minore regolarità e costanza delle ordinazioni. È la motivazione solita che si sente addurre dalle industrie per giustificare la protezione chiesta contro le merci importate dall’estero. C’è una forte presunzione a priori, di buon senso, che la motivazione sia infondata. Se tutte le industrie ottengono dazi del 10% per compensare la propria inferiorità di fronte ai produttori esteri, tutte aumenteranno i proprii prezzi di vendita del 10%; e quindi ancora tutte dovranno comprare dalle altre le proprie materie prime rincarate del 10% e pagar salari più alti del 10%, poiché gli operai avranno dovuto pagare le cose utili più care del 10 per cento. Il che vuol dire che la protezione universale è un non senso; e val quanto l’alzarsi in piedi in un teatro o comizio. Tutti si trovano, salvo la fatica dello stare in punta di piedi, nella medesima situazione di prima. La protezione doganale, per essere efficace, deve essere parziale, limitata a poche industrie, che, per motivi economici o politici o militari, ben chiari e ben definiti, lo stato vuol favorire a spese della collettività e quindi delle altre industrie.
Conviene esaminare, nel caso specifico dei cantieri, che cosa stia sotto alla motivazione generica. È vero o non è vero che i cantieri nazionali si trovino in condizioni di inferiorità rispetto ai cantieri esteri? Un mio corrispondente, non professore, non teorico, il quale per ragioni pratiche conosce cantieri e navi, mi comunica le seguenti osservazioni:
«Da calcoli effettuati risulta che per la costruzione dello scafo di un piroscafo da carico di medie dimensioni occorrono 2.500 tonnellate di materiali metallici. Il trasporto di questo materiale dall’Inghilterra in Italia può essere calcolato, nel momento attuale, al prezzo di lire 100 per tonnellata; si ha quindi da parte del cantiere italiano una maggior spesa, in confronto del cantiere inglese, di lire 250.000, che possono essere aumentate fino a lire 350.000 aggiungendovi le spese per il trasporto del carbone e degli altri materiali occorrenti di importazione estera.
All’infuori di questa spesa di trasporto il cantiere italiano non ha teoricamente altri oneri, in confronto del cantiere inglese. Ha invece una forte economia sulla spesa di mano d’opera. La giornata media dell’operaio carpentiere inglese varia oggi da 37,5 a 52,5 scellini per settimana. Allorché saranno state apportate alcune riduzioni, attualmente in corso, la giornata media oscillerà da 37,5 a 42,5 scellini. Ridotte tali mercedi in lire italiane, sulla base di 300 giorni lavorativi all’anno, al cambio attuale, si hanno rispettivamente lire 39 e lire 35 al giorno. Poiché la giornata media dell’operaio italiano è compresa fra 20 e 25 lire al giorno, assumendola di 25 lire, si ha un risparmio, nell’ipotesi più sfavorevole, di quasi 10 lire per giornata. Calcolando in 70.000 le giornate occorrenti per la costruzione del piroscafo da carico (scafo e apparato motore) sopra citato (valutazione certamente inferiore alla realtà), il risparmio del cantiere italiano in confronto al cantiere inglese è di circa 700.000 lire, cifra che compensa largamente la maggiore spesa derivante dal trasporto del ferro e del carbone.
Tuttavia si afferma dagli interessati che in Inghilterra il costo delle navi è minore che in Italia. Non vogliamo negare esplicitamente questa asserzione, ma è utile indagare i motivi che vengono addotti. Si afferma anzitutto che l’operaio inglese sia più redditizio dell’operaio italiano; di guisa che il numero di giornate occorrenti per costruire un piroscafo è minore in Inghilterra che in Italia. Si afferma inoltre che i cantieri inglesi hanno un andamento di lavoro più regolare e uniforme, per il gran numero di ordinazioni che essi ricevono da una vasta clientela che abbraccia tutto il mondo e che consente loro una diminuzione nella quota spese generali. Ora a noi sembra che tali vantaggi non siano di natura tale da non poter essere superati dai cantieri italiani. Secondo noi il problema si riduce a quello dell’organizzazione, giacché riteniamo che, non esistendo una inferiorità congenita dell’operaio italiano rispetto a quello inglese, il minor rendimento dell’operaio italiano debba attribuirsi anch’esso alla deficienza generale di organizzazione e alla mancanza di disciplina dei nostri cantieri. È certo che i cantieri inglesi, sebbene siano numerosissimi (circa 120) possiedono una clientela mondiale e hanno una tradizione di lavoro stabilita saldamente che procura loro ordinazioni a preferenza di altri cantieri. Tuttavia attraversano anch’essi i loro periodi di crisi, come l’attuale, in cui le ordinazioni mancano o sono scarsissime e in questi momenti non si può ammettere che le spese generali non siano maggiori anche per essi. Eppure alcuni di tali cantieri in Inghilterra oggi costruiscono piroscafi da carico a non più di 10 o 11 sterline la tonnellata (circa 1.000 lire), giacché su questa base sono stati fatti i nuovi contratti. Nulla vieta che anche in Italia l’organizzazione possa dare gli stessi risultati che in Inghilterra, ove si consideri la notevole economia nella spesa di mano d’opera, destinata a permanere ancora per lungo tempo e, in ogni caso, compensata, col diminuire del cambio, dalle rilevanti economie che si realizzeranno sui prezzi di acquisto all’estero del ferro e del carbone. Pur troppo i nostri cantieri non sono stati impiantati con criteri economici. Tolti i vecchi cantieri tradizionali, quasi tutti i nuovi sorti durante e dopo la guerra, sono stati costruiti con dispendio inaudito. Scali in cemento armato, tettoie costosissime, impianti che vorrebbero essere e saranno magari perfettissimi, ma che finora, in mancanza di lavoro, rappresentano diecine di milioni buttati via; darsene costruite espressamente in mezzo a grandi difficoltà; lavori spettacolosi di sbancamento su terreno roccioso o di colmate su vaste zone in mare.
L’abbondanza del denaro disponibile fece perdere ogni concreta visione della realtà. Anziché procedere per gradi, si preferì lanciarsi in costose improvvisazioni. Oggi questi cantieri gravano con paurosi ammortamenti sulla loro produzione, ma non sembra lecito per questo affermare che le costruzioni in Italia debbano necessariamente costare più che in Inghilterra. Lo stesso dicasi per quei cantieri i quali hanno acquistato migliaia di tonnellate di materiale ai prezzi di armistizio e oggi si trovano questo materiale svalutato della metà. Si tratta di una differenza di circa lire 1 al chilogrammo, cioè di circa lire 450 per tonn. di stazza lorda, qualora il materiale venga impiegato per costruire navi. Non sembra ammissibile che si debba computare il costo di costruzione di queste navi, in base ai prezzi pagati anziché in base a quello odierno di mercato. I milioni spesi in più per i cantieri e quelli spesi in più per i materiali devono essere considerati come conseguenze di speculazioni sbagliate, quindi come perduti. Del resto non tutti i cantieri si trovano in queste condizioni. Ve ne sono alcuni che hanno degli assortimenti di materiali acquistati a 80 centesimi il chilogrammo, prezzo inferiore a quello odierno di mercato.
L’industria delle costruzioni navali in Italia ha, secondo noi, basi per prosperare anche in confronto della industria inglese. L’Olanda, paese privo come l’Italia delle materie prime e avente una esportazione limitata, ha una produzione di navi superiore a quella dell’Italia; nonostante che l’alta valuta ponga l’Olanda in condizioni malagevoli, essa soffre oggi meno dell’Italia per effetto della crisi. Lo stesso dicasi della Germania, dove la valuta bassa costituisce invece un fattore di vantaggio. Il fatto è che l’importanza della valuta viene, secondo noi, esagerata nella interpretazione di questi fenomeni, nei quali l’organizzazione giuoca la parte principale; quella organizzazione senza la quale la Germania non avrebbe già ricostruito, come ha ricostruito, una gran parte della sua flotta.
Il problema considerato sotto questo aspetto investe in pieno tutta la nostra vita industriale. È il caso di dire: rinnovarsi o perire. Finché la mentalità e i metodi dei dirigenti la nostra industria navale non saranno radicalmente mutati, vi sarà ben poco da sperare e lo stato sarà regolarmente chiamato responsabile di tutti i mali che affliggono l’industria. Non mai, come in questo momento, si è imposto più rigidamente allo stato il dovere di non piegare alle richieste che gli vengono rivolte. L’industria delle costruzioni navali non ha bisogno del premio di costruzione. Ciò che lo stato può e deve concedere è l’esonerazione completa da qualsiasi dazio di introduzione. Lo stato non deve temere le minacce e i propositi di chiusura. I cantieri realmente vitali non chiuderanno. Gli altri moriranno e sarà un bene. Possiamo affermare con sicurezza che, in qualsiasi ipotesi, resteranno aperti almeno 15 cantieri e che la temuta disoccupazione si ridurrà a non più di 5 o 6.000 persone».
Chiunque abbia il senso di responsabilità prova talvolta qualche esitazione nell’affermare la necessità della rottura violenta di un’antica cattiva tradizione. Gli economisti sono gli ultimi a negare la necessità di provvedimenti di transizione, quando si deve passare da un sistema ad un altro. Ma, nel caso presente, dopo aver molto riflettuto, io non saprei consigliare altro provvedimento di transizione fuorché quello definitivo della revisione del nostro pessimo sistema tributario. Il passato è passato, ed è il minore dei mali non tornarci sopra. Ma per l’avvenire tasse, tassette, imposte, sovrimposte, centesimi e tutta la tregenda dei balzelli con cui si rende in Italia impossibile la vita alle industrie italiane devono cominciare ad essere spazzati via per i cantieri e per le navi che sono le industrie destinate a vivere sul mare, in aperta concorrenza con tutto il mondo. Si decreti l’applicazione degli articoli dei disegni Meda-Tedesco-Soleri, i quali impongono la tassazione sugli utili effettivamente distribuiti. Tutte le imposte si riducano a questa sola. Anche il 15% sui dividendi sia conglobato. E si fissi un’aliquota tollerabile, unica, universale. Nessun privilegio sia dato sotto tal rispetto ai cantieri; e soltanto, se così parrà opportuno, si cominci per essi l’applicazione del nuovo sistema dai bilanci in corso. Una volta che navi e cantieri saranno sicuri di godere la franchigia dai dazi e di non pagare imposte se non quando ripartiranno utili, siano abbandonati a se medesimi. Hanno opinato benissimo gli ingegneri navali radunati a Genova quando hanno chiesto che lo stato si astenga da ordinazioni dirette di navi mercantili e lasci libero corso al processo di selezione naturale dei cantieri. Libertà assoluta e imposte mitissime, semplici e chiare: ecco il necessario. Concedere altro è estremamente pericoloso. In teoria astrattissima e purissima, in quella teoria che i pratici accusano noi accademici di fare, potrebbe darsi che, se lo stato si decidesse a dare un premio di costruzione per un lieve periodo transizionale – fino al 1926 chiedono i cantieri, fondandosi sulla legge vigente del 1911 – il premio sarebbe davvero transizionale e atto a dare alle imprese migliori una somma necessaria per sorpassare le difficoltà del momento. Ma in pratica, nella dura pratica e realtà di ieri, di oggi e di domani, sia consentito di dubitare forte che le cose vadano in tal maniera. Dar premi fino al 1926 equivale, nonostante qualunque più solenne scongiuro legale, a darli in perpetuo; dar premi ai più degni equivale a darli a tutti ed a perpetuare la crisi con danno dei migliori. Questa è la dura, lacrimevole realtà; contro di cui nulla possono le buone intenzioni ed il fermo volere anche di valorosi uomini di governo. Perciò tra i due mali – ipotetica crisi momentanea e continuazione dei mali presenti – bisogna scegliere il minor male, che è la eventuale crisi conseguente all’instaurarsi del regime della libertà pura e semplice. La crisi è necessaria perché questa gloriosa industria fiorisca e per virtù propria diventi lo specchio in cui tutte le altre potranno affissarsi.