Finanza francese
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 24/02/1925
Finanza francese
«Corriere della Sera», 24 febbraio 1925
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VIII, Einaudi, Torino, 1965, pp. 103-107
Le odierne appassionate discussioni finanziarie nelle camere francesi sono quasi un tentativo di reagire alla crisi di sfiducia la quale minaccia nuovamente la stabilità del franco ed insieme del bilancio statale. Le origini della crisi sono diverse da quelle che l’anno scorso, all’incirca a questa medesima data, provocarono il tracollo del franco. Allora, pareva che la Francia fosse incapace di mettere l’ordine nel suo bilancio. Questo era distinto in due parti: bilancio ordinario, a cui si provvedeva, e non in tutto, con imposte; e bilancio straordinario, per la ricostruzione delle province invase e per le pensioni di guerra, a cui si provvedeva con prestiti a gitto continuo, destinati teoricamente ad essere rimborsati con le riparazioni tedesche. Il sistema conduceva all’abisso, ed il mercato dava segni evidenti di stanchezza nell’assorbire prestiti poggiati sul vuoto. Il ministro Poincaré vide il pericolo; e dopo aver arginato il ribasso del franco con una rapida controffensiva, fuse i due bilanci, ordinario e straordinario, in uno solo e proclama il principio che tutte le spese dovessero essere coperte con imposte. Parecchie ne inasprì e tutte cercò di esigere con maggior rigore. Il nuovo ministro Herriot, nonostante si fosse procacciato voti grazie al malcontento suscitato nei contribuenti dagli inasprimenti tributari, dovette mantenerli ed in taluni punti accentuarli.
Non si può negare che il successo non abbia arriso alla nuova energica politica tributaria. L’ammontare delle entrate «normali e permanenti», che era passato da 4.135 milioni di franchi nel 1913 a 2.0552 milioni nel 1923, crebbe ancora nel 1924 a 25.835 milioni. Da 100 nel 1913 le entrate passano a 497 nel 1923 ed a 624 nel 1924. Ridotte a lire-oro, l’incremento può considerarsi ancora del 90%; e la percentuale delle imposte al reddito, il quale prima della guerra si calcolava all’11,60%, nel 1924 toccò il 20% circa. Il rimprovero degli americani e degli inglesi di non avere aumentato a sufficienza le imposte, come è ingiusto verso l’Italia, così non si può dire fondato neppure verso la Francia. Le imposte francesi non sono bastevoli a coprire, insieme con le altre spese, anche quella degli interessi sul debito angloamericano; ma, per il resto, l’equilibrio si può ritenere quasi raggiunto. Un qualche maggior sforzo è necessario; sforzo che il rigoglio delle entrate fa sperare possa essere fortunato.
Il problema finanziario francese non è tanto di bilancio quanto di tesoreria. Se il ministro delle finanze dovesse soltanto pensare alle spese correnti ed a quelle della ricostruzione, il problema non parrebbe di troppo difficile risoluzione.
La difficoltà è un’altra; e per spiegarla giova riprodurre un raffronto del debito pubblico prima e dopo la guerra, contenuto in un «inventario della situazione finanziaria della Francia» comunicato nel gennaio scorso alle camere.
Al 31 dicembre 1913, il debito pubblico francese era, in milioni di franchi, il seguente:
Debito consolidato | 25.310 |
Debito redimibile | 5.852 |
Debito fluttuante | 1.432 |
Totale | 32.594 |
Al 31 luglio 1924 il debito aveva raggiunto, in milioni di franchi, le seguenti cifre:
Franchi-carta | |
Debito perpetuo ed a lunga scadenza | 149.395 |
Debito a breve scadenza | 37.174 |
Debito fluttuante |
|
Buoni | 61.500 |
Depositi in casse pubbliche | 6.781 |
Anticipazioni in biglietti della Banca di Francia | 23.000 |
Totale debito interno | 277.850 |
Franchi-oro | |
Debito politico (Stati uniti ed Inghilterra) | 30.815 |
Debito commerciale | 5.149 |
Totale debito estero | 35.964 |
Più dell’aumento assoluto del debito, che ridotti i 277.850 milioni di franchi-carta del debito interno in 73.550 milioni di franchi-oro, si può calcolare all’incirca da 100 a 350, preoccupa la diversa composizione del debito. Prima della guerra, il debito era in gran parte consolidato od a scadenza relativamente lunga. Non vi erano scadenze minacciose imminenti. Adesso, 37,2 miliardi scadono in breve, 61,5 miliardi sono buoni, di cui ogni giorno una frazione deve essere rinnovata ed i 6,8 milioni di depositi sono rimborsabili quasi a vista. Riassumendo, la pericolosità della situazione sta in ciò che nel 1925 il tesoro deve emettere 2.400 milioni di buoni per le spese della ricostruzione e deve tenersi pronto a rimborsare o rinnovare 22.950 milioni di buoni o debiti brevi giunti a scadenza. Il tesoro è, cioè, ancora nella fase di dipendenza dal risparmiatore, che in Italia in sostanza è stata superata. Quando, come da noi, il tesoro non ha più necessità di far nuovi debiti e la proporzione dei debiti brevi al totale, sebbene ancora alta, sta diminuendo, è maggiore la paura del possessore di titoli di essere rimborsato del timore del tesoro di non potere rinnovare il titolo scaduto. In Francia, è, invece, ancora maggiore la preoccupazione del tesoro di non trovare in paese prenditori ai suoi titoli nuovi o rinnovati. Lo stato corre ancora dietro al capitalista, il quale eleva perciò le sue pretese.
Il compito del tesoro francese nel 1925 è dunque quello di trasformare una buona parte del debito breve fluttuante in debito lungo consolidato. Non è questa una peculiarità della Francia, ché tutti i paesi traversano oggi questa fase. L’importante è il punto a cui si è giunti lungo il cammino della trasformazione. La caratteristica francese sta nell’essere ancora in arretrato e nel traversare, proprio in quest’anno, il momento forse più delicato della trasformazione. Quanti industriali e commercianti dovettero, possedendo un’azienda intrinsecamente fortissima, presentare i bilanci in tribunale perché le scadenze dei debiti incalzavano, mentre le entrate erano distanti nel tempo!
In questo momento, importa più che mai conservare intatto il credito e viva la fiducia dei risparmiatori. Ed ecco il punto in cui il problema tributario si innesta e reagisce sul problema di tesoro. Le entrate tributarie progrediscono bene e tendono a coprire le spese totali annue; ma forse in questi ultimi anni le entrate sono esatte o temesi siano esatte con metodi troppo inquisitori.
La Francia, come l’Italia, non ha mai amato l’eccessiva curiosità della finanza negli affari privati. Il contribuente paga; ma non vuole essere annoiato con dichiarazioni, giuramenti, nominatività e simili. Non ama l’imposta patrimoniale, perché teme che gli agenti fiscali ficchino troppo il naso negli affari suoi. Non l’amano né i contribuenti ricchi né quelli modesti; e forse questi l’aborrono più di quelli. Abbiamo visto perciò Herriot, tuttoché di parte radicale e forzato ad inchinarsi alle pretese di parte socialista, dichiarare che non istituirà l’imposta patrimoniale; e vedemmo Caillaux, radicalissimo e rivale nella conquista di popolarità, fargli eco su questo punto.
Oggi, il problema attuale non è tuttavia quello della patrimoniale; ma piuttosto quello del bordereau de coupons, un sostituto francese della nominatività dei titoli. Il ministro De Lasteyrie aveva, al tempo del gabinetto Poincaré, fatto approvare il sistema delle distinte delle cedolette, per cui il portatore di un qualunque titolo al portatore non avrebbe potuto esigere le cedole degli interessi e dei dividendi se non avesse presentato alla cassa o banca una distinta, una per ogni specie di titoli, contenente l’indicazione del suo nome e cognome, indirizzo, specie e quantità dei titoli presentati. Le distinte avrebbero dovuto servire alla finanza per controllare le dichiarazioni dei contribuenti ai fini dell’imposta sul reddito.
Le obbiezioni al sistema delle distinte, sono le stesse che in Italia si mossero al metodo della nominatività. Tecniche, innanzitutto. Il lavoro dei contribuenti, delle banche e dell’amministrazione sarebbe stato enorme. Fu calcolato che nel solo dipartimento della Senna, avrebbero dovuto riempirsi ben 12 milioni di distinte. I funzionari delle imposte confessavano di non sapere immaginare un metodo pratico per utilizzare questa massa imponente di distinte. Valeva la pena di tanto lavoro e di tanti equivoci di persona e di tante controversie per incassare forse nel 1925 circa 200 milioni di franchi di maggiori imposte? Che cosa sono 200 milioni su un bilancio di 25 miliardi?
Ma l’obbiezione principe era quella finanziaria. Autorità competenti avevano calcolato che il solo annuncio della distinta aveva fatto fuggire all’estero da 13 a 20 miliardi di titoli. Invece di un guadagno, il metodo inquisitorio rischiava di far perdere somme enormi alla finanza. Sovratutto, il metodo allarmava i capitalisti e li allontanava dal sottoscrivere ai prestiti pubblici e dal rinnovare i buoni scaduti. Che cosa sarebbe accaduto se, nel momento critico di trasformazione del debito pubblico da lungo a breve, il risparmiatore francese fosse stato colto da paura? I metodi inquisitori sono tollerabili a mala pena per uno stato fortissimo, sicuro di non dovere ricorrere a prestiti, e con un avanzo di bilancio.
Oramai della distinta delle cedole non si parla più. Tolto quest’incubo, è augurabile che il tesoro francese possa affrontare il compito di trasformazione del debito pubblico e sormontarlo. L’anno 1925 è un anno di prova per le finanze francesi.