Ostruzionismo, neutralità dello stato, arbitrato e controllo operaio
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 25/08/1920
Ostruzionismo, neutralità dello stato, arbitrato e controllo operaio
«Corriere della Sera», 25 agosto[1]; 2[2], 7[3], 8[4], 16[5] e 30[6] settembre; 6[7], 8[8], 27[9] e 29[10] ottobre; 3 novembre 1920
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 829-876
I
Ostruzionismo e sciopero
Questo articolo era stato scritto per chi avesse notizia dei tentativi iniziali per un approccio fra gli industriali e gli operai metallurgici. Benché d’altra parte si abbiano indizi di un inasprimento del conflitto, giova sperare che quei tentativi di approccio abbiano a dare buoni risultati. In ogni modo, ci è sembrato utile pubblicare l’articolo che richiama opportunamente l’attenzione degli organizzatori sul carattere subdolo del metodo di lotta, sui gravi danni che ne possono derivare e sulla necessità di riprendere lealmente il dibattito nell’interesse generale.
L’ostruzionismo inaugurato da 500 mila operai metallurgici ha un’importanza sociale così grande, che merita si facciano intorno ad esso alcune considerazioni oggettive. Bisogna distinguere il metodo scelto dallo scopo che si vuole conseguire. In sostanza, come metodo di lotta, l’ostruzionismo non differisce dallo sciopero, se non per il suo carattere più coperto e più dannoso. Nessuna delle due parti in lotta vuole avere la responsabilità di proclamare per la prima lo sciopero o la serrata, perché ha la sensazione della convenienza di non irritare e anzi di accaparrarsi l’opinione pubblica e sa che questa è propensa in un primo momento a dare torto a coloro da cui viene la dichiarazione di guerra. Perciò gli organizzatori operai desidererebbero che dalla parte padronale partisse la dichiarazione di serrata, per aver agio a proclamare che la produzione è stata interrotta dalla caparbietà capitalistica e che si impongono provvedimenti d’imperio – requisizione, costituzione di consigli di fabbrica gerenti dell’industria – atti ad impedire una così grande jattura sociale. Per le stesse ragioni gli industriali hanno deliberato di non fare il giuoco degli operai e di resistere all’ostruzionismo, che è l’applicazione letterale del regolamento, con la applicazione, da parte loro, delle norme regolamentari le quali puniscono la negligenza e la mala volontà dei lavoratori.
Chi sta al difuori, non si lascia ingannare da tutto questo armeggio. Summum jus, summa iniuria, dicevano i giureconsulti romani. La dichiarazione di guerra c’è tanto nell’ostruzionismo, come nello sciopero. Tra i due, il secondo è più aperto, leale e meno dannoso alla collettività. Lo sciopero significa non produrre affatto; il che è dannoso bensì; ma in grado minore del produrre ad alto costo, ossia sprecando lavoro e consumando a vuoto combustibile ed arnesi. Collo sciopero, almeno, gli elementi della produzione rimangono illesi e pronti ad una futura intensa produzione economica; coll’ostruzionismo quegli elementi sono utilizzati malamente e guasti per sempre. Il significato, inoltre, dell’ostruzionismo come dichiarazione di guerra alla classe padronale è assai più grave di quello dello sciopero. Con questo, l’operaio si giova di un suo diritto, che è quello di non lavorare; né offende alcun diritto degli industriali. Se all’operaio non piace vendere la sua forza di lavoro per 20 lire al giorno, è giusto che egli possa dire: io non lavoro a tal ragione. Il suo calcolo può essere sbagliato; ma aveva diritto di farlo, correndo l’alea relativa. L’industriale può affermare di non essere in grado di pagare di più di 20 lire; ma non può dolersi di un’offesa recatagli, ché la forza di lavoro non è roba sua, ma di spettanza dell’operaio e questi ne può fare l’uso che egli ritiene ai suoi fini più opportuno. Sciopero e serrata sono due mezzi, talvolta imprudenti, non sempre opportuni, lealissimi però, di manifestare il proprio dissenso intorno ad una questione del lavoro. L’ostruzionismo è diverso e peggiore. Infatti con esso non solo l’operaio inizia una lotta con l’imprenditore, gli dichiara apertamente guerra sul punto del salario o delle altre condizioni del lavoro; ma aggiunge: «la fabbrica non è più tua, gli strumenti di lavoro non sono tuoi; mio è quel posto di lavoro nella fabbrica, né tu, industriale, hai diritto di cacciarmene se io non adempio ai patti antecedentemente convenuti. Io ho diritto di servirmi della tua fabbrica, di adoperare le tue materie prime, le tue macchine, i tuoi arnesi per costringerti a concedermi una modificazione nei patti di lavoro». L’ostruzionismo è dunque, al pari dello sciopero, una dichiarazione di guerra; ma aggravata da un’ulteriore dichiarazione di parte operaia di volersi impadronire dello stabilimento padronale. Organizzatori esperti, come il Buozzi o il Colombino, non possono illudersi di persuadere l’opinione pubblica che l’ostruzionismo possa essere giudicato atto meno grave e meno bellicoso dello sciopero. Essi, che hanno una responsabilità, che in altre occasioni hanno saputo imporre il loro senso della misura e del concretamente fattibile alle masse, devono sapere chiaramente dove vogliono condurle. Se gli industriali reagiranno all’applicazione letterale del regolamento con altrettanta rigida regolamentarità, se nelle fabbriche nasceranno disordini e conflitti da questo contatto continuo ed esasperante delle due parti in lotta, da questo attrito, non fra i capi, per educazione ed esperienza meglio capaci a discutere, ma soltanto fra i gregari dell’una e dell’altra parte, più facili ad accendersi ed a venire alle mani, gli organizzatori non potranno dire di non aver voluto l’incendio. No, l’incendio, ossia le invasioni delle fabbriche, i guasti al macchinario, i conflitti colla forza pubblica, saranno stati da essi deliberatamente voluti.
A che pro? Qui vien fuori lo scopo della dichiarazione di guerra lanciata dalla Fiom all’Amma. Si vuole andare all’occupazione delle fabbriche ed alla instaurazione del governo dell’industria da parte dei consigli di fabbrica? Se è così, fa d’uopo dirlo apertamente e misurare le conseguenze dell’atto compiuto. Sono gli organizzatori dei metallurgici davvero persuasi che i 500.000 loro organizzati siano oggi capaci di gerire le fabbriche al posto degli industriali, capaci di procurarsi il credito, di comprare e di vendere? Non si ricorda l’esperimento, miseramente fallito, dell’occupazione degli stabilimenti Mazzonis? Dopo tanto sbandieramento di consigli di fabbrica, di gestori pubblici e simigliante roba avveniristica, non furono gli organizzatori stessi costretti a rilasciare ai Mazzonis una dichiarazione scritta e firmata, dalla quale risultava che le condizioni di lavoro esistenti prima negli stabilimenti erano migliori di quelle chieste dopo in base ai concordati collettivi e non i Mazzonis erano in debito per arretrati verso gli operai, ma gli operai verso i Mazzonis? Il Colombino, reduce, salvo errore, dalla Russia, quale impressione ha riportato dal funzionamento dei consigli di fabbrica in quel paese? Non sarebbe suo dovere di informare chiaramente i suoi compagni dei risultati ottenuti? Se è vero che i consigli di fabbrica in Russia sono stati cagione di disordine, di scemata o scomparsa produzione; se è vero che essi sostanzialmente sono stati messi da un canto, non sarebbe egli in grave colpa verso i suoi mandanti se tacesse quello che egli può aver appreso sul luogo? Nulla si può affermare su ciò che potrebbe accadere in un altro ambiente, con altra educazione tecnica e morale, dopo profonde e necessariamente lente trasformazioni dell’animo, delle attitudini ad ubbidire in molti e a comandare in pochi, nelle classi operaie. Oggi, la gestione collettiva degli stabilimenti vorrebbe dire disordine, interruzione di lavoro, mancanza di materie prime e di credito, produzione ridotta ad una piccola frazione di quella odierna. Vorrebbe dire immiserimento delle masse. Il dilemma sarebbe fra il ridurre le paghe ad un quarto di quelle odierne o far rimanere disoccupati i tre quarti degli operai. Buozzi e Colombino, che queste cose sanno, perché raccomandano con tanta leggerezza un mezzo di lotta, l’ostruzionismo, il quale, per avere un significato proprio, deve fatalmente condurre a tentativi di invasione delle fabbriche, ossia di instaurazione di un regime di produzione destinato oggi a distruggere la produzione e ad immiserire gli operai?
Ma, possono rispondere gli organizzatori, noi non vogliamo tanto. Vogliamo solo costringere gli industriali a discutere, prima che l’ostruzionismo abbia prodotto le sue fatali conseguenze, sulle nostre domande di miglioramento, a cui essi hanno opposto un rifiuto perentorio ed assoluto. Si può osservare che il giuoco è pericoloso, che si cammina sul filo di un rasoio quando si spera che l’ostruzionismo possa essere fermato nel suo sviluppo logico prima di aver prodotto le sue necessarie conseguenze di inasprimento della lotta per la vita e la morte della parte industriale. Supponiamo per un momento che il miracolo di abilità nel camminare sul filo del rasoio si compia. O non sarebbe stato meglio che alla lotta di cifre e di dimostrazioni si fosse venuti prima?
II
I due principii: costo della vita e condizioni dell’industria
In attesa che la situazione rivoluzionaria determinata dalla occupazione delle fabbriche di parte dei metallurgici si risolva, allo studioso è possibile solo girare attorno al problema. Non per additare una soluzione sull’essenza concreta sua, che è di salari e di modalità di compenso, ossia di un dare ed avere, intorno a cui possono decidere solo gli interessati. Noi che viviamo al difuori, che leggiamo le interviste degli uni e degli altri, per istruirci, possiamo solo intervenire per chiarire alcuna delle premesse della discussione, per dire se e quali delle posizioni assunte dall’una o dall’altra parte in lotta sia logica e conforme all’interesse generale. Debbo dire subito che la necessità della discussione pubblica ha gettato una maggior luce sull’atteggiamento della parte operaia che a me dapprima era parso non a bastanza documentato. Due articoli scritti con linguaggio sereno dall’«Avanti!» in risposta al mio di alcuni giorni fa su queste colonne e sovratutto una intervista recente dell’on. Buozzi mi sembrano istruttivi.
L’ostruzionismo continua a dare effetti cattivi, come era facile prevedere. È un’arma di lotta, dicono gli organizzatori, simile ad ogni altra. Non è vero; perché mentre con lo sciopero l’operaio lotta con le armi sue, con l’ostruzionismo si impadronisce dell’arma avversaria e pretende volgerla a proprio beneficio. Appena impugnata l’arma nuovissima si vede subito che essa è inerte e non serve se non le si dà un’anima. L’idea che i socialisti si fanno del capitale, come di una cosa morta, vivificata dal solo lavoro è falsa; e la falsità oggi si vede a colpo d’occhio. È un’illusione credere che l’impossessarsi del capitale giovi alla classe operaia. Il capitale vive ed opera, in quanto dietro c’è il capitalista, il risparmiatore, l’organizzazione tecnica e commerciale che lo conserva, lo sostituisce, lo accresce, lo fa muovere. L’ostruzionismo uccide tutto questo; perché l’industriale diventa passivo di fronte all’occupazione della cosa sua da parte altrui. La situazione diventa insostenibile; ed allora gli operai si impadroniscono della fabbrica. Ma hanno essi i tecnici e gli ingegneri e gli amministratori pronti a sostituire coloro che essi hanno espulso o che non credono di poter lavorare alle nuove condizioni? Hanno i fornitori di materie prime che consentano la continuità del lavoro? Hanno presso le banche il credito per attendere che sia trascorso il lungo ciclo di tempo fra il comprare carbone, macchine, materie prime, pagare maestranze e riscuotere il prezzo della merce? Non bisognerebbe chiudere gli stabilimenti almeno per fare un inventario ed evitare di vivere col consumo delle ricchezze precedentemente esistenti?
Tutto ciò si dice facendo astrazione dall’offesa al diritto di proprietà, che non potrebbe in ogni modo essere abolito se non dai legittimi rappresentanti della collettività. In ultimo, è il caos che fatalmente si crea e si vuole; è l’arresto della produzione; è una serrata di nuovo genere, durante la quale gli operai rimangono a dormire e mangiare nello stabilimento. I salari ed i guadagni sono soppressi come negli scioperi e nelle serrate solite. La sola differenza visibile è il luogo di dimora e di pernottamento delle maestranze, con rischi inevitabili di esaltazioni e di danneggiamenti.
Se, passando sopra al metodo di lotta, si ascoltano ora le due parti nella sostanza del dibattito, due principii si trovano di fronte: i salari debbono commisurarsi al costo della vita od alle condizioni dell’industria? Gli operai parrebbero poco propensi a preoccuparsi delle condizioni dell’industria, sebbene cerchino di dimostrare che esse non sono tanto cattive come vogliono gli industriali, e si fondano sulla necessità che l’industria paghi ad ogni costo salari bastevoli alla vita della famiglia operaia. Gli industriali, mentre negano che il costo della vita sia salito di più del rialzo dei salari, insistono sul limite insuperabile che le condizioni dell’industria devono opporre ad un rialzo dei salari. Qui l’economista è portato a distinguere. È certo che le maestranze hanno ragione nel pretendere di non preoccuparsi delle condizioni delle singole imprese. Che lo stabilimento A guadagni e quello B perda, ciò non importa e non deve importare nulla agli operai. Costoro non devono consentire di ricevere in B solo 10 lire al giorno, né d’altra parte possono pretendere di riceverne 30 in A, se il livello dei salari nel paese è 20 lire. Il salario deve essere 20 e non altro. Se B a questo saggio perde, peggio per lui. La collettività non ha nessun interesse a tenere in vita un’impresa, il cui principale è incapace o sfortunato e non è in grado di fornire alle sue maestranze il salario sufficiente e corrente secondo il tenor di vita usuale nel paese. Fallisca e lasci il posto ad un altro migliore di lui.
Se ben si guarda, questa è l’obiezione più grave contro il principio della partecipazione degli operai al profitto. La partecipazione tende ad instaurare una ingiusta sperequazione tra operai ugualmente abili e laboriosi appartenenti a stabilimenti diversamente fortunati; dà un premio agli industriali infingardi, che pagano ai loro operai solo il salario senza aggiunta, e multa gli industriali bravi a cui impone l’obbligo di un sovrasalario non collegato con una vera prestazione speciale dell’operaio. Il partecipazionismo è una forma antiquata di rimunerazione del lavoro.
Per la stessa ragione gli organizzatori operai sono nel vero quando affermano che nessuna singola impresa e nessuna industria ha diritto di vivere quando paga troppo male gli operai. Badisi che non entro nel merito del decidere se sia vero o no che i metallurgici sono pagati troppo o troppo poco. Questa è una questione di fatto; mentre ora si discutono premesse e principii. Ma quante soluzioni di fatto non dipendono da una corretta impostazione di principii!
A me, vecchio ed impenitente avversario non della siderurgia, ma della vita artificiale protezionistica della siderurgia, ha fatto molto piacere sentire Buozzi e l’«Avanti!» distinguere tra la produzione della ghisa, la sua seconda lavorazione, l’industria meccanica, quella automobilistica, i cantieri navali, ecc. ecc. Buozzi su questo punto pone bene il problema. Se la siderurgia di prima lavorazione, ossia la trasformazione del minerale di ferro in ghisa è una industria la quale in Italia non può naturalmente reggersi, non perciò debbono gli operai rassegnarsi a salari minori di quelli che altrimenti ad essi spetterebbero. L’industria non deve vivere per se stessa. Non si fa l’arte per l’arte, né l’industria per l’industria. Essa è un mezzo per far vivere gli uomini in una maniera non peggiore e possibilmente migliore di quella in cui possono vivere in altre industrie. Se una data industria non riesce a tanto, una delle due: o essa ha tale importanza collettiva che essa deve ad ogni costo, per ragioni militari o culturali, essere mantenuta in vita ed allora paghi la collettività il disavanzo. Ovvero essa non merita di vivere a spese dei contribuenti e sia lasciata andare a fondo. Buozzi ha ragione di dire che, se la siderurgia è in queste condizioni, la sua morte non sarà di danno ma di vantaggio agli operai delle industrie meccaniche, automobilistiche, navali, ecc. Non giova ad un paese e perciò nemmeno agli operai sperdere forze in industrie antieconomiche.
Le industrie le quali chiedono protezione allo stato sono sotto potenziale controllo dello stato medesimo. Questo è il succo di verità, il quale si trova nascosto nelle argomentazioni operaie di volere controllare l’operato delle industrie metallurgiche. Non l’operaio come tale, ma l’operaio come membro della collettività ed attraverso gli organi collettivi ha diritto di controllare se i sacrifici che il paese ha sopportato e sopporta per mantenere in vita l’industria siderurgica siano a sufficienza compensati dall’esistenza della medesima industria e non vadano sperperati in un cattivo e troppo speculativo indirizzo impresso dai dirigenti alle varie imprese. Diritto però profondamente diverso da quello che vorrebbero oggi gli operai, come tali, attribuirsi in qualsiasi industria. Non so se in avvenire le cose potranno mutare molto dalla realtà d’oggi. La realtà attuale ci insegna che le ingerenze ed i controlli dei consigli di fabbrica in quello che è ordinamento industriale, indirizzo tecnico e commerciale sono fonte di indisciplina e disordine; e conducono alla diminuzione della produzione e conseguentemente dei salari. Qui hanno ragione gli industriali i quali avrebbero detto tempo addietro: «Noi siamo disposti a pagare salari più alti. Il problema non sta nell’altezza dei salari; od almeno esiste un margine di oscillazione possibile nell’ampiezza dei salari. Sta nella disciplina della fabbrica, nella produttività del lavoro, nello spirito di collaborazione delle maestranze».
È certo che con maestranze volonterose e disciplinate si potrebbero pagare salari più alti; e con maestranze innamorate del loro lavoro salari doppi, doppi realmente e non solo monetariamente. Le due teorie, del costo della vita e della produttività della industria, sono amendue unilaterali ed erronee. Tutto si lega nel mondo. Hanno un bell’avere le maestranze operaie ideali di vita più alti, ha un bel crescere il costo della vita; non perciò è possibile pagare salari più alti se, per l’animosità e la diffidenza tra imprenditori ed operai, se, per la incapacità degli uni e la mala voglia degli altri, la produttività dell’industria è bassa. Il prodotto dell’industria è la torta che si tratta di dividere; se la torta è piccola, tutti devono stringersi ai fianchi le cinghie, perché la porzione di ognuno è piccola. Alti salari possono invece significare bassi costi della vita e alta produttività se vi sono operai capaci, morigerati, scarsi bevitori di vino, desiderosi di istruirsi e di perfezionarsi, amanti della casa e della famiglia. Se tutto questo non si verifica, la colpa non è dei soli operai. Le predicazioni di odio e di vendetta, le sciocche adorazioni del mito comunistico, la propaganda di distruzione sociale sono colpe inescusabili di partiti e di uomini, i quali contribuiscono potentemente a distruggere il senso di sicurezza nel presente e di fiducia nell’avvenire, che è fattore di prim’ordine nella produzione. Gli operai, tentando di impadronirsi di cose materiali morte, come fabbriche, macchine, scorte ecc., immaginano di guadagnare cento; ma perdono cento o mille disperdendo i tesori di spirito organizzatore, di tendenze risparmiatrici, di audacie creatrici, che sole danno vita a quelle cose morte.
L’industriale, d’altra parte, oggi non può limitarsi a guardare a quel che succede entro le mura dello stabilimento. Deve guardare oltre; ed essere, oltreché il creatore della macchina produttrice, l’organizzatore della vita per i suoi collaboratori. Deve adoperarsi per la città-giardino attorno alla fabbrica; per le biblioteche, i divertimenti, i dispensari, le scuole, la chiesa, di coloro che vivono dei prodotti dell’industria. Occorre interessare l’operaio non al profitto, concetto vago ed indipendente dall’opera del lavoratore singolo, ma al suo lavoro. Solo quando il lavoro sarà diventato bello ed interessante per tutti, per l’imprenditore e per il dirigente, per il tecnico e per il lavoratore semplice, soltanto allora scomparirà quel senso di malanimo e di irrequietezza che oggi spinge uomo contro uomo, nella illusione che la felicità si raggiunga dilaniandosi a vicenda, invadendo le fabbriche, convertendole in campi di battaglia, e rompendo la macchina produttrice nella vana speranza di crearne per un fiat miracoloso un’altra più perfetta.
III
Vecchie e nuove teorie sulla neutralità nei conflitti sociali[11]
Nell’attuale conflitto metallurgico importa seguire le trasformazioni delle idee fondamentali, sulla base delle quali si giudicano gli avvenimenti e si prende posizione pro o contro l’uno o l’altro dei contendenti. Fra queste idee – madri spicca quella della «neutralità». I terzi ed il governo debbono, era un tempo usato dire, mantenersi «neutrali». Non parteggiando né per l’una né per l’altra parte, pronti sempre a prestare i propri buoni uffici, era sperabile poter risolvere più sollecitamente la controversia.
A fior di labbra, si ripetono ancora i medesimi concetti. Il ministro Labriola sembra abbia asseverato «che nella controversia il governo ha cercato sempre di mantenere una posizione di perfetta neutralità ed ha fatto e farà tutto il possibile per vedere di ricondurre la lotta sul terreno della legalità, mediante la ripresa delle trattative; ma tutte le volte che vi sieno tentativi, da una parte o dall’altra, di attuare mezzi arbitrari o violenti, si vedrà costretto a fare intervenire la forza pubblica in difesa del diritto privato e dell’ordine giuridico minacciato».
Le parole del ministro rispecchiano abbastanza bene il concetto della neutralità dello stato di diritto, il quale fa rispettare l’ordine ed il diritto vigenti e procura di creare l’ambiente di accordo fra le parti contendenti. Ma i fatti che cosa ci dicono? Che la forza pubblica assiste impassibile all’invasione degli stabilimenti; all’organizzarsi di una nuova polizia, la quale difende il possesso degli stabilimenti da parte degli invasori con scolte, sentinelle, sequestro di persone; costruisce reticolati percorsi da forti correnti elettriche per impedire l’accesso agli stabilimenti ai vecchi proprietari ed alla pubblica forza. Che più! si collocano mitragliatrici all’entrata e sui tetti degli stabilimenti; e la pubblica forza, mandata in spedizione notturna per cercare di sottrarre agli invasori un numero non piccolo di mitragliatrici ed un certo quantitativo di munizioni, è costretta a retrocedere dinanzi alle forze armate dell’esercito rosso, decise ad usare le armi, mentre evidentemente ai difensori dell’ordine vigente era stato vietato di farne uso.
Questi sono i fatti. Se l’invasione della roba altrui, il sequestro di persone, la costituzione di una forza armata, l’impiego di mezzi bellici usati nella guerra da trincee e da campo non costituisce «attuazione di mezzi arbitrari e violenti» davvero non si sa più che cosa siano la violenza e l’offesa all’ordine giuridico vigente. È questa la neutralità proclamata dal governo?
Se il governo compie sostanzialmente, sebbene ancora non li elevi a teoria, atti contrari alla neutralità intesa nel suo senso tradizionale e logico, altri già sta costruendo una nuova teoria della neutralità. Ecco l’associazione generale dei tecnici delle industrie metallurgiche ed affini, la quale denuncia la diffida ricevuta dagli industriali di non entrare negli stabilimenti e di non prestare opera a pro del nuovo regime comunistico instauratosi violentemente nelle fabbriche, come «una precisa manovra intesa a far uscire i tecnici dalla loro linea neutrale di condotta, per farsene un’arma contro gli operai» e riafferma il proprio «preciso intento di continuare a prestare la propria opera in officina a garanzia della conservazione dei mezzi di produzione», opera necessaria in un momento in cui «gli industriali mostrano di disinteressarsi completamente delle sorti del prezioso patrimonio collettivo di macchine ed attrezzature costituito dalle officine invase».
Dunque, secondo i tecnici, quando tra industriali ed operai scoppia un dissenso, i «tecnici» ossia i sovrastanti e capi-reparto, i quali stanno di mezzo tra ingegneri dirigenti ed operai, si credono in diritto di affermare che:
- le macchine ed attrezzature e le officine invase sono un prezioso patrimonio «collettivo»;
- che detto patrimonio essendo di proprietà della collettività e non più degli industriali deve essere conservato;
- che esso ha bisogno di essere conservato non a favore degli industriali cacciati di casa propria, ma della collettività, evidentemente rappresentata dagli invasori;
- che, se essi non continuassero a lavorare d’accordo cogli invasori, dimostrerebbero di non volere tutelare gli interessi collettivi e quindi di abbandonare la loro linea neutrale di condotta, diventando strumento degli industriali invasi contro gli operai invasori.
Il qual concetto è stato illustrato meglio dall’on. D’Aragona quando al ministro, affermante principii ragionevoli, sebbene contrastanti colla condotta faziosamente assente del governo, replicava che
«l’occupazione degli stabilimenti, attuata da parte degli operai in forma tranquilla e senza atti di sabotaggio, né violenze private, non costituisce un atto di violazione del diritto. Il lavoro ripreso regolarmente dimostrerebbe anzi il fermo proposito delle masse di non recare alcun danno all’economia nazionale, mediante una diminuzione della produzione».
Facendo astrazione dal carattere tranquillo dell’occupazione, il succo del problema pare dunque sia questo: che organizzatori e tecnici ritengono che già siasi operato il trapasso della proprietà degli stabilimenti dagli industriali singoli alla collettività. Siccome però, in questo primo tumultuoso periodo rivoluzionario, la «collettività» non possiede ancora organi propri adatti a regolare la produzione, gli operai, considerando se stessi quali gestori d’affari della collettività stessa, conservano, come dicono i tecnici, macchine ed attrezzature e continuano la produzione, in attesa che…
In attesa di che cosa? Qui la logica si smarrisce, perché le conseguenze non sono dedotte dirittamente dalle premesse. Se è vero che gli opifici, con le macchine e le attrezzature, sono già diventati un «prezioso patrimonio collettivo» gli industriali non ci hanno nulla più a che vedere. La contesa con essi è già finita. Essi tutt’al più avranno diritto a chiedere al legislatore un’indennità per la cosa espropriata; ma non v’è ragione che essi discutano con gli operai intorno ad una vertenza inesistente. Ovvero, da parte operaia, malgrado l’occupazione «pacifica» si insiste nel volere trattare con gli industriali ed in tal caso apertamente si riconosce che macchine, attrezzi, opifici non sono ancora patrimonio collettivo, bensì privato; e che, per necessaria illazione, l’occupazione fu atto antigiuridico che il governo avrebbe dovuto reprimere.
Operai, organizzatori, tecnici si erigono a conservatori delle fabbriche, a vindici e prosecutori della produzione abbandonata dagli industriali. Questo è un sofisma, già usato nell’agricoltura e che occorre mettere in chiara luce. Nel Vercellese, nell’Emilia ed in altre plaghe ad agricoltura intensiva, gloria e vanto dell’Italia, testimonianza irrefragabile che il nostro paese in parecchie sue regioni è alla testa dell’agricoltura mondiale, la scervellata politica seguita dai ministri d’agricoltura negli ultimi anni, ha condotto a questa conseguenza: che dovunque un gruppo di facinorosi organizzati in lega aspira a rubare altrui una terra fecondissima e magnificamente coltivata – i rapinatori disprezzano le terre veramente sterili ed incolte – basta instaurare uno sciopero su basi eccessive, costringere gli agricoltori alla resistenza, per aver ragione di proclamare che quella è terra incolta e chiederne la devoluzione in base ai decreti Visocchi, Falcioni, ecc. Ed il governo attuale, a dimostrare la sua neutralità, non trova nulla di meglio da fare che presentare un disegno di legge per la coltivazione obbligatoria dei cereali, il cui unico effetto, a detta di tutti i tecnici, sarà di far produrre meno frumento di prima e nel tempo stesso rendere possibile l’occupazione violenta e senza indennizzo delle terre buone e ben coltivate da parte di false cooperative desiderose di appropriarsi della roba altrui senza fatica e senza spesa. Adesso, il precedente lo si vuole estendere all’industria. Prima si disorganizza la produzione, se ne aumenta il costo, se ne rende malcerto il ciclo, fino a rendere gli industriali disperati e disposti a concedere qualunque aumento di salario, pur di riottenere un po’ di disciplina e d’ordine e di continuità di lavoro. E poi, si occupano gli stabilimenti e si spargono lacrime da coccodrillo sulla continuità della produzione e sulla necessità di tutelare i macchinari contro il disinteresse degli industriali, quasiché il primissimo interesse di questi non fosse la buona conservazione del proprio patrimonio.
Nell’assistere a tali fatti e nel leggere tali altisonanti sofismi, nell’osservare la debolezza degli organi tutori del diritto dinanzi al disfrenarsi di innumeri e conclamate violazioni del diritto stesso, vien fatto di chiedersi se non avesse per avventura ragione quella commissione americana di studiosi che, avendo da poco terminato un proprio viaggio di studi sociali in Europa, prognosticava che l’Italia era il paese più prossimo all’anarchia bolscevica, alla distruzione dei beni della civiltà, alla miseria ed alla disorganizzazione sociale perché in nessun altro paese pochi uomini imbevuti dell’antico spirito camorristico ereditato dai vecchi regimi borbonici e stranieri potevano tanto facilmente imporsi nelle industrie ai dirigenti ed intimidire le masse ed il governo con la violenza dei fatti e delle parole.
Altri paesi, come l’Inghilterra, traversarono verso il 1840 momenti simiglianti a questo nostro. Ma v’erano alcune differenze fondamentali: le masse operaie erano in realtà al margine della destituzione, della fame e della disoccupazione cronica; e contro di esse campeggiava una borghesia, ossia una classe dirigente aperta a tutti, conscia del proprio valore, decisa a far tutto il possibile per sollevare le sorti delle masse, ma nel tempo stesso a salvare la civiltà. E ci riuscì; sicché oggi, nonostante tanto imperversare, anche in Inghilterra, di idee bolsceviche, confuse e distruttrici, si assiste in quel paese allo spettacolo di milioni di minatori i quali decidono, a suffragio segreto, se debba o non debba essere proclamato lo sciopero; e, decisolo, danno regolare diffida di venti giorni agli imprenditori, al termine dei quali soltanto si abbandonerà il lavoro. Così si combattono le lotte del lavoro nel paese nel quale sul serio si cerca di tutelare, attraverso alle competizioni di interessi contrastanti, l’interesse collettivo. Questa nostra non è più una guerra fra eserciti che si rispettano e rispettano le norme fondamentali della vita civile. È guerra di partigiani; è lo scatenamento dell’anarchia, mentre il governo tutore dell’ordine, si assenta e lascia le bande armate padrone della strada. Che salari! Che produzione! Soffia un vento di follia e si vuoi distruggere la macchina sociale, senza aver nulla in pronto per sostituirla e dopo aver toccato con mano, in recente pellegrinaggio, che gli sforzi cosidetti erculei di intellettuali dottrinari non valgono a creare neppure una particella di quell’organismo produttivo che solo può essere costruito dall’opera lenta dei secoli e dalla collaborazione di milioni di uomini pazienti, previdenti, geniali e lavoratori.
IV
Le condizioni per l’arbitrato[12]
Quando due persone o gruppi sono in disaccordo, l’idea più semplice che i terzi si fanno del modo di risolvere la controversia è l’arbitrato. Se la controversia verte su violazioni di legge o di consuetudine o di contratto, l’arbitrato è anzi obbligatorio, per iniziativa di una sola delle due parti, la quale può citare l’altra dinanzi al giudice, incaricato di dar sentenza vincolatrice per amendue. Spesso, tuttavia, la controversia non è suscettibile di giudizio, trattandosi di pareri differenti intorno ad una materia opinabile. È il caso della contesa attuale metallurgica, industriali ed operai avendo opinioni profondamente diverse intorno all’ammontare dei salari che gli uni credono di poter pagare e gli altri di aver ragione di ricevere. Se si tratta di un diverbio tra persone singole o tra piccoli gruppi, per lo più la collettività non ha ragione di intervenire. Le parti, se non trovano finalmente una soluzione di compromesso, rimangono di diverso avviso, e ciascuna se ne va per proprio conto. Nessun danno apprezzabile deriva alla collettività dal mancato accordo.
Quando invece la disputa tocca decine di migliaia o centinaia di migliaia di operai, industrie in cui sono impiegati miliardi di lire di privati risparmiatori, essa danneggia non solo gli interessati, ma anche vaste masse di estranei: consumatori, ai quali il prodotto verrà presto a mancare; industrie collegate che presto dovranno divenire inoperose; centinaia di migliaia di operai minacciati di disoccupazione. In tali condizioni, l’offerta di arbitrato da parte dello stato o di qualche altro organo collettivo è legittima. Se l’arbitro pronuncerà un lodo il quale sia accettato volontieri dalle due parti, si sarà ottenuto il massimo risultato utile, essendo riuscito egli a vincere quegli ostacoli formali, a spiegare a vicenda alle parti le reciproche esigenze in guisa da raggiungere la pacificazione completa. Se l’arbitro non fu di tanto, o egli aveva, per consenso preventivo delle parti, la facoltà di emanare un lodo obbligatorio e in tal caso la controversia è ugualmente terminata, sebbene una delle parti possa, pur obbedendo, ritenersi ingiustamente trattata; o egli era un semplice conciliatore, senza poteri di arbitro, e anche in tal caso il suo lodo sarà utile, perché l’opinione pubblica vedrà di malocchio la parte recalcitrante ad accettare il lodo e premerà con tutta la sua forza affinché esso sia applicato.
Tutto ciò in generale sta benissimo ed è dottrina elementare in materia di arbitrato.
Ma affinché l’arbitrato riesca a ricondurre la pace od almeno il lavoro dove oggi è guerra e disordine, occorre che talune condizioni siano osservate.
In primo luogo, occorre che le due parti, discordi sulla sostanza della controversia, riescano almeno a mettersi preventivamente d’accordo sulla formulazione dei punti controversi. Su che cosa si disputa oggi fra industriali ed operai metallurgici? Evidentemente, se il problema venisse impostato nella maniera estrema a cui è stato spinto in questi ultimi giorni, esso parrebbe insolubile da un qualsiasi arbitro. Questi non può decidere se sia, non dirò conforme al diritto vigente, ma consigliabile l’occupazione delle fabbriche da parte delle maestranze. Per quanto, entro certi moderati limiti, agli arbitri possa riconoscersi il compito di creatori del diritto, la novità sarebbe in tal caso troppo grossa per non doversi riconoscere che il compito di statuire su di essa deve essere riservato al parlamento. È chiaro che se l’arbitrato deve riuscire ad un risultato utile, la materia del decidere deve essere limitata alle richieste originarie di parte operaia. Ambe le parti e l’arbitro con esse hanno qui campo di discutere intorno a domande concrete, le quali stanno nell’ambito del diritto vigente o delle innovazioni graduali all’ordinamento esistente.
Chi deve essere l’arbitro? In Italia è diffuso l’andazzo di attribuire la funzione di paciere o di arbitro a sindaci, prefetti, ministri o altrettali uomini politici. Senza che si debba affermare che essi debbono sempre essere esclusi, giova osservare che spesso gli uomini politici sono disadatti ad una funzione così delicata. Il loro temperamento e le loro funzioni politiche li persuadono per lo più non a fare giustizia, ma a raggiungere quella soluzione la quale, anche con danno futuro della collettività, meglio e più presto garantisca l’ordine pubblico. In Italia, noi soffriamo da vent’anni di questa maniera «politica» di risolvere le controversie del lavoro. Se lo spazio disponibile fosse più largo, sarebbe possibile dimostrare di quanto danno sia stato questo metodo al paese. Basti ora citare un solo esempio: quello dell’equo trattamento instaurato da anni per i ferrovieri delle reti private. Se c’è forma politica di arbitrato, è questa; e l’ultimo e più funesto caso di intervento politico si ebbe quando la Commissione dell’equo trattamento, obbedendo alle ingiunzioni del governo, dichiarò che un articolo di legge, il 115, non doveva essere applicato. Sta di fatto che, a furia di condiscendenze politiche, di applicazioni assurde a piccole linee o a tramvie di organici, di salari, di orari tutt’al più consentanei alle grandi linee, una delle più fiorenti industrie italiane, alcune delle reti tramviarie più floride d’Europa e forse del mondo – esempio le tramvie di Milano, che erano tecnicamente ed economicamente l’impresa tramviaria più sana e prospera di tutta Europa – sono state irremissibilmente rovinate. L’equo trattamento, ossia l’arbitrato politico, ha ridotto al fallimento questa industria, un tempo fiorente, ne ha cresciuti i costi in maniera antieconomica e dannosa alla collettività e l’ha trasformata, da strumento di progresso economico per le città popolose e per le campagne non servite dalle grandi reti, in un ricovero di gente malcontenta. Un recente arbitrato politico minaccia di far subire la stessa sorte all’industria elettrica e costringerà a chiudersi molte piccole utilissime centrali a cui si sono applicati gli stessi organici e gli stessi stipendi che potevano essere giustificati in impianti grandiosi di decine di migliaia di cavalli. O non sono tutti elettori alla stessa stregua?
Sarebbe utile che per l’industria metallurgica si seguisse sul serio l’esempio dell’Inghilterra, conclamato e citato spesso, ma per lo più seguito a rovescio. Che cosa ci insegna l’Inghilterra in materia di arbitrati? Che essi riescono ottimamente se l’arbitro non ha l’abito politico, ma invece quello giudiziario. Il grande lodo minerario dell’anno scorso fu dato dal giudice Sankey, il cui rapporto è rimasto un documento storico. L’arbitro deve essere una persona che abbia la mentalità giudiziaria, di colui che cerca la soluzione «giusta», non quella «politica».
Il magistrato ha le attitudini a bilanciare le ragioni dell’una e dell’altra parte, a pesare l’opportunità del momento in confronto alle necessità dell’avvenire. Per lo più, in Inghilterra l’arbitro è scelto d’accordo dalle due parti; ed è accaduto che uomini integri, pratici dell’industria, antichi imprenditori in ritiro o uomini stimati da tutti, sebbene vissuti fuori di quella speciale industria, fossero a gara chiamati dai contendenti a risolvere le controversie del lavoro. Spesso costoro appartengono alla magistratura propriamente detta; ma non sempre. L’essenziale è che il loro abito «giudiziario» sia riconosciuto da tutti. Un ministro od un funzionario è, per sua natura, un cattivo arbitro. L’arbitro ottimo è colui che, per la sua posizione, ha nulla da sperare né da temere da nessuno, né da governo, né da contendenti. In Italia, purtroppo, non abbiamo magistrati pagati 100 o 200 mila lire l’anno, cui nessuna ambizione possa più tangere; ma non deve essere impossibile scoprire l’uomo riconosciuto dalle due parti, o, in mancanza, reputato capace di non ascoltare i consigli del governo il quale l’abbia nominato, capace di fornire un lodo giusto.
Tanto più agevole riuscirà l’opera sua e sovratutto agevole persuadere l’opinione pubblica della giustizia del lodo, se si seguirà un’altra lodevolissima consuetudine inglese: quella dell’inchiesta pubblica precedente al lodo. Il parere del giudice Sankey nella controversia del carbone fu preceduto da un’amplissima inchiesta pubblica, a cui assistevano i resocontisti di tutti i grandi giornali, in occasione della quale deposero industriali, organizzatori operai, imprese consumatrici, economisti, uomini politici. Il problema fu vagliato in tutti i sensi e tanta luce fu fatta che l’arbitro si sentì nella sua coscienza ringagliardito quando suonò per lui l’ora solenne di pronunciare il lodo.
In Italia, v’è gran bisogno che il lodo eventuale dell’industria metallurgica non sia pronunciato dopo segreti dibattiti da un arbitro politico propenso ad un colpo al cerchio e uno alla botte. Si discute se l’industria possa vivere o se sia destinata a soccombere. Si afferma che qualche ramo dell’industria metallurgica vive da parassita a spese degli altri; e gli operai sostengono che non perciò essi debbono adattarsi a salari bassi. È in campo il problema dei consigli di fabbrica, dell’ingerenza degli operai nella gestione industriale. Si può ammettere che decisioni di tanta importanza siano prese da un ministro, preoccupato di ottenere a favore del suo lodo un voto di fiducia dalla camera; e siano prese senza che l’opinione pubblica possa essere illuminata in merito? Industriali e operai liberali e socialisti, conservatori dell’ordine vigente e fautori dell’ordine nuovo, tutti, se sono in buona fede, debbono volere che il grande processo sia condotto con le garanzie di pubblicità e di difesa, di attacco e di replica che sono richieste quando è in giuoco la vita di un uomo. Qui è in giuoco la vita del paese e la sentenza può essere data solo da chi tutto il paese consideri l’incarnazione della giustizia.
V
Il significato del controllo operaio[13]
Si può essere profondamente scettici intorno alla possibilità che il controllo operaio sulle fabbriche venga organizzato in una maniera vitale, utile alla produzione, vantaggiosa all’elevamento materiale e morale delle masse operaie; si può essere dubbiosi sulla possibilità di sostituire l’attuale organizzazione monarchica della industria con una organizzazione a tipo rappresentativo-democratico. Ma chi scrive non ha atteso i giorni torbidi presenti per affermare su queste colonne che uno dei problemi più urgenti del momento era quello di ridare al lavoratore la «gioia del lavoro», perduta nella grande industria moderna. È un problema, questo, non dell’industria capitalistica, ma di tutta la «grande» industria, capitalistica e collettivistica, privata e di stato, imprenditrice e cooperativa. Nella piccola industria casalinga, quando si adoperavano gli arnesi a mano e si era in pochi a collaborare nello stesso laboratorio, l’artigiano vedeva a poco a poco crearsi il frutto della sua fatica, vi si interessava, metteva nel lavoro un po’ della propria anima. Ancora oggi il contadino, il professionista, lo scrittore, l’insegnante ha questa sensazione, vive per il suo lavoro, epperciò lavora con gioia. Nella grande fabbrica, questa sensazione si perde, il lavoratore diventa una piccola ruota in un meccanismo che pare vada da sé. Il guadagno sembra divenuto il solo scopo del lavoro: troppo poca cosa per l’uomo, il quale non vive di soli godimenti materiali. perciò accade che nelle imprese private l’operaio ha l’impressione di lavorare a vuoto, a profitto del capitalista; negli stabilimenti di stato, negli uffici pubblici, nelle ferrovie, nelle poste e nei telegrafi, che sono imprese collettivizzate, di tutti, il lavoratore, l’impiegato si sente oppresso da questo «tutti», entità astratta, che si immagina nemica, e contro cui si elevano rivendicazioni. L’operaio, l’impiegato vuole tornare a sentirsi padrone del suo lavoro, a sapere perché produce e come produce, ad aver voce nella ripartizione del prodotto dell’industria. L’aspirazione è umana, può essere motivo di elevazione morale; è la traduzione nell’industria di un principio ammesso nel governo politico dei popoli moderni. Assoggettarla ad esame critico decisivo è tuttavia difficile, perché trattasi di una aspirazione indistinta, confusa, che non si sa nemmeno come possa essere concretata e se, una volta concretata, sia atta a ridare all’uomo quella gioia nel lavoro che egli sembra aver perduta.
L’idea è tanto indistinta e confusa che essa assume persino un bersaglio sbagliato: il capitale. La confederazione generale del lavoro, quando chiede il controllo sindacale sulle imprese industriali, immagina di chiedere, con ciò, il controllo sul capitale, di voler attuare una limitazione del dominio esclusivo che il capitale esercita nell’industria ad esclusione del lavoro. La realtà è ben diversa. Se noi assumiamo, per un momento, come fattori della produzione il capitale ed il lavoro, dobbiamo subito riconoscere che oggi la vera padronanza delle imprese, la effettiva direzione dell’industria non spetta né all’uno né all’altro, sibbene ad un terzo fattore: l’imprenditore. Il capitale è oggi un servo, sommesso e tacito, che si dà a coloro che hanno saputo inspirargli fiducia e che hanno acquistato fama di capacità organizzatrice. L’imprenditore – si chiami consigliere delegato o presidente del consiglio d’amministrazione, o gerente o padrone – è il vero capo dell’impresa. Gli obbligazionisti, una volta che gli abbiano mutuato i loro fondi al 5%, non contano più nulla. Gli azionisti intervengono alle assemblee degli azionisti per ratificare le proposte e più spesso gli atti compiuti dall’imprenditore. Corrono rischi e partecipano ad alee favorevoli e sfavorevoli; ma non si può dire che esercitino un vero controllo sull’azienda. I «capitalisti» hanno fatto i loro conti ed hanno trovato che tornava ad essi conveniente di aver fiducia nella persona di colui al quale si sono decisi ad affidare i loro risparmi. Essi credono nel regime monarchico assoluto dell’industria; ritengono che il successo dell’impresa si ottenga solo a questa condizione; e, qualunque sia la forma legale, di fatto hanno rinunciato per lunghi o per brevi periodi di tempo al controllo sull’azienda. Dare «carta bianca» all’imprenditore, ossia ad un tecnico, ad un commerciante, ad un uomo è , agli occhi del capitale, condizione di successo della intrapresa.
Quando perciò gli operai chiedono di esercitare essi un controllo, deve essere ben chiaro che essi chiedono cosa alla quale l’altro fattore, il capitale, di fatto non aspira; e chiedono il controllo non sul capitale, ma sull’imprenditore, ossia sul primo, sul capo dei lavoratori. Vogliono sostituire alla monarchia assoluta il regime della democrazia rappresentativa.
È un esperimento grandioso, gravido di conseguenze malsicure, che si vuol compiere. A priori l’economista non può dire che esso sia necessariamente destinato all’insuccesso. Non siamo nel campo dei principii logicamente necessari; bensì in quello delle verità sperimentali. Se anche economicamente esso dovesse condurre ad una diminuzione della produzione, socialmente potrebbe essere utile se favorisse la pacificazione degli animi e una minor tensione di rapporti sociali. Gli operai vogliono vedere come la macchina è fatta dentro, come funziona e quali rendimenti dà , per persuadersi che davvero essi hanno ragione o torto nel chiedere a quella macchina un dato sforzo a loro vantaggio. Si corre, così facendo, il rischio di rompere la macchina ed è perciò necessario che l’esperimento venga compiuto in modo da riuscire fruttuoso e da evitare la rottura della macchina.
Le difficoltà sono davvero formidabili. Le condizioni a cui l’esperimento di controllo dovrà soddisfare sono numerose e non tutte facilmente conciliabili fra di loro. Come organizzare il controllo degli operai sull’impresa senza menomare la libertà e l’iniziativa dell’imprenditore? Il fattore «capitale» ha risolto il problema organizzando accanto all’imprenditore, vero capo ed animatore dell’impresa, consigli di amministrazione ed assemblee degli azionisti, consigli che vedono molto, se non tutto, e danno pareri degni di ascolto, assemblee che di solito vedono soltanto ciò che all’imprenditore e ai consigli piace di dire. Il controllo degli operai, se deve essere serio, deve essere assai più somigliante a quello dei consigli di amministrazione che non delle assemblee degli azionisti. Ma neanche esso deve essere un impaccio, un legame per l’imprenditore. Altrimenti l’impresa è rovinata e con essa la produzione, la quale pare stia in cima dei pensieri della confederazione del lavoro.
Come impedire che il controllo operaio non torni di danno ai terzi, ossia alla collettività generica dei consumatori, che non partecipano ad alcuna industria organizzata? È tanto facile ad operai e imprenditori mettersi d’accordo, sulla base di un rialzo di prezzi a danno dei consumatori! In Germania, pare che questo sia stato uno dei pericoli massimi del controllo dei consigli di fabbrica, pericolo subito veduto e cagione non ultima della rapida decadenza di quell’istituto e del disfavore con cui è guardato dall’opinione pubblica. Badisi che il controllo sindacale aggiunge forza alla tendenza che hanno gli industriali singoli a rivalersi con un rialzo di prezzi di ogni aumento di salari; perché costringe e favorisce la tendenza sindacale nel campo industriale e tende ad uccidere la concorrenza fra impresa ed impresa.
Ancora: il controllo si eserciterà per ogni singola azienda o per industrie, con consigli di fabbrica indipendenti dai consigli di amministrazione o con l’entrata di membri delegati dai sindacati operai nei consigli di amministrazione? In qual modo si manterrà il principio della uguaglianza dei salari nelle diverse intraprese, di fronte ad imprese disugualmente prospere e che devono rimanere tali se non si vuole togliere ogni impulso all’intrapresa a perfezionarsi ed a progredire?
Tutti questi problemi, generali e particolari, non possono con ogni probabilità ricevere una soluzione uniforme per tutti i casi. Una formula legislativa, suggerita lì per lì da un uomo politico e tradotta in articoli di legge da funzionari ministeriali, darebbe luogo a difficoltà forse insuperabili e a crisi gravissime. Qui ha ragione la confederazione del lavoro di voler affidare «ad una commissione, a rappresentanza paritetica, il compito di stabilire in maniera particolareggiata i metodi e i modi di applicazione del principio del controllo delle aziende». Gli interessati, mille volte meglio del governo, riusciranno ad organizzare qualcosa di vitale; e sovratutto riusciranno a trasformare a poco a poco l’istituto, dapprima in forme ed imperfetto, in guisa che esso riesca davvero, se di ciò sarà capace, a favorire nel tempo stesso l’aumento della produzione, lo spirito di iniziativa dell’imprenditore, l’interessamento del lavoratore alla propria fatica e il vantaggio della collettività.
Se compiuto ad opera delle due parti e non per obbligo legislativo, l’esperimento potrà essere iniziato nella industria metallurgica e in quelle imprese di essa in cui il controllo per il numero degli operai interessati trova il suo fondamento logico. In una piccola impresa il controllo è inutile, perché tutto è risaputo e controllato naturalmente; e il padrone è un compagno di lavoro dei suoi operai. Il buon senso e lo spirito di adattamento gioveranno a risolvere problemi di questo genere meglio di qualsiasi norma legale generale. Di questa ambo le parti debbono diffidare. Uno dei fatti più curiosi della legislazione sociale moderna è la rapida decadenza dell’istituto dell’arbitrato obbligatorio nella Nuova Zelanda e nell’Australia. Sorto dapprima a tutela della classe operaia, dopo qualche tempo cominciò ad essere veduto di malocchio dagli operai medesimi, che videro in esso un freno alle loro richieste; sicché spesso oggi è ignorato dalle due parti, le quali preferiscono gli accordi diretti.
L’esperimento fatto all’estero – in Germania, in Austria, in Russia, dicesi in Scandinavia – del controllo operaio dovrebbe essere fecondo di insegnamenti. Perché una sottocommissione nominata dalla commissione paritetica, mentre questa lavora a concretare le norme particolareggiate del principio ammesso in massima, non potrebbe fare una rapida inchiesta in questi paesi non sulle leggi, che è facile procurarsi, ma sul funzionamento effettivo, sui modi di attuazione, sugli effetti? Perché i socialisti reduci dalla Russia non si deciderebbero a rendere di pubblica ragione i risultati dei loro studi sul funzionamento dei consigli di operai nelle fabbriche? Anche se l’ambiente sia diverso, anche se le fabbriche siano collettivizzate, il fenomeno è lo stesso: il controllo degli operai sul capo dell’impresa, su colui che la gerisce per conto dell’ente collettivo proprietario.
In fondo trattasi della ricerca del mezzo più atto a raggiungere un dato fine. Il fine è indubbiamente nobile ed alto: ridare ai lavoratori quella gioia nel lavoro, quell’interessamento a produrre che essi hanno o immaginano di avere perduto a cagione dell’ingrandirsi e del meccanicizzarsi dell’impresa industriale, della concitazione spirituale dovuta alla guerra, del rivolgimento nei rapporti economici fra individuo ed individuo, tra classe e classe verificatosi in seguito allo svilimento della moneta. Gli operai ritengono di aver trovato un mezzo per raggiungere la meta; mezzo provvisorio e preludio a conquiste maggiori. Gli industriali sono scettici intorno alla possibilità di toccare, con quel mezzo, la meta. Ma poiché debbono concordare nel fine, giova che essi tentino l’esperimento con lealtà e con spirito di sacrificio. Se la stessa lealtà ci sarà anche dall’altra parte, l’industria metallurgica si sarà resa benemerita del paese. In materia economica i fatti, i duri fatti soltanto, non le lezioni della scienza, hanno la virtù di persuadere gli uomini.
VI
L’on. Baldesi e il controllo operaio
Uno dei più autorevoli delegati delle organizzazioni operaie nella commissione paritetica, la quale avrà l’incarico di formulare le proposte da sottoporsi al governo per la presentazione di un progetto di legge alla riapertura dei lavori parlamentari, sarà certamente Gino Baldesi, che con l’on. D’Aragona e l’on. Bianchi dirige la confederazione generale del lavoro. Abbiamo perciò creduto interessante farci spiegare da lui i concetti che i dirigenti della confederazione hanno sulla funzione del controllo nell’industria.
– Crede lei – abbiamo domandato a Gino Baldesi – che le speranze affacciate nell’ordine del giorno del consiglio nazionale della confederazione verranno realizzate e che avremo un maggior gettito di prodotti?
– Tutto sta – ci ha risposto – nel come il controllo sulle aziende verrà applicato. Noi ci siamo prospettati – e ci preoccupano grandemente – tutte le difficoltà che i nuovi rapporti presentano. Certamente queste difficoltà saranno grandemente aumentate se gli industriali si sottoporranno al nuovo regime di fabbrica con disposizioni al sabotaggio: insomma, se gli interessi individuali dei capitalisti sopraffaranno quelli collettivi cercando di provocare uno stato di cose che – sia pure artificialmente – procuri una fittizia dimostrazione che il sistema da noi escogitato è contrario agli interessi della produzione, i benefici dei controllo si avranno solo a lunga scadenza; se invece, come si dichiara, anche gli interessati come capitalisti comprenderanno che la rivoluzione avvenuta è l’unica che possa preparare i nuovi tempi, allora gli effetti saranno sensibilissimi.
– Come la confederazione si è decisa ad impostare la battaglia per il controllo?
– Ecco: non e vero che sia stata una decisione improvvisata. Il pubblico grosso – di tutte le classi sociali – ha il gran torto di non leggere e di non interessarsi dei grandi problemi altro che quando essi gli appaiono sotto la forma, direi per spiegarmi, teatrale, di una grande battaglia. Durante la guerra io prospettai sui giornali il bisogno di ricorrere a questa forma di garanzia, impressionato dal vertiginoso arricchimento di chi, precedentemente, appena appena vivacchiava. Tali articoli – naturalmente – passarono inosservati. Al momento della conferenza della pace, Angiolo Cabrini, allora a Parigi, fece conoscere a D’Aragona che occorreva precisare le nostre idee in proposito, e le formulammo in una mozione, che poi non ebbe motivo di essere presentata a Parigi, ma che D’Aragona, convinto quanto me della bontà della tesi, presentò al consiglio superiore del lavoro. Chi si volesse prendere il disturbo di rilegger l’articolo che il nostro segretario generale scrisse su «Battaglie sindacali» del 24 maggio 1919, troverebbe svolti tutti gli argomenti che sono stati – a josa – ripetuti in questi giorni. In quella mozione infatti si dichiarava che era maturo il momento per risolvere il problema della produzione con l’abbandono dei criteri individualistici sin qui prevalenti, e ponendo le industrie e i loro prodotti sotto il controllo delle rappresentanze delle varie classi. La collettività, si aggiungeva, ha diritto di conoscere quali coefficienti intervengano a stabilire o a modificare il rapporto fra produzione e disponibilità di prodotti per il mercato; di intervenire coi suoi organi di controllo per impedire il giuoco della speculazione; di poter giungere infine a stabilire la corrispondenza fra produzione e consumo, in base non già all’instabile iniziativa dei singoli, ma alla conoscenza reale del bisogno dei prodotti. Dopo aver affermato che mediante il controllo collettivo si sarebbero potuti temperare gli egoismi nazionali e le gare per la conquista dei mercati, la mozione concludeva esprimendo il giudizio della confederazione del lavoro sulla necessità assoluta del controllo sia per la più equa ripartizione delle materie prime, sia per la difesa della comunità dai danni della speculazione.
– Lei vede dunque – ha concluso Baldesi – che la richiesta del controllo non era per noi una novità né un’improvvisazione. Gli industriali ci hanno dato modo di presentare il problema nel momento opportuno.
– Opportuno… in che senso?
– Nel momento opportuno della battaglia, perché, come dice la mozione, la maturità dei tempi per questa radicale riforma rivoluzionaria esisteva fino dall’anno scorso. Gli industriali hanno voluto fare, di fronte ai metallurgici, uno sfoggio di cifre, di prezzi, di statistiche ecc. per dimostrare la loro impossibilità di aderire alle richieste della FIOM. Hanno avuto la disgrazia di trovarsi di fronte ad uomini come Buozzi e Colombino, i quali non fanno gli organizzatori con la superficialità dei faciloni, ma sono anche dei veri innamorati dei problemi industriali della meccanica e della metallurgia. Ebbero – gli industriali – le risposte opportune; ma il fatto che le loro cifre servivano ad avallare una tesi senza che la parte avversaria potesse controllarle dimostrava magnificamente che anche per la discussione sui salari da riconoscersi agli operai il semplicismo del passato doveva sparire e lasciare il posto ad una vera conoscenza dello stato delle industrie.
– Come avverrà, a suo parere, il controllo delle industrie?
– Io non posso, per ragioni facili a comprendersi, anticipare giudizi o suggerimenti. È soltanto del fine da ottenere che possiamo parlare. Ed allora il ragionamento è facile. Tutte le industrie vivono in un campo chiuso entro il quale non è facile penetrare, malgrado la pubblicazione dei bilanci, le leggi sulle anonime, ecc. Esse sono insidiate da tutte le malvagità della borsa, dell’alta banca, della speculazione, che non si preoccupa dell’industria come industria, ma solo dell’industria come produttrice di redditi, avvenga quello che si vuole. Nessuno ci potrà negare che, in tutta questa discussione, da parte degli operatori vi può essere che una sola visione: il beneficio della collettività, della quale sono parte preponderantissima i lavoratori. Se noi avessimo chiesto la partecipazione agli utili, allora avremmo potuto essere accusati di voler abolire un egoismo per sostituirlo con uno altro, di gruppo o di categoria. Ecco perché abbiamo chiesto il controllo sindacale. Nei limiti del possibile è certo che il controllo dovrà essere fatto dai lavoratori addetti all’industria, ma il controllo generale non può essere fatto che da organi superiori che hanno la visione d’insieme.
– E crede che in questo modo i lavoratori si assoggetteranno più facilmente alla disciplina del lavoro?
– Anche qui non bisogna esagerare. Noi non siamo dei miracolisti in alcun senso. Purtroppo la guerra ha lasciato una tale psicologia di violenza che non è facile correggere. L’autorità degli industriali è decisamente scossa. Occorre che a questa – per quella parte perduta – si sostituisca un’altra: quella operaia. La disciplina dimostrata in questi giorni nelle officine – salvo piccoli incidenti isolati, dovuti alla situazione – dice da sé quanto rispetto vi sia per questa nuova autorità. Ecco perché abbiamo domandato che la disciplina non sia più alla mercé di un semplice industriale, ma sia controllata dai rappresentanti di fabbrica degli operai. In questa maniera eviteremo che delle sopraffazioni e dei metodi ignobili – mi si permetta la parola perché non ne trovo un’altra adatta – come quello del boicottaggio ai licenziati vengano ancora adottati. E, d’altra parte, gli operai che fossero giustamente puniti sentirebbero maggiormente il peso della punizione perché riconosciuta giusta dai loro rappresentanti.
– Quindi lei vede un riordinamento delle officine, una possibilità di maggior produzione ed un periodo di calma?…
– Io non mi faccio soverchie illusioni. Noi consideriamo la conquista come una tappa di quella trasformazione preparatoria della società avvenire che noi crediamo possibile avvenga gradualmente. Spero moltissimo che la produzione aumenti, specialmente perché avremo modo di stare in vedetta e di osservare se gli sforzi per riassettare lo stato disastroso di cose attuale vanno a beneficio dei pochi furbi o della collettività tanto bisognosa. Se specialmente guardiamo la cosa dal punto di vista rivoluzionario, tanto più ci convinciamo del bisogno assoluto di avere una produzione abbondante.
– Crede che farà buona impressione all’estero questa rivoluzione economica?
– Vi sarà della diffidenza in principio, poi si persuaderanno. Io ricordo che allorché a Washington presentai la mia proposta di controllo internazionale delle materie prime per un’equa distribuzione a seconda della importanza industriale dei diversi paesi, suscitai indignazioni clamorose. Vi fu il rappresentante industriale – il Guerin, morto poco tempo fa – che, nella sua qualità di presidente della confederazione industriale francese, venne in seno alla commissione per la disoccupazione a protestare, dicendo che certe proposte non dovevano neppure essere ammesse alla discussione, per impedire la «deleteria propaganda» che esse esercitavano. Senza farmi impressionare, presentai la mia relazione di minoranza e fui battuto per tre soli voti. Ma la cosa ha fatto strada. Io non ho alcuna fiducia nella conferenza internazionale del lavoro così come è costituita oggi, ma ho potuto constatare che il Bureau si è preoccupato della discussione avvenuta a Washington, e la questione sarà riportata alla ribalta alla prossima conferenza.
– In conclusione?
– In conclusione – ha risposto il Baldesi – io comprendo lo stato d’animo degli industriali che si sentono diminuiti dalla conquista fatta dagli operai. Il tempo – e la facilità di adattamento degli uomini – correggerà tale impressione ed anche le menti dei più tardivi si apriranno ai nuovi tempi e non impediranno che gli operai comincino ad appassionarsi ai problemi industriali, e a prepararsi coscienziosamente al miglioramento della produzione per il bene di tutti.
L’intervista Baldesi, che ho meditato con la maggiore attenzione possibile, mi porta ad una sola conchiusione: che noi siamo ancora in altissimo mare. Mi sembra invero difficile potersi formare un concetto preciso di quello che il Baldesi, ritenuto uno dei più equilibrati uomini della confederazione generale del lavoro, ha in mente come contenuto del controllo operaio. Checché dica egli intorno alla lunga elaborazione del concetto del controllo operaio, intorno alle fasi per cui è passato, una verità esce fuori chiara da quanto egli ha detto: che, anche nella mente dei suoi promotori, il nuovo istituto è fluttuante, privo di contenuto concreto.
Un unico punto fermo si può constatare e questo è negativo: la confederazione del lavoro non vuole che il controllo si identifichi con la partecipazione degli operai ai profitti. Non vuole cioè la collaborazione degli operai con i capitalisti, alfine di dividersi i guadagni dell’impresa comune. L’operaio non deve partecipare all’impresa, ma controllarla per imparare prima a conoscerne il funzionamento per impadronirsene poi.
Siccome l’esperienza prova che il sistema della partecipazione degli operai ai profitti non è stato in generale fecondo di risultati apprezzabili, non mi dolgo troppo della ripulsa di parte operaia. Constato il chiarimento, sebbene negativo, e chiedo: che cosa dunque è il controllo voluto da Baldesi?
Purtroppo gli organizzatori operai, che sono persone assai più forti intellettualmente e moralmente di qualsiasi predicatore di socialismo e di dottrine comuniste, hanno il torto di prendere a prestito la loro fraseologia dai libri di Marx e dei suoi seguitatori; epperciò usano parole ed esprimono concetti dottrinari, lontani dalla realtà , assolutamente incapaci di raffigurare un qualsiasi fatto concreto. Si vede subito che parlano di cose che conoscono solo attraverso ai libri, e per giunta attraverso a libri scritti da gente che di industria, di banca, di borsa non aveva nessunissima nozione concreta.
Baldesi, D’Aragona, Buozzi, Colombino quando parlano di salari, e di questioni del lavoro, dicono cose serie e sono dei tecnici. Quando discorrono di cose che non conoscono, parlano di «coefficienti che stabiliscono o modificano il rapporto fra produzione e disponibilità di prodotti per il mercato, di giuoco della speculazione, di corrispondenza fra produzione e consumo, in base non già all’iniziativa dei singoli, ma alla conoscenza reale del bisogno dei prodotti; di insidie della borsa, dell’alta banca, della speculazione che non si preoccupa dell’industria come industria, ma solo dell’industria come produttrice di redditi». È il balbettio del laico, il quale fa i suoi primi passi in una terra incognita. Baldesi fa uno sforzo meritorio per esprimere un concetto, ma questo gli vien fuori in parole, di cui il significato concreto è nebuloso.
Se mi volessi provare ad esprimerlo con altre parole, forse improprie, ma chiare, almeno ai miei occhi, direi che il controllo operaio si può esercitare su tre momenti del processo dell’impresa economica:
a) Il primo momento è quello che finisce con l’entrata della materia prima nello stabilimento. Ricerca, acquisto della materia prima, dei combustibili, delle macchine ecc., dibattito e fissazione del prezzo d’acquisto.
b) Il secondo momento è quello della lavorazione, ossia della trasformazione della materia prima in prodotto finito, od almeno finito da quella impresa.
c) Il terzo momento è quello della vendita del prodotto e dell’incasso del prezzo.
Molti industriali, quando hanno sentito parlare di controllo, si sono immaginati che esso si dovesse riferire solo al secondo momento. Posto che la materia prima e gli altri fattori della produzione costano, ad ipotesi, 10, mentre il prodotto finito si vende a 20, molti industriali immaginarono che gli operai volessero controllare come era spesa la differenza; che cosa costava in realtà la trasformazione, quanto sui 10 di differenza andasse all’operaio a titolo di salario, quanto al capitalista a titolo di interessi, quanto ad ammortamenti ecc. ecc.
No, risponde Baldesi, non sperate di cavarvela così a buon mercato. Noi vogliamo anche sapere se sia vero che comprate a 10 e vendete a 20, e perché voi avete accettato quei due prezzi. Perché noi abbiamo fondato motivo di credere che voi imprenditori talvolta o spesso paghiate 10 ciò che potevate avere ad 8, e vendiate a 20 ciò che potevate vendere a 22. A voi conviene, come industriali, guadagnar poco, perché così potete sottrarre il resto al fisco, a noi operai, alla collettività. Il resto, che è la parte migliore dei vostri guadagni, voi lo intascate mercé abili trucchi di banca e di borsa. Noi vogliamo scoprire questi trucchi; vogliamo mettere le carte in tavola. Vogliamo conoscere tutto e non una parte sola dell’industria. Vogliamo un controllo completo, dall’a alla zeta.
Prima di procedere innanzi nell’analisi del concetto del controllo operaio, sarebbe interessante sapere se questa traduzione in termini volgari, che io mi permetto di qualificare termini economici esposti nel linguaggio ordinario, corrisponda precisamente a ciò che aveva in mente Baldesi. Io immagino di si; ma quando ci si trova di fronte ad uno che, senza sua colpa, usa la fraseologia marxistica, non si sa mai se si è capito bene o male. Per oggi, dunque, faccio punto.
VII
La trasformazione della Fiat in cooperativa?
Poiché tutti ne parlano, della progettata trasformazione della Fiat in una impresa cooperativa, giova esaminare anche qui il problema. Un articolo dell’«Avanti!» contiene dati che per lo studioso sono di interesse notabile. Il giornale socialista così descrive il capo della grande impresa torinese:
«Prima dell’aprile scorso egli aveva fama di essere liberale e molti ricorderanno che gli altri industriali a lui e alla sua condiscendenza davano la colpa dello sviluppo preso e della libertà conquistata dalle commissioni interne e dai commissari di reparto. Nella presente agitazione egli fece aspro lamento per la neutralità del governo, ma poi è stato dei più condiscendenti alle ultime richieste operaie. Di solito è facile a transigere su questioni di denaro, restio a cedere su questioni di autorità e di potere. Come organizzatore di aziende produttive egli è stimato dai suoi stessi operai. Come finanziere ha fama di essere privo di scrupoli».
Se questo ritratto non è scritto di maniera – e non essendo il dubbio importante per l’argomento, si può ammettere in via d’ipotesi che esso raffiguri l’uomo, quale almeno lo vedono gli operai – si comprende l’offerta che egli ha fatto ai capi del movimento. Egli è
«animato sovratutto da un grande amore per la sua azienda, nella quale egli sente di aver dato vita a un’impresa che racchiude in sé enormi possibilità di sviluppo. La Fiat potrà diventare una firma (ditta) mondiale, potrà imporre nel mercato i suoi prodotti, potrà , quel che più conta, dare per la prima volta in Italia un esempio di organizzazione industriale moderna e perfetta».
Dopo l’espressione giustificata d’orgoglio per l’opera compiuta in passato, i timori per l’avvenire.
«La sua azienda – è sempre l’Agnelli che parla, nel rendiconto dell’«Avanti!» – dato il progressivo diffondersi tra le masse dell’idealità rivoluzionaria e dato sovratutto che queste idealità assumono per le masse la concreta forma della conquista della libertà e del governo di sé in fabbrica, non può più essere retta con metodi autoritari e secondo le norme del regime capitalistico. Da alcuni mesi a questa parte, per quanti sforzi abbiano fatto, i dirigenti la Fiat sono stati assillati dall’incubo di avere in officina alcune decine di migliaia non di collaboratori, ma di nemici».
Di qui, la via di uscita immaginata dall’Agnelli. Egli crede che
«tentando un esperimento di gestione collettiva, in forma cooperativa, la crisi sarebbe superata, gli operai tornerebbero ad essere dei collaboratori e la Fiat potrebbe riprendere il suo cammino ascensionale».
Altri imprenditori, oltre l’Agnelli, hanno accarezzato il nobile sogno di trasformare la propria impresa in guisa da renderne padroni tutti coloro che ad essa prestano la loro opera. Credo di non essere il solo tra gli studiosi di economia il quale, dall’armistizio in qua, sia stato pregato di fornir consigli e dati ad imprenditori desiderosi di dare una parte gradualmente crescente agli operai nella loro fabbrica. Per lo più sono domande ingenue di uomini, i quali credono fermamente di aver trovato il modo di diventare i collaboratori e gli artefici del benessere dei propri operai; e grandemente si stupiscono se gli studiosi interrogati o non rispondono o dichiarano la incapacità propria di dare un consiglio sensato per la mancanza di una conoscenza profonda dei precedenti, delle persone, dell’ambiente. Perché, se la cosa è bella, non farla subito?
Bella sì, ma estremamente difficile. Coloro i quali stanno trattando con l’Agnelli hanno messo innanzi un mondo di difficoltà.
Non siamo noi chiamati, dicono gli organizzatori operai, a rendere un servigio al capitale, quando questo è prossimo a morire. Perché dovremmo promettere agli azionisti della Fiat un interesse fisso, più una eventuale partecipazione agli utili, quando, continuando la lotta, noi possiamo sperare, anzi, per la debolezza della borghesia e del governo attuale che la rappresenta, abbiamo la certezza di potere conquistare l’azienda senza dar nulla agli attuali proprietari? Le condizioni di cessione dovrebbero essere tali da costituire un buon miraggio per le maestranze. Gli industriali non devono pretendere di liberarsi dall’incubo di eventuali requisizioni ed occupazioni, facendo contemporaneamente un buon affare; è troppo comodo. In altre parole, gli operai sperano di potere svalutare ancor più l’impresa; possibilmente ridurre a zero il valore delle azioni. A questo punto essi forse si deciderebbero a comprar l’azienda per un boccon di pane. Oggi è troppo presto.
È dubbio se, anche allora, gli operai troveranno conveniente di fare l’acquisto. Come procurarsi gli 8 a 10 milioni alla settimana necessari per le paghe e per gli acquisti? Come mettersi in grado di pagare le enormi imposte sui sovraprofitti di guerra in un momento in cui nessuna azienda possiede alcun capitale liquido, tutto è stato immobilizzato e l’avvenire si presenta incerto? Trattasi, per talune grandi aziende, di decine e di centinaia di milioni, che non si potranno ottenere se non facendo ricorso al credito. Si troveranno banche disposte a far mutui allo scopo di pagare imposte? Quale seguito si potrà dare agli affari con l’estero, specie in un momento in cui una dopo l’altra giungono notizie terrificanti di rifiuti di continuare crediti dianzi aperti, in cui un ente solo, l’Istituto laniero, si vede sospesa una apertura di credito già intesa, per 1.200.000 lire – sterline, ossia per 100 milioni di lire? Siamo noi sicuri di poterci procurare le materie prime? Sovratutto siamo noi, organizzatori ed uomini politici del socialismo, sicuri che la trasformazione delle maggiori imprese in cooperative non finisca di rompere la solidarietà operaia, non crei gruppi di operai privilegiati, aventi interessi contrari al resto delle masse? È un’insidia codesta offerta, per salvare dalla rovina gli avversari e rompere la nostra unità di fronte.
È chiaro che in un ambiente siffatto, in cui si preferisce sprofondare insieme nell’abisso, pur che l’avversario non si salvi, l’esperimento cooperativo non può riuscire. Nei pochi casi in cui esso ebbe felice esito, i suoi iniziatori seppero darvi principio innanzi che si affermasse lo spirito di discordia e di antagonismo. Pionieri, a mano a mano che lo stabilimento si ingrandiva, costrussero case operaie, asili per i lattanti, scuole, chiese, istituirono sistemi di partecipazione per gli operai scelti; crearono attorno a sé un nucleo di collaboratori fidati, tetragoni alla propaganda d’odio. Appoggiati su di essi, poterono alla fine applicare su più vasta scala metodi di azionariato operaio, di controllo e di governo rappresentativo. Elemento essenziale del successo: la fiducia reciproca, la consapevolezza di tutti che vi era un fine comune da raggiungere e che la discussione e l’accordo erano i mezzi adatti all’uopo.
Tutto ciò non si fece in Italia, prima perché innanzi alla guerra il pericolo non era veduto e troppo pochi gli imprenditori capaci di vedere chiaro nell’avvenire; dopo, perché l’impetuosità degli avvenimenti imponeva di far presto, di chiamare attorno a sé moltitudini al solo scopo di produrre e di produrre in fretta. Ed ora è impossibile creare in fretta l’ambiente favorevole alla riuscita di uno sperimento, il quale poggia tutto sulla buona comprensione reciproca, sulla certezza della buona fede nella lotta e nella discussione.
Del resto qualunque altro sperimento, anche quello del controllo, suppone, per riuscire, che gli avversari lottino per raggiungere almeno il vantaggio della cosa comune intorno a cui vi è contesa. Oggi lo stato d’animo favorevole ad un leale esperimento di cooperazione e di controllo comincia ad esistere soltanto dalla parte padronale. Per essere sincero, debbo confessare che trattasi di uno stato d’animo nuovo, imposto dalla necessità. Temono il peggio, la rovina assoluta; e cercano di salvare almeno qualcosa. Ma finora non trovano dall’altra parte un uguale stato d’animo. Da parte operaia si vuole la conquista assoluta. Il controllo è solo un mezzo per ottenere il tutto.
Se lo stato d’animo non muta, il risultato sarà fatalmente la rovina di ambo le parti. Ho già detto, ripetuto e debbo ripetere ancora essere una stranissima illusione credere che la lotta odierna si combatta fra capitale e lavoro. Il capitale si adatta a qualunque condizione: a riscuotere un dividendo incerto, un interesse fisso, con o senza partecipazione agli utili, a lasciar deliberare il dividendo o la partecipazione da consigli in cui sia rappresentato il lavoro, in cui il lavoro abbia persino la maggioranza. Purché ciò gli sia consigliato da uomini in cui possa avere fiducia, il capitale non pone questioni pregiudiziali. La lotta vera è tra capi e gregari, tra organizzatori ed organizzati. In Italia vi sono alcune poche dozzine di persone – e forse è una esagerazione enorme parlare al plurale di dozzine – capaci di dirigere le grandissime imprese di carattere mondiale e vi sono alcune poche migliaia di persone capaci di dirigere le buone imprese nazionali. È perfettamente inutile di volere prendere per il collo costoro e di volere costringerli a prestar la propria opera a favore delle antiche loro imprese conquistate dalle masse. Il mondo è largo; e gli esperimenti comunistici si fanno in un piccolo angolo di questo mondo. Chi ha vere capacità di organizzatore troverà sempre modo di farsi valere in modi che siano piacevoli per lui; e non ha alcun bisogno di sottostare alla volontà altrui. Uno strappo violento dalle antiche consuetudini è preferibile ai suoi occhi all’agonia lenta della subordinazione continua ai voleri di chi egli considera a sé inferiore per capacità. Il dilemma è chiaro. O le masse operaie, inebriate dalla vittoria, costringeranno alla fuga i capi, i creatori delle imprese esistenti e gli ideatori delle imprese nuove ed esse avranno invano conquistato la fabbrica. Edifici, macchine, tecnicismo, denaro sono nulla se manca chi sappia organizzare tutto questo, imprimer fiducia al «nuovo» capitale – del vecchio capitale fra cinque o dieci anni non esisterà più traccia – e scoprire le vie dell’avvenire. I salari dovranno fatalmente ribassare, anche se su di essi non si eserciti più lo sfruttamento del padrone; il numero degli operai dovrà diminuire. In pochi mesi, o in alcuni anni, questa è la sorte ineluttabile delle fabbriche, in cui manchi il capo.
Ovvero, le masse si persuaderanno che l’esperimento della impresa cooperativa o collettiva va fatto con lealtà, con spirito di fiducia reciproca; e può darsi che in tal caso si avveri il pronostico di Agnelli e che l’Italia dia al mondo un esempio di impresa moderna conquistatrice di mercati e feconda di benessere mai più veduto a tutti i suoi collaboratori. L’esperimento, difficilissimo, merita di essere tentato, perché all’infuori di esso non si vede che miseria e rovina; ma tentarlo non si può, se ad esso non presiede un leale spirito di collaborazione.
VIII
Le dimissioni dei dirigenti e l’emigrazione dei giovani
Non so se le dimissioni del cav. Agnelli e dell’ing. Fornaca da amministratore delegato e direttore generale della «Fiat» siano destinate a tradursi in atto. L’intenzione di dimettersi, che dalle notizie dei giornali pare reale e seria, è da sola un fatto grandemente significativo. Un prossimo manifesto dei comunisti paragonerà le dimissioni dei due capitani d’industria, le trattative di trasformare la grande azienda torinese in una cooperativa operaia, le offerte moltiplicantisi di altri industriali di cedere le loro imprese, alla grande emigrazione dei nobili e degli ecclesiastici dinanzi alla rivoluzione francese. Non so se il paragone storico sia valido; ma certamente è possibile che la fuga degli uomini, i quali oggi si trovano a capo delle grandi organizzazioni industriali, assuma proporzioni rimarchevoli. La frase di Agnelli: «Così non si può andare innanzi; non si può governare una grande impresa quando i suoi 25.000 operai guardano ai capi come a nemici», fotografa lo stato d’animo di migliaia di dirigenti delle industrie italiane. I discorsi che si sentono fare, le lettere che si ricevono tradiscono l’angoscia e la preoccupazione dell’avvenire. Non i mediocri pensano e parlano così; e neppure coloro i quali ottennero più facili guadagni durante la guerra. Per lo più costoro non hanno gravi responsabilità; non hanno impiantato industrie rischiose e non vi sono legati dal possesso di un forte capitale fisso. Nel commercio è facile liquidare le rimanenze di merci; ed in un periodo di prezzi crescenti è anche facile liquidarle vantaggiosamente. Gli angosciati sono coloro i quali hanno dato prova di vere qualità creative: impiantando stabilimenti complessi, eccitando ed usufruendo invenzioni tecniche, applicando nuovi processi produttivi e sovratutto organizzando l’impresa, ossia tessendo una vasta rete di rapporti di compra e vendita e di credito all’interno ed all’estero. Essi, che sentono e sanno di aver creato l’organizzazione, ossia l’essenza ed il tutto dell’impresa, non sono più sicuri di poterla conservare. A torto od a ragione, essi temono di vedere distrutta questa che fu l’opera e lo scopo della loro vita; la videro crescere per virtù della loro iniziativa e con l’aiuto di pochi fidi collaboratori; né hanno fiducia che questa ricchezza immateriale, ben più preziosa di qualunque ricchezza materiale, possa serbarsi quando ad essi si sostituisca un governo rappresentativo a base di consigli o di controllo di impiegati e di operai. Poiché la fiducia non si impone, essi tentano di fare ciò che tutti fanno dinanzi al pericolo della cancrena: tagliano il braccio, pur di salvare il corpo. Finché l’impresa non è distrutta, finché esiste ancora l’organizzazione viva e funzionante, finché quella rete di rapporti commerciali e creditizi non è rotta, essi la offrono in vendita. Soffriranno una grave perdita, forse della metà di quanto l’impresa valeva quando l’avvenire non pareva così fosco, forse i due terzi od i tre quarti di quanto essa potrebbe valere oggi se tutti i fattori di produzione collaborassero insieme alla vittoria; ma è meglio perdere la metà od i tre quarti che perdere tutto. Essi prevedono che domani, instaurato il controllo operaio e cresciute con esso le cagioni di attrito fra dirigenti ed operai, il reddito netto dell’impresa cadrà a zero ed il valore capitale ne diverrà nullo. Perciò si dimettono ed offrono in vendita la loro impresa. Forse essi non riusciranno a vendere; ma il ritardo, se li danneggerà, non gioverà agli altri: comprare a zero o conquistare un’impresa rovinata ed a cui occorre rifare un avviamento, ricreare una organizzazione è sempre un pessimo affare. Nove volte su dieci riuscirono bene coloro i quali comprarono a prezzi che ad altri sembravano stravaganti, e fallirono coloro i quali si lasciarono attirare dal vile prezzo d’acquisto.
Ma le dimissioni degli attuali dirigenti non sono l’aspetto più preoccupante del momento presente. Molti di essi hanno passato la cinquantina, moltissimi la quarantina. Non da essi l’Italia poteva aspettarsi le «nuove» opere creative. Lo stato d’animo più pericoloso è quello che si va creando nelle zone giovani, dai venti ai trentacinque ed ai quarant’anni, in coloro che hanno ancora un avvenire dinanzi a sé. Ai vecchi ed agli uomini maturi spesso non rimane che rassegnarsi al fato: sono energie rotte, che non daranno più quanto da essi poteva sperarsi. Non credo alle critiche di pessimo gusto letterario contro i vecchi, vedo mirabili cose farsi da uomini avanzati in età, epperciò dico che questo è un danno gravissimo. Minore però della emigrazione dei giovani, la quale minaccia fra qualche tempo di lasciare il nostro paese privo di una classe dirigente energica, intraprendente, coraggiosa. Prima della guerra l’Italia era un paese di emigrazione povera, di braccianti, di contadini illetterati, che si spargevano per il mondo a compiere le umili fatiche che altri popoli spregiavano. A gran stento da questa emigrazione povera usciva un’eletta di uomini che giungevano alla fortuna e riuscivano a dar lustro al nome italiano. Non avevamo, come l’Inghilterra, come la Francia, come la Germania negli ultimi anni, una emigrazione di gente scelta, di giovani appartenenti alle classi commerciali, industriali e proprietarie, che avessero fin dall’origine il proposito di creare all’estero imprese collegate con quelle della madre patria ed intese a propagare per il mondo l’influenza del paese d’origine. Non l’avevamo e dicevamo che questa era per noi una gran disgrazia.
Forse, un gran mutamento si sta oggi verificando. A gara, i partiti socialista e cattolico predicano agli operai ed ai contadini di non emigrare. Bisogna rimanere in paese, per strappare al governo ed alla borghesia i salari più alti che un tempo si cercavano all’estero. Bisogna impadronirsi dei campi e delle officine, per porre fine allo sfruttamento del capitale e tenere per sé tutto il frutto del proprio lavoro. In fondo, sotto alla predicazione, c’è il movente elettorale di non lasciarsi sfuggire voti. Ed è probabile che i voti siano quelli di malcontenti, perché, se davvero l’emigrazione in Italia fosse soppressa quella emigrazione che in certi anni sfollava il mercato del lavoro di ben 500.000 persone – in non molti anni la produttività marginale dei rimasti in patria scenderebbe per modo da controbilanciare di gran lunga quel qualsiasi ipotetico – assurdo ed inesistente in realtà , e qui ammesso solo per non fare una digressione – guadagno che venisse dalla abolizione del profitto del capitale. Quanto meno agirà la valvola di sicurezza della emigrazione delle masse, quanto più i partiti organizzati riusciranno a tenere stretti attorno a sé i propri elettori aizzandoli alla appropriazione degli strumenti materiali della produzione, tanto più si accentuerà l’emigrazione scelta, dei giovani appartenenti alle classi dirigenti.
Ci sono al mondo ancora molti paesi in cui l’avvenire è sicuro e promettente per coloro che hanno iniziative, coraggio, qualche capitale iniziale e molta volontà di lavorare. I figli degli industriali pensano e progettano e cominciano a decidersi ad iniziare la loro carriera all’estero. Persino la Francia tende a divenire un paese di immigrazione per gli italiani che credono di avere le qualità per organizzare qualcosa. Siamo appena ai primi inizi; ma parmi utile prevedere il male, del quale nessuno è più preoccupante per l’avvenire del nostro paese. A chi mai, tra gli insegnanti, era accaduto prima d’ora di sentirsi chiedere notizie sulle grandi scuole estere? E non, come prima accadeva, da giovani laureati, desiderosi di perfezionarsi alla scuola dei maestri della scienza, per ritornare in patria ad occupare una cattedra; ma da genitori ansiosi di dare ai figli una educazione forestiera, per metterli in grado di sostenere la lotta per la vita in paesi ai loro occhi più sicuri dell’Italia?
Il sociologo può osservare che alla fuga dei giovani delle classi colte, anche dei più energici ed attivi di essi, suppliranno i migliori giovani temprati alle lotte operaie. Tra i commissari di fabbrica vi sono uomini che sapranno reggere il bastone da maresciallo di direttore della «Fiat» in regime cooperativo o comunista. Può darsi; sebbene l’esperienza di regimi consimili provi che fino ad ora le tempre più salde e le capacità più alte si sono abbattute dinanzi allo spirito ugualitario ed invidioso delle organizzazioni cooperative. Non si può tuttavia non rilevare fin d’ora un fatto: che, prima della fuga dei capitani d’industria, erasi già delineata da qualche tempo una singolare fuga degli elementi migliori fra gli operai della grande industria. Gli uomini più riposati, amanti del lavoro, dotati di qualche spirito di previdenza, non amano, anche se sono operai, il tumulto continuo, le interruzioni del lavoro, i comizi ed i discorsi. Quietamente, ad uno ad uno, non pochi di essi se ne sono andati: con un piccolo peculio hanno fondato un minuscolo laboratorio, eserciscono una bottega, sono ritornati alla terra. Sarebbe interessante compilare una statistica delle piccole intraprese sorte in questi ultimi anni, intraprese familiari, di cui il capo cerca di non aver nessuno alle sue dipendenze e di trattare direttamente con una sua particolare affezionata clientela. Sebbene si sia all’inizio, il movimento è abbastanza eloquente ed importante perché non debba essere avvertito. Quale sarà l’avvenire della industria italiana, priva dei suoi attuali dirigenti e dei suoi lavoratori migliori?
IX
La definizione giolittiana del controllo operaio
Se v’era chi cercava, per carità di patria, di illudere se stesso colla speranza che dal controllo operaio potesse uscire un po’ di bene, questi si deve ricredere leggendo i progetti che la confederazione generale del lavoro ha presentato alla commissione paritetica incaricata dal governo di far proposte utili alla compilazione del progetto di controllo da presentarsi al parlamento. L’on. Giolitti, colla sua consueta aria sorpresa ed ingenua, ha detto a non so quale corrispondente di giornali americani:
«Gli operai italiani vogliono la rivoluzione, vogliono impadronirsi della gestione delle fabbriche? Mai più. È tutto un equivoco derivante da un errore di vocabolario. Voialtri, in inglese, adoperate la parola “controllo” per indicare “padronanza” “predominio”; noi la usiamo nel senso di “verifica”. Gli operai italiani sono dei buoni diavoli, che vogliono soltanto verificare i conti per vedere se sono pagati abbastanza. Il “controllo” che noi vogliamo dar loro è un mezzo per persuaderli a lavorare tranquillamente, nella certezza che ad essi non è tolto nulla di quanto le condizioni dell’industria consentono di dare».
È naturale che parli così un uomo di governo, il quale ha trascorso la sua vita nelle amministrazioni pubbliche; la cui mentalità – a quanto si può giudicare dagli atti e dai discorsi – è profondamente ripugnante all’industria ed al commercio; il quale, sempre a giudicare dagli atti e dai discorsi, ha verso la banca e la borsa la diffidenza istintiva del funzionario tradizionalista. È naturale, perché i due progetti della confederazione del lavoro, se fossero attuati, incamminerebbero l’industria italiana verso il tipo di quell’amministrazione pubblica, la quale deve parere la forma naturale di vita a quanti ci nacquero o ci vivono dentro. Che male ci può essere, sembra dire l’attuale primo ministro, a fare nell’industria ciò che si fa ogni giorno, correntemente, nei ministeri romani? Se vogliamo che tutta l’industria italiana diventi qualcosa di simile a quello che oggi sono le ferrovie, le poste, i telegrafi ed i telefoni di stato; se crediamo che l’ideale della perfezione siano questi bei gioielli burocratici, battiamo le mani alla confederazione. Se invece si crede che su quella via si vada alla perdizione, gridiamolo alto finché si è in tempo. Abbiamo tanto più diritto e dovere di gridarlo noi che, nelle competizioni fra capitale e lavoro, non abbiamo mai, pur riferendo obiettivamente le ragioni dell’una o dell’altra parte, pronosticato la rovina dell’industria per semplici questioni di paghe o di denaro. Oggi diciamo che è dovere dell’opinione pubblica reagire ad un progetto così dissennato, anche se gli industriali, per amor del quieto vivere e di qualche cosa che diremo in seguito, l’accettassero. Ne vanno di mezzo l’industria e l’intiera economia italiane, che sono qualcosa di più degli interessi momentanei dei singoli industriali italiani.
Il progetto, voluto da un governo che non sapeva di che cosa si trattasse, col pretesto della pacificazione sociale, organizza la discordia. Gli uomini della confederazione e del socialismo si sono infatti accorti subito che se il controllo fosse stato compiuto soltanto, come doveva essere, dai veri interessati, ossia dagli operai, tecnici ed impiegati della ditta, avrebbe forse finito di creare una certa solidarietà di interessi fra salariati ed impresa, da cui il salario era pagato. In mano di industriali intelligenti e di operai laboriosi, poteva il controllo fornire occasione ad utili intese intorno all’intensità del lavoro ed alla scelta di metodi di rimunerazione; eccitanti, con vantaggio di tutti, ad una produzione più intensa. Il risultato non si sarebbe sempre ottenuto; ché qualunque forma di partecipazione ai profitti, anche indiretta, è di difficilissima attuazione. Ma il «pericolo» del successo in qualche caso sussisteva. Col pericolo del successo ne nasceva un altro: che nelle imprese prospere per l’intesa ottenuta fra capitale e lavoro, i lavoratori, costituenti necessariamente una categoria scelta, vedessero la necessità di separare le loro sorti da quelle degli avventizi, degli instabili, di quelli che non si trovano mai bene in nessun posto, dei turbolenti seminatori di zizzania. Il controllo avrebbe forse indotto il nucleo vecchio e stabile dei lavoratori della fabbrica a prendere provvedimenti atti a non dare ingerenza alcuna nella lavorazione all’elemento instabile e ad eliminare spietatamente gli inetti e i disturbatori.
Bastò la visione di questo «pericolo» per indurre la confederazione ad approntare la difesa. Il controllo non deve essere esercitato dagli operai della fabbrica. Esso deve essere essenzialmente un affare «sindacale». È inutile ripetere i particolari che ognuno ricorda. Attraverso il paravento di elezioni, che ognuno sa come siano manipolate, è il sindacato che presenta candidati suoi, anche estranei allo stabilimento, per l’elezione a sindaci di azienda; è tra fiduciari designati dai sindacati che i sindaci devono eleggere i membri della commissione superiore di controllo. Tutti gli affari della ditta, non solo quelli attinenti alla lavorazione, ma anche la corrispondenza, i rapporti bancari, i rapporti tra soci, devono essere squadernati dinanzi agli occhi di questi agenti del sindacato, ossia di uomini spesso estranei alla ditta, che non hanno nessun interesse comune con essa, che forse sono salariati di ditte concorrenti. È gran mercé se sono comminate penalità contro la propalazione di segreti industriali; penalità prive di sanzione, che non si saprebbe come applicare. Forseché del resto l’organizzazione stessa, i nomi dei fornitori e dei clienti, i metodi di concludere gli affari non sono spesso segreti più preziosi dei segreti stessi di fabbrica?
Se l’eleggibilità a sindaci operai fosse stata riservata agli operai di azienda, agli impiegati aventi una notevole anzianità di servizio presso la ditta, forse il controllo poteva funzionare meno peggio e talvolta con qualche utile risultato. Col sistema proposto dalla confederazione saranno i chiacchieroni quelli che diverranno sindaci, o saranno estranei venuti in reputazione per la loro attitudine a condurre lotte operaie. Dico che lottare si deve; ma che le attitudini alla lotta non sono quelle che servono per scegliere i sindaci. E concludo perciò che necessariamente il controllo aumenterà le discordie, moltiplicherà i pretesti di sciopero, renderà angustiante la vita dei capi delle imprese industriali. Né poteva essere altrimenti, quando si pensi che i dirigenti della confederazione sono stati mossi, nel loro progetto, esclusivamente dalla brama di non lasciarsi sfuggire anzi di crescere il proprio dominio sulle masse.
X
Assunzione e licenziamento nelle industrie
Per rendere il dominio dei dirigenti sindacali infrangibile, un altro progetto della confederazione vorrebbe regolare l’assunzione e il licenziamento del personale in guisa da togliere ogni facoltà di scelta all’industriale e da obbligare questo a lavorare coll’aiuto di persone da lui non scelte ed anzi da lui non volute e magari ritenute incompatibili con la propria persona o con quelle dei dirigenti. Obbligatorio un registro degli aspiranti all’entrata nello stabilimento; scelta fatta per ordine di iscrizione, non dall’industriale, ma attraverso ad uffici di collocamento gestiti dai sindacati operai; obbligo dell’industriale di dimostrare che se un tale aspirante è stato rifiutato a vantaggio di altri, lo fu solo per motivi tecnici, non personali o politici o sindacali. I licenziamenti saranno contestabili dalla rappresentanza del personale; se non ammessi, ricorso alle organizzazioni di amendue le parti. Che se queste non riusciranno a mettersi d’accordo, è legittimo indurne che il licenziato, salvoché colpevole di furto, truffa od altro reato comune, avrà diritto di rimanere al suo posto; magari a fare il cassiere o a coprire una mansione di fiducia, sebbene la fiducia manchi completamente.
Tutto ciò potrà andar bene in una pubblica amministrazione, dove si sa che l’impiegato, a meno che sia conclamato assassino e condannato all’ergastolo, ha diritto di non essere mandato via dal suo posto. Per questo motivo i ferrovieri sono passati da 90 a 200.000 e la resa del lavoro nei pubblici uffici è bassissima. Se la confederazione del lavoro vuole gerire l’industria in questo bel modo, accetti l’offerta della cessione di grandi aziende a cooperative. Provi e veda quali saranno i risultati. Ma pretendere che gli industriali geriscano le imprese con la corda al collo, sopportando essi i rischi e le perdite della gestione, senza avere alcuna libertà di movimento, è pretendere l’impossibile.
Il progetto, seguitando, burocratizza l’industria. Ho sempre avuto, insieme con una profonda diffidenza verso gli uomini i quali scelgono la via del socialismo come la più facile per fare una carriera politica superiore ai propri meriti, una altrettanto istintiva stima per gli uomini che si elevano dalle file degli operai e ne diventano i capi, rimanendo nel mestiere come segretari delle loro leghe o camere del lavoro. È una stima ereditata dallo studio della storia del tradeunionismo inglese e confermata dalla lettura di parecchi rapporti e giornali scritti dai capi del nostro movimento operaio. Credo di essere stato tra i primi a segnalare su queste colonne i rapporti di Rigola. Dinanzi al progetto odierno però, questa stima, innata nello studioso di fronte alle cose serie scritte rudemente da uomini del mestiere, è costretta a venir meno. Non c’era bisogno di essere a capo di una grande organizzazione operaia per compilare un progetto che sembra il parto faticoso di uno studente a cui sia stato assegnato il compito scolastico di descrivere come deve essere organizzata la produzione in regime socialista.
Come! Gente la quale deve essere passata attraverso alle cose di questo mondo con gli occhi bene aperti, immagina sul serio che si possa aumentare la produzione accumulando rapporti sui prezzi di costo, metodi di produzione, quantitativi di produzione, statistiche sui consumi, ecc.?
Evvia! Mai in Italia si accumularono tante carte e tante statistiche negli uffici governativi come da quando la burocrazia italiana pretende di dirigere essa la produzione e il consumo; e mai si produsse meno e si consumò peggio e a più caro prezzo. Il progetto della confederazione è lo schema secondo cui il perfetto burocrata immagina debba avvenire la produzione: carte, cifre, statistiche, prudenza nel non produrre più del richiesto dal consumo, conoscenza dei metodi usati dagli altri, ecc. Così avviene il lavoro in un ufficio governativo; ma così non avviene nella libera industria dove si produce e si lavora sul serio; dove si procede per intuito e per telegrafo; dove le notizie e i dati, quando arrivano allo stadio di essere messi per iscritto e pubblicati e mandati ad una commissione superiore di controllo o ad un consiglio superiore del lavoro, sono roba da museo storico. Interessantissimi dati per fermo; ma interessanti per lo studioso che indaga il passato, non per l’uomo d’affari che in ogni momento bada all’avvenire.
E qui viene, fatalmente, il coronamento supremo dell’edificio. Dopo tante statistiche, dopo tanti studi sui dati industriali, che davvero la commissione superiore di controllo debba assistere impassibile allo scempio che della gente senz’arte né parte voglia fare dei risultati ottenuti? Essere riusciti a dimostrare che di operai ce n’è abbastanza, che di roba se ne produce a sufficienza per poterla vendere ad un prezzo capace di dare un equo salario al lavoratore, e d’un tratto vien fuori un qualunque screanzato, che, senza aver fatto nessun esame, senza aver riportato alcun diploma, mette su un nuovo opificio e manda all’aria dati, statistiche, costi, salari e prezzi! Mai non sia consentita tanta offesa alla sapienza della commissione «superiore» di controllo.
«Tutti coloro – dice il progetto – che dopo due anni dalla entrata in vigore della legge sul controllo individualmente o in forma associativa intendono intraprendere qualsiasi lavorazione industriale, dovranno rivolgere domanda di informazione alla commissione superiore di controllo per industrie. La commissione dovrà entro brevissimo tempo far conoscere a chi di dovere se la creazione di nuove industrie è necessaria od utile in Italia o se è sconsigliata per qualsiasi ragione».
Questo è il boccone che la confederazione lancia a quei cani di industriali per farli star zitti. In cambio del monopolio che essa si arroga di assoldare, licenziare, punire gli operai nelle industrie, in cambio del terroristico dominio che essa col controllo vuole assicurarsi sulle masse operaie, essa promette agli industriali «esistenti» il monopolio del mercato interno. Anche in questa manovra essa ha avuto per predecessori i burocrati romani, i quali durante la guerra hanno odiato ed odiano tuttora, dell’odio feroce che ha il burocrata contro chi disturba la sua quiete, i «nuovi», i «sopravvenuti», quelli che ieri facevano i commessi o i contadini o gli avvocati ed oggi pretenderebbero di fare gli industriali ed i commercianti. Non è risaputo che per entrare a far parte di un qualunque «consorzio» di mala memoria era durante la guerra necessario di avere esercitato «quella» industria o «quel» commercio da almeno due o tre anni? Così sarà anche in avvenire. Guai ai nuovi, guai a chi non esercitava già prima una industria, guai a chi non è figlio di papà ! Egli potrà impiantare una nuova impresa solo se la «superiore» commissione di controllo dirà che la sua impresa è «necessaria od utile» al paese, e se il «superiore» ministero gli darà il permesso. E questa gente predica il sole dell’avvenire! e vuole rivoluzionare il mondo! Mai reazione economica più bieca fu progettata; mai colpo più atroce alle nuove iniziative, al progresso industriale fu meditato. Costoro vogliono generalizzare a tutta l’industria italiana le condizioni di monopolio che dominano nei nostri porti di Genova, di Savona, di Spezia, che si vanno estendendo altrove e che hanno procurato mala fama ai nostri porti all’estero.
Ora è tempo di parlar chiaro; e di confessare a noi stessi che se talvolta i giornali inglesi od americani scrivono con parole gravi di ciò che accade nei nostri porti a danno del traffico, noi dovremmo, invece di offenderci per rimproveri che in molti casi sono veri, provvedere a difenderci dalla lebbra che ci minaccia; e per prima cosa dovremmo impedire che si estenda dai porti a tutte le città italiane. Eppure, proprio questa estensione sarebbe la conseguenza fatale dell’adozione del progetto di controllo della confederazione del lavoro.
XI
La diffida ai metallurgici dal recarsi a Torino
Il comitato centrale della FIOM ha pubblicato ultimamente un comunicato nel quale si diffidano gli operai metallurgici d’Italia dal recarsi a Torino. «Questa piazza industriale è in grave crisi, non essendovi possibilità alcuna di occupazione; attualmente si contano numerosi disoccupati. Le sezioni della FIOM sono invitate a vigilare che nessun operaio parta per Torino».
Il comunicato dimentica di aggiungere quale è la causa della lamentata disoccupazione. Col suscitare scioperi continui, con l’occupazione delle fabbriche, con l’indisciplina, con la minaccia di un controllo mortificatore di ogni libertà di iniziativa, non si inspira fiducia, anzi si incute terrore nel risparmio. Non si fanno più nuovi impianti progettati, non si ampliano quelli esistenti, si riducono gli impegni di acquisto. L’estero manda altrove le sue ordinazioni; persino il famigerato agente bolscevico a Londra, ing. Krassin, appena sente parlare di controllo operaio in Italia, ben conoscendo le disastrose conseguenze a cui esso condusse in Russia, pare abbia disdetto una ordinazione di milioni ad una casa italiana. Perché la FIOM e la confederazione del lavoro non dicono che la loro politica è alla radice della disoccupazione operaia?
[1] Con il titolo L’agitazione dei metallurgici. L’ostruzionismo e i suoi danni [ndr].
[2] Con il titolo La contesa metallurgica. Princìpi fondamentali [ndr].
[3] Con il titolo Neutralità [ndr].
[4] Con il titolo Arbitrato [ndr].
[5] Con il titolo L’esperimento del controllo operaio [ndr].
[6] Con il titolo I criteri del controllo sulle aziende illustrati da uno dei dirigenti della Confederazione del Lavoro [ndr].
[7] Con il titolo L’esperimento cooperativo [ndr].
[8] Con il titolo Un grave pericolo [ndr].
[9] Con il titolo Controllo operaio od organizzazione della dittatura sindacale? [ndr].
[10] Con il titolo La burocratizzazione dell’industria nei progetti confederali sul controllo [ndr].
[11]Ristampato ne Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 471-476, con il titolo Neutralità [ndr].
[12] Ristampato ne Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 476-481, con il titolo Arbitrato [ndr].
[13] Ristampato ne Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 481-486, con il titolo L’esperimento del controllo operaio [ndr].