I problemi della nominatività
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 27/05/1920
I problemi della nominatività
«Corriere della Sera», 27 maggio; 13[1] e 25[2] luglio 1920
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 737-748
I
Cronologia sbagliata
Il giornale giolittiano insiste nell’affermare che il professore Einaudi fu sempre assai esitante rispetto al problema della nominatività dei titoli. Lo fu perché lo doveva essere, perché è giusto esserlo. Soltanto la gente che non ha studiato le difficoltà del problema può immaginare che esso si risolva con un articoletto di legge il quale proclami la assoluta nominatività dei titoli. Può darsi che l’on. Giolitti, sempre semplicizzatore, abbia creduto sufficiente inserire nel discorso di Dronero del 12 ottobre un inciso invocante la nominatività , per vedere risoluti tutti i connessi formidabili problemi economici e finanziari.
Noi non crediamo certamente che il problema sia così semplice, anzi crediamo che il porlo con tanta semplicità da età della pietra sia il mezzo migliore per renderlo insolubile. Scrivere oggi, senz’altro e senza nessuna aggiunta, in un decreto: «tutti i titoli debbono essere nominativi», significherebbe unicamente scatenare una tale crisi di borsa, arenare così completamente il commercio dei titoli di stato, da distruggere col fatto il credito dello stato e fare fallire compiutamente l’esperimento della nominatività, costringendo a ritornare dopo due giorni ai titoli al portatore.
Noi invece che, per ragioni fiscali, vogliamo sul serio la nominatività ci siamo sempre preoccupati dei mezzi più adatti per raggiungere il fine, senza sconquassi e senza ritorni irreparabili. Non è in un momento, in cui Francia e Germania si tengono strette al titolo al portatore; in cui negli Stati uniti domina il titolo nominativo con la girata in bianco, in tutto identico fiscalmente al titolo al portatore, senza molti dei suoi pregi economici, in cui nell’Inghilterra si va diffondendo, a scapito del tradizionale titolo al nome, l’uso su vasta scala del titolo al portatore, che si può prendere alla leggera il problema e contentarsi di ripetere come i pappagalli: vogliamo il titolo nominativo!
Della necessità di preparare i mezzi per fare sul serio siamo persuasi noi e ne è persuaso chi scrive.
Il quale, in ogni occasione, ha sempre cercato di presentare proposte concrete, le quali avviassero la finanza al fine desiderato. Non è rivelare alcun segreto, ricordando la circostanza notissima che fu il professore Einaudi a proporre, in seno alla commissione per la riforma tributaria, il sistema, adottato appunto nel disegno di legge Meda, della ritenuta all’aliquota massima del 25%, per i titoli non denunciati prima dai possessori ai fini della imposta complementare sul reddito. Il giornale giolittiano ha un bel farvi sopra dello spirito; ma quella era una forma vera e propria di nominatività fiscale. E ciò, se non andiamo errati, accadeva nel 1916, quando il discorso di Dronero era in mente Dei.
Ed è anche noto che nelle sedute della commissione per la istituzione della imposta patrimoniale nell’agosto 1919, fu il professore Einaudi a proporre, svolgendo un concetto parzialmente adombrato dall’on. Tommaso Mosca e dal commendatore L. Villa, che si tollerassero pure i titoli al portatore, ma questi fossero tassati coll’aliquota massima, quella dei 100 milioni e più, che allora era del 40% sul patrimonio. Non nominatività obbligatoria per legge; ma di fatto tutti i titoli di stato e privati sarebbero stati, se al portatore, colpiti coll’aliquota del 40% sul loro valore capitale. Era chiaro che ciò avrebbe costretto tutti coloro che avevano patrimoni inferiori ai 100 milioni, a mettere i loro titoli al nome, se pur volevano essere tassati coll’aliquota propria del loro patrimonio, del 5, del 10, del
20 e del 30%! La proposta era circondata di tali ferree guarentigie, che ai possessori di titoli non si presentava assolutamente alcuna via di scampo: o mettere i loro titoli al nome – per il che si concedevano tutte le agevolezze tecniche necessarie o pagare il 40% del valore di borsa dei titoli. Ed è ben noto che, per questa cagione principalmente, anzi quasi solamente, si manifestò la opposizione vivissima dei banchieri e il progetto elaborato dalla commissione tecnica, di cui facevano parte i professori Cabiati, Einaudi, Gini, Griziotti ed i commendatori Denettini e D’Aroma, e presentato alla fine di settembre, andò a picco, nonostante la lodevole resistenza dei ministri Tedesco e Schanzer.
E, quasi fosse fatto apposta per fare indispettire l’organo giolittiano smanioso del privilegio, per sé ed il suo patrono, dell’idea della nominatività , il «Corriere della sera» non prendeva posizione a pro dei banchieri, nemici dei titoli nominativi. Anzi, mentre altri giornali fervidissimi d’amore per le riforme tributarie a lunga scadenza stavano zitti, risolutamente si schierava a favore del sistema proposto dalla commissione. E – vedi combinazione! – la mattina del 12 ottobre, proprio la mattina di quel giorno in cui l’on. Giolitti doveva alle turbe attonite rivelare dal Sinai di Dronero il verbo della nominatività in quattro parole, il «Corriere» pubblicava un lungo articolo La finanza al bivio in cui trattava appunto il problema della nominatività . E in quell’articolo era scritto:
«Nonostante le smentite del governo, una vera imposta patrimoniale, a nostro parere, può fondarsi soltanto sulla nominatività dei titoli: di tutti i titoli, di stato e privati. Il governo ha ragione, quando afferma che con un decreto-legge non si può cambiare il codice di commercio e rendere i titoli obbligatoriamente nominativi, sopprimendo la forma al portatore. Ciò è chiarissimo. Nessun decreto-legge e, oseremmo dire, nessuna legge fiscale può sopprimere un istituto fondamentale del diritto commerciale. Solo una legge apposita potrebbe far questo. Ma la finanza ha diritto di concedere le sue agevolazioni solo a chi le merita, solo a chi dimostra sul serio di esserne degno».
E, dopo aver spiegato il congegno della nominatività che, per distinguerla dalla obbligatoria, allora fu chiamata «coatta» si concludeva:
«Ognuno tenga, se crede, al portatore i suoi titoli. Ma nessuno può pretendere in tal caso di ottenere quelle esenzioni e quelle menomazioni d’imposta che devono essere concesse solo ai contribuenti leali e di buona fede. A quelli che tengono i titoli al portatore si deve applicare l’aliquota generale, che è quella massima, la quale salva la finanza dalle frodi ed è adatta ai patrimoni indistinti, misteriosi che non danno conto di sé».
Tutto ciò, disgraziatamente per gli organi giolittiani in cerca ansiosa di priorità, fu scritto prima che il verbo di Dronero fosse noto e fu stampato e divulgato nelle prime ore del mattino di quel giorno fatidico del 12 ottobre, alle ore 10,30 del quale il discorso di Dronero cominciava ad essere pronunciato. Rievocare questa priorità di data è veramente una «inezia» fastidiosa; ma noi non ne abbiamo colpa veruna. Era necessario dimostrare che mentre altri si contenta di gridare ad ogni tanto «nominatività» – «nominatività», come se bastasse pronunciare la parola per risolvere un problema -, noi non abbiamo cessato di discutere il quesito e di contribuire con gli scritti e coi fatti a mettere innanzi soluzioni concrete del problema. Così seguiteremo a fare. Oggi il governo ha già decretata la nominatività per le azioni di banche; e si è avvicinato alla nominatività imponendo agli altri titoli privati una imposta speciale del 15% sugli interessi e dividendi, se i titoli sono tenuti al portatore. L’aliquota del 15% non è ancora la massima dell’aliquota patrimoniale ed è perciò difettosa e non si estende, altro grave difetto, ai titoli di stato. Ma è un primo passo, che ha già indotto una grande massa di titoli privati a mettersi al nome ed una massa ancor più grande ne indurrà nell’anno in corso, appena i portatori si accorgeranno del danno fiscale di tenere i titoli al portatore. Molti problemi gravissimi per il trapasso dei titoli al nome rimangono da risolvere; tutta una riforma deve farsi nel sistema di iscrivere al nome e di trasferire i titoli di debito pubblico. Occorre un lavoro intenso di qualche mese per preparare i mezzi occorrenti affinché la trasformazione possa farsi senza disordinare il mercato dei titoli. Noi che non vogliamo lo sconquasso economico e vogliamo per ragioni fiscali la nominatività, continueremo a discutere il problema ed a proporre soluzioni. Siamo convinti di essere così, di fatto, i migliori fautori della riforma. Né ci irriteremo di soverchio se alcun altro graciderà ogni tanto di essere stato primo a pronunciare la parola «nominatività». Il vanto della priorità, casomai, spetterebbe ad un senatore piemontese, buon’anima, il quale, senz’essere giolittiano, fin da trent’anni or sono faceva consistere l’alfa e l’omega di tutta la finanza nella nominatività dei titoli. Perché l’organo giolittiano non propone la stampa a spese dello stato dei suoi discorsi parlamentari per merito di precursore di un periodo del discorso di Dronero?
II
Nominatività e ribasso dei titoli in borsa
Il forte ribasso avvenuto nei corsi dei valori in borsa impressiona i risparmiatori e dà luogo a discussioni svariate, economiche e politiche. Quando il titolo massimo del paese, il consolidato 5% perde in poco tempo una decina di punti e le sue quotazioni si avvicinano a quelle del 3«% in guisa da non potersene praticamente più distinguere, c’è veramente ragione di riflettere, se non di impressionarsi. Rifioriscono sulla penna degli articolisti e nelle parole del governo le solite teorie sulla speculazione al ribasso, complicate da accenni a congiure di capitalisti, di banchieri e di borsisti o di borsieri interessati a mandare a picco i provvedimenti finanziari sulla nominatività dei titoli e sulla confisca dei guadagni di guerra.
È difficile ragionare su ciò che è mal noto o si tiene accuratamente nascosto. Se anche le congiure esistono, a combatterle non servono a nulla gli articoli dei giornali ed i processi di aggiotaggio o di attentato contro il credito dello stato. Preferisco porre il problema in altra maniera: che cosa deve fare il governo per impedire, se e in quanto esista, il danno pubblico derivante dalla crisi nei valori mobiliari?
Se il ribasso deriva da vendite di contribuenti i quali non denunciarono i titoli al portatore agli effetti dell’imposta patrimoniale, ed ora se ne disfano per la preoccupazione di doverli mettere fuori al momento della conversione al nome, parmi che il governo non abbia nulla da fare. Non si capirebbe che cosa potrebbe il governo fare, senza suo danno, per arginare queste vendite. Dare una sanatoria ai reticenti? No, ché si darebbe un cattivo esempio.
Non mi pare che le vendite mosse da tal causa siano pericolose. Produrranno un ribasso momentaneo; ma quando il mercato abbia assorbito le vendite, i prezzi torneranno ad aggiustarsi al loro livello naturale.
Sono le vendite provocate da grossi capitalisti, banchieri i quali vogliono mandare a picco il provvedimento della nominatività? Il fatto è un po’ misterioso, perché in genere gli uomini sono poco disposti a subire perdite di centinaia di migliaia di lire o di milioni – vendere a prezzo basso in confronto al prezzo d’acquisto, vendere il consolidato a 74 od a 72 quando lo si è pagato 87,50 è invero perdere fior di quattrini – e la perdita non scema anche se è mossa dal desiderio di raggiungere un fine di interesse generale, come per il gruppo considerato sarebbe l’impedire la nominatività. Ma comunque sia di ciò, neanche sotto questo rispetto mi sembra che il governo debba preoccuparsi. Se l’origine del ribasso è puramente politica, è evidente che essa non intacca la bontà del titolo. Al prezzo ribassato, vi saranno capitalisti, speculatori, i quali troveranno che il titolo è appetitoso e lo compreranno. Il prezzo tornerà a salire da sé.
Per eliminazione, siamo così condotti all’unica circostanza, di cui il governo si deve preoccupare: che cioè le vendite abbiano per causa o per effetto od amendue insieme la seminagione della sfiducia nei detentori dei valori mobiliari. Questo è un danno oggettivo, reale, che potrebbe avere dannosi strascichi permanenti. Sta di fatto, a quel che si sente dire, che le vendite di titoli mobiliari, specialmente di stato, provengono anche, se non sovratutto, dalle piccole e medie borse. Sono i piccoli e medi risparmiatori coloro che temono maggiormente la nominatività. I titoli mobiliari sono diffusi tra la media borghesia ed i contadini più di quanto non si creda.
Contrariamente all’opinione comune, i titoli mobiliari e principalmente i titoli di stato sono uno strumento potente non di concentramento, bensì di disseminagione, di diffusione della ricchezza.
Ora, i piccoli hanno ragione di temere la nominatività più dei grossi risparmiatori. I grossi la temono per una ragione, di cui, dato il principio della progressività delle imposte, il legislatore non deve tener conto. La temono perché desidererebbero di non pagare tutta l’imposta dovuta. Ma i piccoli e medi risparmiatori – ed oramai il medio risparmio va fino al milione di lire, equivalente alle 300.000 lire di prima in valuta buona odierna – o non devono pagare affatto né la patrimoniale né la progressiva sul reddito o devono pagarla in misura tollerabile. Costoro ragionevolmente non si preoccupano troppo dell’imposta. Non è l’imposta che li mette in orgasmo al pensiero della nominatività; è il pensiero di non poter vendere comodamente, è il timore degli imbarazzi senza fine in caso di eredità,divisioni, usufrutti, vincoli, mutui, anticipazioni. Ha un bei dire il governo in utili comunicati ufficiosi, in discorsi alla camera; abbiamo un bello scrivere noi che si troverà il modo di rendere spicce le negoziazioni dei titoli nominativi. Sinora il pubblico medio e minuto ha fatto l’esperienza contraria. Un grosso capitalista può anche spendere qualche centinaio o qualche migliaio di lire per vendere, svincolare, frazionare titoli di debito pubblico. Una spesa di 1.000 lire su 50.000 lire di rendita annua, fa il 2%; ed è tollerabile, sebbene spiacevole. Ma se avvocati, notai, agenti di cambio, bolli, carte, firme, attestazioni giurate mangiano 1.000 lire su un titolo che vale 50.000 lire in capitale, la gente diventa idrofoba ed a ragione. Se si devono buttar via 100 lire in false spese per liberare un titolo che ne vale 500, il possessore maledice i titoli nominativi e chi li ha inventati. Se per svincolare un titolo da un usufrutto bisogna attendere uno, due, cinque anni e lasciarsi divorar vivi da un nugolo di locuste più affamate di quelle d’Egitto, il possessore, specie quello piccolo e medio, che non ha l’avvocato o il ragioniere ai suoi stipendi in permanenza, conclude che non val la pena di tenere i risparmi investiti in quella forma. Vende e si attacca ai depositi liquidi e ai buoni del tesoro, in attesa del futuro.
Tutto ciò è un danno; è il vero danno, di cui si deve preoccupare il governo. Non basta dichiarare che si provvederà. Le affermazioni astratte e generiche non fanno presa. Bisogna scendere subito, senza aspettare che il disegno di legge sia approvato, ai particolari, diffonderne la nozione, darvi ampia pubblicità . Il ministro del tesoro avrà già pensato ai metodi precisi con cui egli intende regolare l’iscrizione e il trapasso dei titoli di debito pubblico. Intende decentrare il servizio, togliendolo da Roma, e consentendo i trapassi in pochi giorni e possibilmente ore? Si sta provvedendo ai locali ed agli impiegati incaricati del lavoro? Saranno impiegati di stato o si affiderà il servizio a qualche istituto di emissione per maggiore rapidità? Si pensa a qualche tipo di titolo nominativo, che presenti le necessarie guarentigie per la finanza, e su cui si possano esigere gli interessi e fare operazioni di anticipazioni, di riporto, di compra-vendita, come se fosse un titolo al portatore? Si sono precisate le formalità di cui si può fare a meno per questo tipo di titolo, che si potrebbe chiamare nominativo fiscale, per differenziarlo dal nominativo pieno, del tipo antico?
Se a tutte queste cose ha già pensato, come è indubitato, il ministro del tesoro ne parli alla camera, largamente, senza timore di svelar segreti. È la sola maniera efficace di opporsi al ribasso; ed è urgente farlo. Altrimenti, si rischia di iniziare l’applicazione dell’imposta patrimoniale in un ambiente troppo ostile. Purtroppo le imposte patrimoniali o sui sovraprofitti e quelle simiglianti stanno mille cubiti al disotto della grande imposta veramente produttiva e giusta, che è l’imposta sul reddito, sia sui redditi particolari come sul reddito globale. Sono imposte a tendenze prevalentemente politiche, che dal punto di vista finanziario valgono poco e presentano gravi difetti economici. Almeno, però, cerchiamo di non aggravare troppo quei difetti irrimediabili con altri difetti eliminabili. Il ribasso odierno dei titoli ha già prodotto un risultato deplorevole: che il possessore di un titolo di consolidato 5% pagherà l’imposta su 87,04, mentre il suo titolo vale 72 o 74 lire. Lo stesso fatto si verifica per la quasi totalità dei titoli mobiliari. Ciò disgusta il contribuente, forse più che il dover pagare l’imposta. Adamo Smith, in una delle sue auree regole, scrisse: «’imposta non deve arrecare al contribuente una perdita maggiore dell’entrata che procura allo stato». È ingiusto che il contribuente debba pagare allo stato 4, 10 o 15 lire ed in aggiunta debba subire sul titolo un deprezzamento di 15 lire. Il governo deve fare tutto il possibile per impedire tale danno ai privati. Le imposte si pagano finché esiste una base imponibile. Ma se la base imponibile si assottiglia o sfuma, come pagare il tributo? Certo, il governo non può e non deve artificiosamente tener su i prezzi in borsa. Credo tuttavia si possa fare di più per diffondere la persuasione che i titoli nominativi saranno in futuro qualcosa di diverso dagli abbominevoli cul di sacco che conoscemmo fino a ieri. I minuti ed i medi risparmiatori temono di trovarsi in mano un titolo invendibile. Bisogna persuaderli del contrario. Naturalmente, è necessario che il governo sappia in modo preciso che cosa vuoi fare in proposito e lo dica.
III
Il frutto fiscale della nominatività
La discussione fatta alla camera intorno alla nominatività dei titoli mette in luce quale sia il frutto che il paese può attendere dalla riforma. È sintomatico che, col pretesto che la nominatività è un rimedio insufficiente alla evasione delle imposte, qualche oratore socialista abbia creduto di condannarla. Costoro, i quali hanno gridato tanto contro i borghesi i quali nascondono i loro capitali in titoli al portatore per sfuggire alle imposte, ora che è presentata una proposta la quale indubbiamente per la maggior parte dei titoli italiani impedirebbe l’evasione, dicono che i borghesi continueranno a nascondere i loro capitali nei buoni del tesoro e nei libretti di deposito a risparmio, rimasti al portatore, ovvero li investiranno in titoli esteri. Ed invocano accordi internazionali tra i diversi stati per impedire la fuga dei capitali all’estero, prima che in Italia si applichi la nominatività.
L’obiezione è capziosa e produrrebbe l’effetto, non si sa se voluto o preterintenzionale, di rimandare ad epoca indefinita la perequazione tributaria che si vuole conseguire con la nominatività.
Tenendo conto dei dati contenuti nell’ultima esposizione finanziaria dell’on. Schanzer ed integrandoli con le emissioni successive si può calcolare che i titoli e i depositi esistenti in Italia ammontino suppergiù alle seguenti cifre in miliardi:
Nominativi o da rendersi tali: | Valore nominale | Valore reale |
Titoli a debito di stato | 48 | 36 |
Azioni, obbligazioni, cartelle di credito fondiario, prestiti comunali, ecc. (a calcolo) | 15 | 18 |
Conti correnti | 4 67 | 4 58 |
Destinati a rimanere al portatore:
| ||
Buoni del tesoro | 10 | 10 |
Depositi a risparmio | 14 24 | 14 24 |
Le cifre sono da prendersi con molta precauzione, perché, specialmente nella prima sezione, vi sono titoli posseduti da enti pubblici non tassabili o che fanno doppio gli uni con gli altri. Se una società, che ha un capitale di 10 milioni, possiede 5 milioni di azioni di un’altra società, il capitale realmente esistente e da tassarsi a carico degli azionisti non è 10 + 5 = 15, ma unicamente 10. Quindi è probabile che il capitale effettivo dei titoli nominativi o da rendersi tali non superi i 43 miliardi calcolati nel suo discorso dall’on. Belotti di cui 10 già fin d’ora nominativi. All’ingrosso si potrebbe dire che, mettendo insieme tutti i titoli di stato, di credito fondiario, di comuni, di provincie, le azioni ed obbligazioni, ed i depositi a risparmio ed in conto corrente, in avvenire avremo due terzi dell’intiero ammontare al nome ed un terzo al portatore.
Alcuni oratori hanno detto che ciò basta a rendere inutile la riforma, perché gli odiati borghesi compreranno i titoli al portatore per sfuggire all’imposta. Se anche ciò accadesse, non tutto il male verrebbe per nuocere. Ciò vorrebbe dire che i borghesi grassi venderebbero azioni e titoli di stato e comprerebbero buoni del tesoro od investirebbero il ricavo in depositi a risparmio. Ma, di grazia, se i borghesi grassi vendono, chi dovrebbe comperare? Un compratore è pur necessario, in ogni contratto di compra-vendita. Evidentemente dovrebbero comperare i borghesi minuti ed i proletari; e questo sarebbe per fermo un risultato sociale interessantissimo e magnifico.
La realtà tuttavia sarà ben diversa. I 67 miliardi nominali di titoli da rendersi nominativi sono disseminati non solo tra la borghesia grassa, ma fra la media e la minuta, tra i contadini, gli impiegati ed in piccola parte anche tra gli operai. Alcuni venderanno, sovratutto per paura degli inconvenienti della nominatività; ma il grosso ribasso conseguente alle poche vendite, consiglierà agli altri di tenersi i titoli posseduti. I due terzi dei titoli divenuti nominativi pagheranno giustamente l’imposta.
Forseché questo risultato diventa spregevole solo perché un altro terzo continuerà a sfuggire all’imposta? Si noti intanto che sui 14 miliardi di depositi a risparmio, la massima parte non deve pagare le imposte sul patrimonio, sul reddito e sulle successioni o deve pagare imposte mitissime. Sono piccoli capitali appartenenti a gente modesta, che sta al disotto della linea della tassazione.
Quanto ai 10 miliardi di buoni del tesoro, è probabile che essi abbiano a crescere appunto grazie all’esenzione dalla nominatività . Il nuovo capitale – non il vecchio, già investito – prenderà volontieri questa via. Ma chi dice che lo stato debba continuare ad emettere in perpetuo buoni del tesoro o persino debba in perpetuo conservare quelli già emessi? Consolidandosi la pubblica finanza, lo stato emetterà nuovi prestiti; e se avrà saputo escogitare un buon sistema di nominatività, li collocherà. I buoni del tesoro al portatore si trasformeranno in prestiti nominativi. Nel frattempo, il loro carattere eccezionale di titoli al portatore, indurrà i risparmiatori a contentarsi di un saggio di interesse più mite. Ecco che
lo stato lucrerà, sotto forma di minor saggio di interesse, una parte della perdita subita in materia di imposte.
Praticamente, la sola fuga possibile ai capitali desiderosi di sfuggire all’imposta, sarà la fuga all’estero. Ma non conviene esagerarne la portata. In confronto alle cifre colossali di 58 e 24 miliardi esistenti all’interno, la fuga sarà possibile per qualche miliardo, pochissime unità, forse una o due al massimo. Ostacoli potenti, massimo l’altezza dell’aggio e la riduzione, sia pure nominale, per le somme inviate all’estero, ostacolano la fuga. Alcuni oratori socialisti vorrebbero aspettare il giorno della conclusione degli accordi internazionali per fare cosa perfetta. Proposito nobilissimo nel regno delle utopie; il cui effetto sarebbe di rinviare alle calende greche la tassazione di più di 40 miliardi allo scopo di poterne tassare, in aggiunta ai 40, altri uno o due. Non viene naturale sospettare che non si vogliano neppure tassare i 40? La tanto calunniata borghesia invece dice: iniziamo pure subito le trattative con gli stati esteri per tassare anche l’1 o i 2 miliardi mancanti. Siccome queste trattative saranno estremamente difficili da condursi a termine, giova però non attendere lo spuntar del sole dell’avvenire per tassare i 40 miliardi che sono a portata di mano.