La finanza al bivio. In nome di chi parlano?
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 12/10/1919
La finanza al bivio. In nome di chi parlano?
«Corriere della Sera», 12[1], 16[2], 18[3] e 26[4] ottobre 1919
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 424-444
I
Le borse, l’imposta patrimoniale e la nominatività
Da alcuni giorni le borse sono in agitazione a causa dell’annunzio dell’imminente attuazione dei provvedimenti finanziari. Si sono verificati ribassi più o meno impressionanti su alcuni titoli e anche il consolidato è ribassato di alcuni punti. Il governo, impressionato, ha creduto opportuno di dichiarare ufficiosamente che trattasi di manovre ribassiste dovute a dicerie intorno alla introduzione del principio della nominatività obbligatoria dei titoli. Per parte sua, il governo dichiara che non è sua intenzione introdurre per decreto legge il principio della nominatività obbligatoria nella nostra legislazione. Spetterà al parlamento discutere e approvare nelle maniere normali un siffatto principio. Il governo non intende affatto applicarlo di sua iniziativa; le dicerie diffuse a tali riguardi sono perciò artificiali e destinate a provocare panico alle borse per scopo di lucro privato di speculatori.
Noi non sappiamo quali siano i propositi del governo rispetto al prestito forzoso e agli altri provvedimenti finanziari che si annunziano di imminente attuazione. Ma c’è troppa gente in Italia la quale crede di essere bene informata a tale riguardo. Circola nel ceto bancario e industriale un riassunto in poche pagine del decreto-legge sul prestito forzoso e sull’imposta sugli incrementi patrimoniali. Capitò anche quel riassunto sul nostro tavolo. A prima vista esso è troppo particolareggiato per non avere qualche fondamento di realtà. Non lo è però tanto da non lasciar comprendere che esso fu consigliato da persona desiderosa di rendere servigio prezzolato, ma incapace di mettere in luce le note caratteristiche del disegno che il gabinetto sta elaborando. Quel sunto è atto a produrre cattiva impressione nelle borse, perché lascia supporre che il governo abbia intenzione di colpire con imposte fortissime i titoli per sé, come tali. Il che non può essere. Non occorre essere conoscitori profondi della materia finanziaria per sapere che un’imposta sul patrimonio – e tale è il prestito forzoso – non può mai colpire i titoli, e neppure le terre e le case, e neppure le società per sé, ma può colpire soltanto le persone che posseggono titoli di stato, azioni di società , terre e case.
L’imposta sul patrimonio è essenzialmente personale, non reale. Lo stesso titolo di rendita, la stessa azione, la stessa casa, può o non può essere colpita da imposta patrimoniale a seconda che spetta a un modesto capitalista che ha meno del minimo esente o ad un capitalista agiato o ricco. Perciò l’imposta stessa non può avere un’influenza sul valore del titolo o della casa o dell’azione. L’imposta non si attacca al titolo ma alla persona. Se le borse la pensano diversamente, sono in errore; e si dovranno ravvedere ben presto del loro errore. Ma il governo farebbe bene ad andare a fondo sulle indiscrezioni e sui riassunti clandestini, i quali hanno permesso a speculatori privati di provocare un panico ingiustificato.
Diciamo però subito che quel panico sarebbe privo di ragion d’essere anche se il decreto-legge imminente consacrasse il principio della nominatività dei titoli. Non solo; ma, nonostante le smentite del governo, una vera imposta patrimoniale, a nostro parere, può fondarsi soltanto sulla nominatività dei titoli; di tutti i titoli, di stato e privati. Il governo ha ragione, quando afferma che con un decreto-legge non si può cambiare il codice di commercio e rendere i titoli obbligatoriamente nominativi, sopprimendo la forma al portatore. Ciò è chiarissimo. Nessun decreto-legge e, oseremmo dire, nessuna legge fiscale può sopprimere un istituto fondamentale del diritto commerciale. Solo una legge apposita potrebbe far questo.
Ma la finanza ha diritto di concedere le sue agevolazioni solo a chi le merita, solo a chi dimostra sul serio di esserne degno. Supponiamo che vi siano tre persone proprietarie di un patrimonio di 20.000 lire, di 1.000.000 e di 50.000.000 rispettivamente. Supponiamo che la prima debba andare esente dal prestito forzoso; la seconda debba essere tassata col 25% e la terza col 40%; e supponiamo che l’aliquota si fermi lì, e il 40%, come fu annunziato da molti giornali, sia il massimo dell’imposta. Supponiamo che tutti e tre questi patrimoni siano soltanto composti di titoli di stato o privati, al portatore. La finanza ha diritto di dire a Tizio che possiede le 20.000 lire: «Io sono ben disposta a esentarti, perché il tuo patrimonio è piccolo; ma io voglio essere sicura che i titoli sono tuoi e tu non sei una semplice testa di legno, che dice di possedere 20.000 lire di titoli per farli esentare, mentre in realtà i titoli sono di un compare milionario, il quale vuole, disseminando il suo patrimonio fra amici o impiegati o commessi o facchini di piazza, sfuggire al suo debito di imposta. Perciò, se tu vuoi andare esente dal tributo fa intestare i tuoi titoli al tuo nome e conservali al tuo nome per qualche tempo».
Del pari la finanza può dire a Caio, possessore di 1.000.000 di lire di titoli: «Tu vuoi essere tassato col 25%, che è l’aliquota tua propria e non con una superiore? Hai ragione. Ma per godere di tale beneficio devi dimostrarmi che i titoli sono tuoi e perciò intestali al tuo nome».
Non è forse vero che, se Tizio e Caio non consentono a intestare i titoli al proprio nome, dimostrano di non essere in buona fede e di prestarsi a qualche frode fiscale? E non è chiarissimo che la finanza in tal modo avrebbe il diritto di tassarli al 40%, ossia al massimo dell’aliquota per garantirsi contro le possibili frodi?
Noi non sappiamo se il governo intenda procedere in questo modo. Ma riteniamo che, se così facesse, il governo non sopprimerebbe affatto il titolo al portatore e non violerebbe menomamente il codice di commercio. Ognuno tenga, se crede, al portatore i suoi titoli. Ma nessuno può pretendere in tal caso di ottenere quelle esenzioni e quelle menomazioni di imposta che devono essere concesse solo ai contribuenti leali e di buona fede. A quelli che tengono i titoli al portatore si deve applicare l’aliquota generale, che è quella massima, la quale salva la finanza dalle frodi ed è adatta ai patrimoni indistinti, misteriosi che non danno conto di sé.
Noi non sappiamo davvero in quale altro modo una imposta patrimoniale per una volta tanto potrebbe applicarsi sul serio. Come impedire altrimenti che il ricco dissemini i suoi titoli al portatore fra molte teste di legno facendoli esentare dall’imposta e assoggettandoli a una aliquota troppo piccola in confronto di quella dovuta? Come ottenere i venti o i trenta miliardi di lire, di cui il governo ha bisogno, se non si pigliano le precauzioni atte a impedire il rimpicciolimento artificiale delle fortune? Come togliere diversamente dalla testa dei proprietari di terre e di case la convinzione di essere sovratassati – essi il cui patrimonio è tutto al sole – in confronto dei detentori di titoli di stato, o di azioni di società? Come impedire al sud, dove la ricchezza immobiliare in titoli è meno diffusa, di lamentarsi di essere maltrattato in confronto al nord, il quale potrebbe sottrarre i suoi titoli al dovuto onere di imposta?
Altra via diversa da questa, ripetiamo, non vi è , fuorché quella di riservare i favori della finanza ai soli titoli nominativi. Questa non è nominatività obbligatoria, questa non è riforma del codice di commercio. Il titolo al portatore rimane. Colui che non vuol far sapere altrui i propri affari continuerà a tenere i suoi titoli in questa forma. Ma egli in tal caso non può pretendere di ottenere quel trattamento di favore che meritano solo coloro i quali danno pieno affidamento di aver reso noto alla finanza tutto e solo il proprio patrimonio. Un siffatto sistema non deve esercitare nessuna influenza sulle borse. Queste non devono preoccuparsi delle imposte che pagheranno sì o no i detentori dei titoli; ma solo del valore dei titoli per sé. E i titoli per sé non devono essere chiamati a pagare alcuna imposta.
Se le borse faranno del panico, tanto peggio per esse. Il pubblico non si deve lasciar impressionare. Come sono andati giù, così i corsi dei titoli torneranno su. È questione di pazienza e di nervi a posto. Sovratutto non si deve lasciar impressionare il governo. Noi diciamo: o il prestito forzoso si applica con fermezza e con serietà, e allora vale la pena di tentare l’esperimento grandioso; ma, se ci si impaura di ogni stormir di fronda delle borse, è meglio rinunciare al prestito forzoso, all’imposta sul reddito, a tutto; e lasciar andare il tesoro alla deriva.
Noi siamo chiaramente, energicamente per il metodo della serietà e della fermezza. Noi sappiamo che la borghesia italiana, che ha voluto la guerra, vuol contribuire a risanare le finanze dello stato: vuol pagare. Ma vuole pagare con giustizia; e non arretra dinanzi a qualunque durezza, quando questa sia dimostrata necessaria. Tocca al governo di compiere il suo dovere, di non lasciarsi intimidire da quei plutocrati che non volessero sottostare al necessario sacrificio dei loro averi per la salvezza della finanza italiana.
II
Camere di commercio ed associazioni industriali contro i provvedimenti finanziari
Parecchie associazioni industriali e commerciali e camere di commercio hanno comunicato alla stampa ordini del giorno violenti contro gli annunziati provvedimenti finanziari. Una commissione della Camera di commercio di Roma ha segnalato al governo «i pericoli che potrebbero derivare dall’attuazione di provvedimenti che intaccassero le forze produttive del paese e ne paralizzassero la vita economica»; l’Associazione commerciale, industriale ed agricola romana ha proclamato che l’attuazione dei progetti governativi «riuscirebbe esiziale alla vita economica del paese e causerebbe la distruzione di gran parte delle energie industriali, commerciali ed agricole, che hanno invece urgente bisogno di sicuro affidamento e di tranquille condizioni di sviluppo per rispondere, nell’interesse comune, all’alto appello: lavorare e produrre».
A questo punto, noi sentiamo il dovere di chiedere alle camere di commercio ed alle associazioni industriali, le quali votano ordini del giorno così impregnati di violenza verbale e di spirito di resistenza all’appello del governo di concorrere alla restaurazione della pubblica finanza chi siete voi ed in nome di chi parlate?
Siete voi quei banchieri, quegli industriali, quei commercianti, quei proprietari medesimi che alcuni mesi or sono, quando il governo espose il programma di un’imposta straordinaria sulla privata fortuna, vi dichiaraste pronti ad ogni sacrificio, purché la pubblica finanza fosse salva, purché il credito dello stato si serbasse intatto?
O forse vi protestavate pronti a pagare, solo perché nell’intimo del vostro animo speravate che il governo non facesse sul serio, che il progetto elaborato per l’attuazione del programma governativo fosse a maglie così larghe da uscirne voi in salvo colle vostre fortune, lasciando nelle peste gli ingenui od i deboli?
Le proteste di ossequio all’obbligo tributario sono buone solo colla riserva mentale che l’ossequio sia a fior di tutte le labbra ma il pagare spetti solo alle borse degli altri?
Piacciono forse solo quelle imposte le quali si annunciano con grande pompa di democrazia e di persecuzione contro i pescicani; ma poi, difettando di strumenti adatti al fine, lasciano i contribuenti delle cui sorti vi interessate al sicuro dalle investigazioni fiscali?
In che modo si può sostenere che la richiesta di un giuramento intacchi le forze produttive del paese? Forseché un paese può lavorare e produrre solo quando è composto di sottoscrittori di dichiarazioni false o reticenti? In che modo lo stato nuoce alla produzione della ricchezza quando dice ai contribuenti: se volete essere esenti o se volete pagare soltanto l’imposta moderata che spetta al vostro modesto patrimonio, datemi la dimostrazione di essere i veri proprietari dei vostri titoli, di stato o privati, facendoli iscrivere al vostro nome; che se voi volete conservare i vostri titoli al portatore, io vi reputerò ricchi o ricchissimi e vi tasserò con l’aliquota massima? In qual misteriosa maniera questo discorso saggio ed onesto può trasformarsi, come pretendono camere di commercio ed associazioni industriali, in un attentato alla vitalità delle società per azioni? Il progetto rispetta grandemente la importanza economica delle società ; la rispetta fino al punto da non chiamarle affatto direttamente in causa come contribuenti. Facendo ciò, rende ossequio alla giustizia, perché l’imposta deve colpire solo una volta il cittadino che ha una fortuna e non due volte. Ma è strano, ma è rivoltante che da ciò precipitosamente traggano argomento camere di commercio ed associazioni industriali per scagliarsi contro proposte concepite precisamente allo scopo di non intaccare la produzione, di non perturbare le società produttrici, e di colpire invece e solo colui che ottiene il frutto della produzione, che possiede i titoli rappresentativi del valore delle aziende.
Coloro i quali protestano, o non hanno compreso il significato delle notizie pubblicate sui giornali o sono in mala fede. In quest’ultima ipotesi, occorre smascherare l’inganno e dichiarare apertamente che l’opinione pubblica non tollererà mai, a nessun costo, che i possessori di titoli al portatore sfuggano al loro debito d’imposta accampando pretesti assurdi di necessità di non danneggiare la produzione, di non recidere i nervi al paese e simiglianti fandonie. Se non si vuol pagare, lo si dica apertamente; ma non si cianci di lavoro, di produzione e simili grosse parole, le quali non hanno nessuna affinità spirituale colla voglia di sottrarsi ai propri obblighi tributari.
Dicevamo l’altro giorno che la finanza è al bivio. Possiamo aggiungere oggi che anche la borghesia italiana è al bivio.
O essa si mette al seguito dei fabbricatori di ordini del giorno ipocriti e con ciò dimostra di disinteressarsi della cosa pubblica, di volere lasciare andare lo stato alla deriva. Non si lamenti, questa borghesia imprevidente, se verranno poi altri ministri delle finanze a chiederle ben altri sacrifici, in cui confronto questi annunziati saranno un gingillo. Non si lamenti poi se, così facendo, i ministri delle finanze dell’avvenire condurranno il paese alla rovina e la produzione all’annientamento, perché quella rovina e quell’annientamento li avrà voluti essa, la borghesia che oggi grida appena teme di essere chiamata sul serio a pagare le imposte necessarie alla restaurazione della finanza italiana.
O essa, la borghesia italiana, accoglie con fermezza e risolutezza le necessità imperiose dell’ora e vi si sottomette con lealtà e con buona fede; ed allora non solo essa salva il paese e col paese se stessa e con se stessa la parte migliore, ognora rinnovantesi, la parte più sana, più operosa e produttiva della popolazione; ma acquista, pagando, il diritto di porre al governo le proprie condizioni.
Essa acquista il diritto di porre una condizione principalissima al governo: che i venti miliardi, i quali saranno ottenuti dalle imposte straordinarie patrimoniali (prestito forzoso e imposta sugli arricchimenti), siano davvero ed esclusivamente destinati al rimborso della parte più gravosa dei debiti di guerra. Non basta scrivere il principio nella legge. Ciò che importa, ciò che soltanto importa è di attuare il principio. E per attuarlo è necessario che il governo limiti le spese, riduca rapidamente il numero degli impiegati, smobiliti l’esercito, quadri e soldati, nella misura del possibile e cresca le imposte ordinarie al punto da fronteggiare le spese correnti. Occorre ristabilire il pareggio, combattere il disavanzo. È impossibile, si sa, ritornare al pareggio in poco tempo. Ma vi deve essere una volontà seria e risoluta di raggiungerlo. Perciò la borghesia deve chiedere che, insieme ed in aggiunta alle imposte straordinarie patrimoniali, si attui l’imposta sul reddito, la quale deve fornire una parte cospicua della somma necessaria a colmare il disavanzo. È necessario pagare, oltre il tributo straordinario, anche l’imposta annua sul reddito, perché, durando il disavanzo, ogni speranza, ogni promessa di ridurre il debito pubblico è vana ed illusoria. A che vale estinguere un debito vecchio quando se ne crea contemporaneamente uno nuovo?
Il contribuente il quale, accampando vani pretesti, si rifiuta di pagare le imposte necessarie nel momento presente, perde il diritto a combattere gli sprechi del pubblico denaro, la continuazione del dispendio di guerra in tempo di pace, l’aumento incessante del debito pubblico.
Se la borghesia italiana vuole vedere ritornare il bilancio dello stato a dimensioni normali, se vuole vedere fermarsi il debito pubblico sulla vetta dei 100 miliardi e ritornare poi sugli 80 miliardi, se vuole vedere raffermarsi la finanza e lo stato, deve essa chiedere di pagare e deve essa pretendere che lo stato applichi tutti i metodi inevitabilmente severi i quali sono necessari a far pagare i renitenti. Questa è la borghesia che vogliamo noi, non quella che vota ordini del giorno nelle camere di commercio e nelle associazioni industriali e commerciali. La borghesia, come la concepiamo noi, vive ed esiste in molta parte d’Italia. Essa ha coscienza del suo gravissimo compito ed ha le forze per condurlo a termine. Essa deve imporsi a coloro i quali falsamente pretendono di parlare a suo nome; deve imporsi alla burocrazia la quale falsamente immagina che tutta la borghesia sia composta di fabbricatori di ordini del giorno; e deve rifare la coscienza politica del paese. Ma, per raggiungere l’altissima meta, essa deve cominciare a pagare.
III
Giustizia tributaria ed esigenze economiche
Il banchiere, il quale alla «riconosciuta competenza nelle cose finanziarie» accoppia «l’illuminato e generoso disinteresse personale», ha voluto nuovamente sul «Secolo» chiarire le ragioni della vivace campagna iniziata in giornali ed in assemblee all’annuncio delle modalità del prestito forzoso. C’è, nelle dichiarazioni dell’eminente finanziere, una insistenza davvero soverchia nel rimproverare ai membri della commissione incaricata di redigere il disegno di decreto-legge di essersi esclusivamente preoccupati di «escogitare i più ingegnosi mezzi per evitare le evasioni» dimenticando «talora di considerare tutte le difficoltà pratiche di esecuzione e le ragioni di equità verso il contribuente», andando così incontro, per mancanza di previggenze, a danni ed inconvenienti molteplici. Lascia egli comprendere che le difese del progetto della commissione venute fuori da varie parti, possono, a parer suo, riannodarsi al «legittimo rammarico di non vedere prontamente attuate misure certamente dettate da un geloso amore per il pubblico bene!» Ma, piuttosto che vedere attuate «misure meno mediate» è preferibile rinviare l’applicazione dei nuovi tributi a data più propizia, cosicché il vantaggio della finanza sia contemperato con la necessità di non turbare l’economia nazionale.
Poiché ho avuto l’onore di far parte della commissione incaricata di redigere il progetto di prestito forzoso e di imposte sugli aumenti patrimoniali, credo doverose alcune dichiarazioni. Ben pochi di coloro i quali furono chiamati a redigere il disegno erano convinti fautori delle imposte patrimoniali. Gli argomenti pro o contro una imposta straordinaria patrimoniale si bilanciano siffattamente, che in grande maggioranza gli studiosi, i quali si sono occupati in Italia ed all’estero del problema o si sono palesati nettamente contrari o si sono dovuti confessare dubbiosi. Riferendo parole e pensieri di scienziati veramente insigni, anch’io avevo concluso in alcune lezioni tenute nell’aprile di quest’anno alla Università commerciale Bocconi ed ora raccolte in volume, in modo dubitativo ed interrogativo.
Le ragioni le quali possano decidere per il sì o per il no, non sono di giustizia tributaria. L’illusione popolare che si possa sul serio prelevare una porzione del patrimonio privato per estinguere debiti di guerra resta una illusione e nulla più. Non si scaraventano sullo stato terre, case, azioni, crediti e queste cose non servono a pagar debiti. Se anche tutto ciò potesse farsi, sarebbe un disastro, perché importerebbe liquidazioni forzate, svendite, arricchimento di speculatori, impoverimento dei privati per 10 per dare allo stato 2; uno scompiglio senza fine; in cui andrebbero di mezzo produzione e lavoro. Siccome tutto ciò non si vuole, bisogna necessariamente ripartire l’imposta patrimoniale in parecchie annualità e fare ogni sforzo perché il contribuente la paghi col reddito, risparmiando a più non posso per pagarla. Solo a questa condizione essa è sopportabile all’economia nazionale e può essere benefica. Ma è chiaro che, in quanto sia possibile, essa si riduce ad una forte imposta sul reddito, duratura alcuni anni e diversa solo per taluni aspetti da una ordinaria imposta sul reddito dei soli capitali, con esenzione del reddito di lavoro. Il che può essere giusto od ingiusto; ma non è una circostanza tale da rendere senz’altro preferibile l’imposta patrimoniale ad una ordinaria imposta sul reddito.
No. Le ragioni le quali possono consigliare una imposta patrimoniale non sono di giustizia tributaria. Sono ragioni politiche e psicologiche. Si vuole creare un ambiente di sacrificio nelle classi proprietarie e risparmiatrici, sicché le classi non proprietarie rimangano convinte che ai tributi sui consumi da esse prevalentemente pagati si contrappongono imposte sui patrimoni pagate dai ricchi? Si crede che all’uopo giovi più una imposta straordinaria pagata una volta tanto che un aumento alla imposta annua sul reddito? Si vuole dare ai contribuenti, che pagheranno la imposta straordinaria, l’impressione che con un sacrificio iniziale la situazione finanziaria dello stato si risanerà davvero ed essi saranno salvi in avvenire dall’ansia continua di vedere posti in pericolo i loro risparmi e frustrati i loro tentativi di elevazione economica? Se questi scopi un governo crede seriamente di poter raggiungere; se esso è sicuro di riuscire a rimettere poi altrimenti il bilancio in pareggio così da potere realmente consacrare tutto il provento dell’imposta patrimoniale allo scopo di ridurre il debito pubblico a cifra meno formidabile, per esempio da 100 ad 80 miliardi, cancellando di esso le parti più pericolose ed onerose, esso è giustificato nello stabilire il tributo. La questione di metodo – prestito forzoso od imposta semplice – ha poca importanza; essendoché il prestito forzoso è soltanto un metodo per applicare in maniera più accettabile l’imposta patrimoniale.
Ma, una volta presa dal governo la decisione di applicare il tributo straordinario, è dovere, unico dovere, delle commissioni incaricate di tradurre in articoli di legge il pensiero governativo di compiere opera seria. Chi ha il mandato di apprestare le formule tecniche con cui ripartire equamente sui contribuenti un tributo di 20 miliardi, non può onestamente credere di avere adempiuto al suo mandato redigendo un testo di decreto, il quale ripartisca ingiustamente una somma minore, di 15 o forse di 10 miliardi. Chi facesse così, ingannerebbe governo ed opinione pubblica.
Il torto grosso della commissione, mi creda l’eminente finanziere, fu di non avere voluto rendersi colpevole di un inganno verso il governo che l’aveva onorata della sua fiducia. Ben lungi dall’avere dimenticato di considerare le difficoltà di applicazione delle loro proposte, ben lungi dal non avere valutato danni ed inconvenienti, che era facilissimo rilevare ad occhio, senza bisogno di nessuna particolare competenza di vita vissuta in cose finanziarie, i compilatori del progetto hanno lungamente discussi e bilanciati quei danni ed inconvenienti; e se giunsero alle conclusioni, che ora inquietano banca e borsa, ciò non accadde per mancanza di previdenza o per meditazione troppo frettolosa, ma perché, a parer loro, i vantaggi superavano i danni.
L’eminente finanziere dalla lunga pratica di cose vissute, in fondo in fondo non è tratto a formulare obiezioni di rilievo se non contro la proposta di nominatività necessaria, anche se non obbligatoria, dei titoli. Il resto sono aggeggi, sono frangie: i criteri non equi per la valutazione degli immobili, che non si dice quali siano e che non si saprebbero immaginare, di fronte alla dizione di articoli concepiti per modo da consentire alle commissioni giudicanti di tener conto di tutte le variabili situazioni di fatto; il negato diritto di ricorso alla magistratura ordinaria, problema discutibile, per cui si può anche consentire intorno alla giustizia di concedere il diritto di ricorso per tutte le questioni di diritto alla cassazione centrale; il regime dei vaglia bancari e degli assegni. Problemi minori, discutibili ed emendabili. Il grosso della disputa verte sulla nominatività dei titoli.
Fino a ieri – occorre ricordarlo? – sono stato tra i più pertinaci oppositori di una scuola la quale voleva la nominatività obbligatoria delle azioni delle società anonime. Lo fui e lo rimango. L’idea che si dovessero obbligare i soli portatori di azioni di società anonime a metterle al nome era scandalosamente ingiusta. Taluni volevano ciò per risanare le società anonime e le loro assemblee, le quali oggi sarebbero in preda a speculazioni sfrenate per colpa dei titoli al portatore. Queste egregie persone, replicatamente invitate a farlo, non hanno mai tentato di spiegare perché le stesse, precise speculazioni, gli stessi assalti alle diligenze delle società e delle banche si siano verificati e si verifichino ogni giorno in Inghilterra e negli Stati uniti, che sarebbero l’eldorado dei titoli nominativi. Non hanno mai spiegato perché, in tempi non lontani, le azioni della Banca nazionale e della Banca d’Italia fossero oggetto di speculazione vivissima nonostante la loro nominatività. La verità è che si specula dovunque c’è la possibilità di un lucro, siano le azioni nominative ovvero al portatore. Si specula in terreni, in case, che sono nominativissimi. E la verità è anche che le azioni speculative sono sempre una infima minoranza in confronto alle azioni serie, tranquille, che non fanno parlar di sé. Voler rendere nominative le azioni per risanare le società anonime è ubbia di gente che corre dietro alle apparenze mutevoli e trascura la realtà sostanziale.
Così pure bisogna essere contrari, risolutamente contrari, alla nominatività delle sole azioni per ragioni tributarie. Certo, i titoli al portatore possono sfuggire a certe imposte: non a quelle di ricchezza mobile o sui sovraprofitti di guerra, sì all’imposta di successione, all’imposta globale sul reddito, ed all’imposta patrimoniale. Ma vi sfuggono tutti i titoli al portatore e non le sole azioni di società anonime. Qual razza di giustizia scempia sarebbe quella di chi rendesse nominative le azioni, le quali sì e no arrivano in valore effettivo a 15 miliardi di lire e lasciasse al portatore le obbligazioni, le cartelle fondiarie, i titoli di stato, di comuni, di enti diversi, i quali ammonteranno a più di 60 miliardi di lire?
Giustizia vuole che la nominatività sia applicata a tutti. Si può fare, forse, una eccezione per i buoni del tesoro ordinari, destinati a morire od a rinnovarsi in pochi mesi, per ragioni imprescindibili ed urgenti di tesoro. Ma non deve essere lecito agli uni di frodare ed agli altri no. Sarebbe, anche, economicamente dannoso. Si spingerebbero i capitali verso gli impieghi a reddito fisso, verso i titoli di stato e si farebbe il vuoto attorno alle imprese industriali, sole colpite dallo stigma della nominatività. Il che non può volere nessuno.
Dunque, tutti i titoli siano indotti a rendersi nominativi. Certo, questa è una decisione da fare tremare le vene ed i polsi. Ancor nell’aprile di quest’anno, in occasione delle ricordate lezioni, arretravo dinanzi al danno di spingere i risparmi italiani ad emigrare verso i paesi, i quali, come la Francia, la Germania, ecc., conserveranno il regime dei titoli al portatore.
Perché, si badi bene, oramai il danno della trasformazione è solo questo. Niente altro che questo. Se la nominatività è generale, i risparmiatori non hanno interesse ad abbandonare gli investimenti in titoli. Che cosa dovrebbero farne dei loro risparmi? Investirli in terreni, o in case o in carature di aziende private? Ma tutto ciò è nominativo e non sfugge alle imposte. Investirli in denaro contante o in gioie o in mobilio? Ma tutto ciò non frutta; e coloro che desiderano un reddito, alla lunga non si decidono a rinunciare all’intiero reddito solo per non darne una parte allo stato. Investirli in buoni ordinari del tesoro, a scadenza di 3, 6, 9 e 12 mesi? Ma è appunto compito dell’imposta patrimoniale di permettere allo stato di ritirare quei buoni del tesoro.
Quando la materia da comperare manca, si ha un bell’aver voglia di comprare buoni al portatore. Se non ci sono, bisogna passar sopra alla voglia. Se poi lo stato continuerà ad emetterne, per la gran ressa di acquisitori, li potrà emettere, invece che al 5, al 4 od al 3% e, sotto questa forma, percepirà una imposta ben più forte di quella a cui ha dovuto rinunciare.
La sola, la vera obiezione contro la nominatività è il timore della emigrazione dei risparmi all’estero. Si deve riflettere però che il danno oggi non può assumere dimensioni troppo grandi: le perdite enormi per il cambio, gli ostacoli vigenti all’acquisto di divisa estera sono impedimenti gravi ad una larga fuoruscita di risparmio all’estero. Molto si parla di invii di capitali all’estero avvenuti per mettersi in salvo dall’imposta patrimoniale: ma suppongo che il rumore sia più grande della realtà ; e quand’anche si fosse giunti a qualche centinaio di milioni o persino a qualche miliardo, che cosa sono di fronte ai 200 o 250 miliardi di ricchezza privata che non poterono e non potranno sfuggire e dovrebbero essere accertati? Aggiungasi che la straordinarietà stessa dell’imposta, da prelevarsi una volta tanto, fa sì che i risparmi futuri, dei quali sovratutto bisogna preoccuparsi dal punto di vista economico, non avranno interesse a fuggire a causa di un tributo che non si preleverà più. Quanto al progetto Meda di imposte sul reddito, è noto che esso adotta un sistema misto fra la nominatività e il titolo al portatore, che non potrà essere causa di emigrazione di capitali.
Ridotto a quest’unico il danno e limitato nella sua portata da circostanze transitorie, che cosa vale esso di fronte ai vantaggi certi e grandissimi politici e sociali? Già questo giornale li ha ricordati:
- necessità assoluta di convincere l’opinione pubblica che si fa sul serio; che tutti sono colpiti e che le fughe sono ridotte al minimo inevitabile in ogni sistema. L’eminente finanziere osservi che con la nominatività sono ugualmente possibili le compiacenti teste di legno tra cui distribuire i titoli dei ricchi, salvo farli ritornare al loro possessore appena eseguito l’accertamento. Egli dimentica che: per godere del beneficio della nominatività i titoli debbono, pur trapassando da persona a persona, rimanere al nome per almeno cinque anni; la finanza ha facoltà di rivedere gli accertamenti fino al 1928;
- che le compiacenti teste di legno devono giurare il falso non solo, ma correre il rischio di venire assoggettati all’imposta annua sul reddito in avvenire;
- necessità assoluta di persuadere i proprietari di terre e case che, mentre essi pagano, anche gli altri, proprietari di valori mobiliari, pagheranno. Una imposta la quale non desse questa sensazione precisa, oggi sarebbe inapplicabile. I proprietari di case e di terreni affittati sono stati fatti oggetto di persecuzioni legislative d’ogni fatta, per i vincoli agli affitti e per gli aumenti di spese e di imposte d’ogni genere. Vi si sono rassegnati, finché alle loro lagnanze si rispondeva che esse erano imposte dall’interesse generale. Non vi si rassegnerebbero più ed insorgerebbero come un sol uomo quando vedessero che la nuova grave imposta colpisce solo essi e minaccia di lasciare sfuggire i possessori di titoli mobiliari. Questa rivolta bisogna impedire, ad ogni costo, rassegnandosi al provvedimento che l’opinione pubblica da tempo reclama, ossia la nominatività dei titoli;
- necessità di impedire che il mezzogiorno d’Italia si proclami danneggiato in confronto al nord. E chi potrebbe chiudere la bocca ai protestatori del mezzogiorno, quando è ben noto che i titoli mobiliari sono più diffusi al nord che al sud? Sottoponendosi alla rude norma, il settentrione acquisterà diritto a chiedere che anche ad esso sia resa giustizia. È ben noto invero che le anomalie tributarie sono ben più estese e profonde nel mezzogiorno che nel settentrione, per quanto tocca le valutazioni di terreni e case. Se nel nord terreni e case sono sottovalutati di un quarto o di un terzo, nel sud la sottovalutazione giunge alla metà od ai due terzi. Fatto noto a quanti vivono nell’amministrazione ed oggetto persino di indagini statistiche. Se il nord vuole giustizia per sé, deve cominciare a sottoporsi esso stesso alla medesima giustizia. Dura lex sed lex.
Che cosa valgono, dinanzi a queste ragioni, le difficoltà tecniche? È vero, molti sono abituati a tenere i loro risparmi in libretti al portatore delle casse di risparmio. Ebbene, si abitueranno come fanno già tanti altri, e senza alcun disturbo, a tenerli in libretti al nome e ne disporranno con deleghe e con assegni ove non possano compiere di persona le operazioni.
I titoli al portatore mutano possessore con grandissima facilità. Ed è vero. Ma è anche vero che i titoli nominativi, non girabili in bianco, mutano possesso in Inghilterra con facilità altrettanto grande. Credo possibile e doveroso escogitare tali norme che la rapidità e la facilità dei trapassi non diminuisca per nulla nel cambiamento. Bisogna prendere ad esempio la Banca d’Italia, le cui azioni si trasferiscono in 24 ore, e migliorar l’esempio, abolendo tutte le tasse e diritti di passaggio, anche quelli di bollo-basta per tutte la tassa di negoziazione – ed eseguendo il trapasso in giornata. Se si vuole, ci si arriva. Anche per i titoli di debito pubblico. I funzionari muoveranno obiezioni infinite; ma i ministri debbono mettere il dilemma: o voi trovate il modo di semplificare i trapassi, od il vostro posto sarà preso da altri che quei modi saprà suggerire ed applicare.
Quanto alle borse, le preoccupazioni sono infondate. Nessuno stima più di me la funzione altissima e feconda delle borse. Senza di esse, nessun titolo potrebbe essere emesso, lanciato, negoziato. Senza di esse, le grandi imprese rimarrebbero prive di capitali. Senza i considerevoli capitali liquidi impiegati in riporti la vita del paese sarebbe resa nelle sue forme più perfette, troppo laboriosa. Sono però così fermo estimatore delle borse, da essere altresì persuaso che i loro frequentatori sapranno trovare la maniera di far riporti, di comprare e vendere a termine, di fare tutte le operazioni speculative che l’opinione comune guarda con orrore, mentre sono feconde e necessarie, anche quando quasi tutti i titoli saranno nominativi. Perché non si dovrebbe saper fare ciò che si fa altrove ogni giorno per masse di titoli grandiose in confronto delle nostre piccolissime; perché le borse non dovrebbero saper fare, senza muovere un titolo, quella catena di operazioni che ogni modesto mediatore di terreni fa in tutte le campagne d’Italia?
Evvia! Dinanzi a queste difficoltà superabili non dobbiamo arretrarci. Lo impone il desiderio di giustizia che è radicato oramai così che, invece di desiderio, bisogna chiamarlo ordine imperioso, al quale a noi altro non resta a fare che ubbidire e cercare i mezzi tecnici con cui l’ossequio alla giustizia tributaria avvenga col minimo danno per la vitalità economica del paese.
IV
La tassazione all’aliquota massima dei titoli al portatore
Pare che il governo di fronte alla viva opposizione del mondo bancario e industriale abbia abbandonata l’idea della nominatività necessaria dei titoli, ottenuta mediante la tassazione all’aliquota massima dei titoli al portatore.
Noi non siamo dei fanatici; rendiamo omaggio alle osservazioni di coloro i quali si preoccupano delle difficoltà di comprare, vendere ritirare, depositare somme e titoli, quando non esistessero più i titoli al portatore. Gli oppositori dovrebbero però persuadersi che si tratta di una scelta non fra il bene e il male, ma fra due mali, a cui non possiamo contemporaneamente sottrarci. Da un lato vi è il male dell’ingiustizia e della frode tributaria; dall’altro gli inconvenienti della nominatività. Il primo è un male gravissimo che sempre più urta l’opinione dei contribuenti, i quali non possono sottrarre i loro beni all’imposta, mentre vedono altri sfuggirvi; è un male, il quale diventa tanto più insopportabile, quanto più sono alti i sacrifici tributari che lo stato deve chiedere al cittadino. Dall’altro vi sono inconvenienti innegabili, a cui finora non si è posto riparo perché pochi erano interessati ad una procedura spedita di trapasso dei titoli nominativi e quelli che avevano ragioni di lagnanze avevano sempre dinanzi a loro la via di uscita di chiedere la conversione dei titoli al portatore. Domani, quando tutti o quasi tutti i titoli fossero nominativi, l’attuale procedura lenta e costosa dovrebbe essere modificata; e non v’è dubbio che, nell’interesse medesimo dello stato e degli enti emittenti, si adotterebbero metodi semplici e facili di trasferimento.
Quando i vantaggi del titolo al portatore siano veramente preminenti, nulla vieta del resto che, fatte salve le ragioni della finanza, il titolo al portatore si conservi. Un direttore di cassa di risparmio ci segnala ad esempio la predilezione spiccatissima che il pubblico ha per i libretti di deposito al portatore, i quali, egli dice, in molte parti d’Italia stanno come due a uno ai libretti nominativi; comodità di versamenti, di prelievi, nessuna necessità di farsi conoscere, spiegano la preferenza, segnalata sovratutto nelle classi popolari e medie. Alcune contadine del milanese ci scrivono preoccupate per i risparmi che esse hanno raggranellato a soldo a soldo e conservano in depositi al portatore; e che domani dovrebbero far conoscere ai mariti imprevidenti e spendaccioni, perché il patrimonio delle mogli dovrebbe accumularsi con quello dei mariti e denunziarsi da questi ultimi. Preoccupazioni ragionevoli, oggettive, non derivanti, come altre, dal desiderio di sfuggire al pagamento dell’imposta dovuta. Dicasi però come possa la finanza assicurarsi che un ricco non dissemini la sua sostanza in centinaia o decine di libretti al portatore, sfuggendo alla dovuta imposta. È assolutamente necessario che il sistema del deposito al portatore sia soggetto a qualche falcidia o a qualche gravame che induca i possessori a preferire il sistema del deposito al nome. Se qualche temperamento è necessario per i minori depositi, per quelli che alla data odierna erano già creati e che con tutta probabilità non appartengono a milionari, si adotti. Un temperamento potrebbe essere quello che vietasse di pagare un interesse superiore, ad esempio, al 2% sui depositi al portatore, devolvendo all’erario il sovrappiù fino all’interesse del 3% oggi per lo più pagato su questi depositi. In tal modo i portatori pagherebbero, sotto questa forma, un tributo straordinario allo stato e si avrebbe un forte incitamento alla conversione al nome. Terrebbero i libretti al portatore coloro per cui davvero questa forma è talmente vantaggiosa e comoda da far passare sopra alla perdita di interesse.
Tolti però alcuni temperamenti nei casi più degni di considerazione, non si vede che cosa si possa sostituire al sistema della nominatività, ove si voglia ottenere davvero il fine dell’esattezza delle dichiarazioni da parte dei contribuenti. Notizie ufficiose direbbero che il governo, abbandonando il sistema della nominatività , farebbe affidamento sul giuramento imposto ai contribuenti, con la comminatoria di gravissime penalità , persino della confisca dell’intero patrimonio per coloro i quali non denunziassero tutte le singole partite patrimoniali, compresi i titoli al portatore.
Anche noi siamo partigiani del giuramento. Però crediamo alla sua efficacia e alla sua bontà quando esso sia un elemento secondario del sistema tributario, non quando esso ne diventi il fulcro, come pare intenda fare il governo.
«Io sono disposto a pagare, purché tutti paghino il giusto»: questa è la dichiarazione che più spesso si ode ripetere dai contribuenti. «Se io sapessi che gli altri pagano il dovuto, a me non importerebbe pagare anche molto. Ciò che irrita, ciò che offende, ciò che spinge alle frodi è sapere che altri froda e nasconde».
Coloro che così parlano pretendono la perfezione assoluta. Pretendono una giustizia tributaria che non è mai esistita, non esiste oggi e non esisterà mai, in nessun paese del mondo. Esigono dai funzionari delle imposte una onniveggenza, una coscienza che nessun mortale cittadino possiede. Molte volte queste pretese alla giustizia assoluta nascondono il desiderio di trovare un pretesto per non fare il proprio dovere.
Tuttavia occorre che lo stato tenga conto di una siffatta condizione degli animi. Se non può far giustizia completa, conviene faccia tutta la giustizia possibile. Se il governo si fosse deciso o si decidesse ancora a rendere necessaria la nominatività dei titoli, i male intenzionati vedrebbero diminuire notevolmente i pretesti loro offerti a nascondere e a frodare. Qualche fuga, qualche possibilità di non pagare esisterebbe ancora. Ma invece di poter frodare 50 o 60 miliardi su 200, se ne potrebbero frodare 5 o 6 soltanto. La situazione sarebbe radicalmente mutata. I frodatori potrebbero essere segnati a dito e non si confonderebbero più in una gran folla. Il falso giuramento diventerebbe raro in materia tributaria e potrebbe essere punito. Vi sarebbe un incitamento all’onestà forzata, proprio nell’onestà forzata altrui.
Ove si abbandoni il sistema della nominatività , ricadiamo negli errori i quali finora hanno reso così debole l’azione della finanza contro i furbi e i frodatori. L’obbligo del giuramento sarebbe efficace solo per:
- i contribuenti dabbene e scrupolosi i quali non avrebbero egualmente messa la loro firma sotto una dichiarazione reticente o erronea, anche se non giurata;
- i contribuenti credenti nella santità del giuramento e nelle sanzioni ultraterrene contro gli spergiuri;
- i timidi, incapaci di mettere altrui nel proprio segreto facendo denunziare da parenti, amici o impiegati i propri titoli al portatore.
Quei contribuenti i quali fossero privi di sentimenti naturali di rigida morale o non fossero tenuti a freno dalla religione o conoscessero le vie di frazionare fra molti denunzianti la propria fortuna, non avrebbero scrupolo a moltiplicare le teste di legno, quando da ciò potessero ripromettersi il lucro di qualche risparmio d’imposta. Con tanti esempi di gente pronta a giurare dinanzi ai tribunali su qualsiasi argomento dietro compenso, davvero non c’è da fare affidamento soverchio su questo espediente fiscale, finché sussistono le condizioni per cui lo spergiuro è economicamente utile.
Noi insistiamo vivamente affinché il governo fermi la sua attenzione su questo punto. Un’imposta patrimoniale destinata a risanare le finanze pubbliche non deve essere causa di ingiustizia stridente. Ma se essa è fondata principalmente sul giuramento, essa crea sicuramente l’ingiustizia e la sperequazione. Il timido, l’onesto, il religioso farà le spese dell’indifferenza con cui i furbi e gli esperti sapranno passare attraverso le maglie del falso giuramento. La ingiustizia sarà tanto più stridente e insopportabile in quanto i furbi e gli abili possederanno la parte maggiore e più tassabile del patrimonio nazionale. Ciò non deve essere a nessun costo.
Il male di cui soffre sovratutto il nostro sistema tributario è la sperequazione, l’ingiustizia di trattamento. Col solo giuramento noi aggiungeremmo ingiustizia a ingiustizia. Erigeremmo un altare al furbo, allo spergiuro. La cosa è tanto immorale che non possiamo credere che il governo possa volerla. Il giuramento è morale ed efficace solo in un ambiente in cui automaticamente la frode sia ridotta ad un minimo trascurabile. La nominatività creava un siffatto automatismo di accertamento giusto. Credere che il giuramento possa rimediare alla mancanza dei mezzi efficaci di accertamento è una illusione. Una illusione che sarebbe feconda di ingiustizie atroci.