Opera Omnia Luigi Einaudi

L’aumento del biglietto delle tramvie nelle ferrovie secondarie e nelle tramvie di stato

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/07/1919

L’aumento del biglietto delle tramvie nelle ferrovie secondarie e nelle tramvie di stato

«Corriere della Sera», 1° luglio 1919[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 253-257

 

 

 

Il recente decreto che ordina l’applicazione della giornata di otto ore a favore degli agenti delle ferrovie, tramvie e linee di navigazione interna concesse all’industria privata, e prescrive aumenti di paghe e stipendi a partire dall’1° marzo, interessa anche la generalità dei cittadini per un corollario non desiderabile che esso contiene.

 

 

«Gli agenti delle ferrovie secondarie e delle tramvie urbane vogliono le otto ore e paghe cresciute? Io, stato, riconosco che le società esercenti non potrebbero far fronte alle maggiori spese. Queste società, circa duecento in Italia, con 75.000 agenti e 10.000 chilometri di linee esercite, hanno avuto i loro bilanci dissestati dal rialzo di prezzo del carbone, dall’alto costo dei materiali, da precedenti aumenti di paghe; né i già concessi rialzi di tariffe basterebbero a far fronte alle spese. Quindi consento che esse aumentino, a partire dall’1 giugno 1919, gli abbonamenti del 40% per i biglietti di prima classe, del 20% per quelli di seconda classe o di classe unica, e del 10% per quelli di terza classe; di 5 centesimi i biglietti delle tramvie urbane, eccettuate le corse popolari; di 25, 10 e 5 centesimi i biglietti di prima, seconda e terza classe delle linee intercomunali tramviarie e di navigazione interna; e di 50, 25 e 10 centesimi i biglietti delle terze classi per le ferrovie secondarie. Il diritto supplementare è raddoppiato per i biglietti di andata e ritorno; ed è in misura fissa di 25 centesimi per i biglietti di trasporto di bagagli, cani e biciclette».

 

 

Siamo talmente abituati agli aumenti di prezzi, che la singolarità della cosa più non ci stupisce. Molti la giustificheranno, osservando che così si fece già in altre occasioni.

 

 

Mi sia concesso di negare la solidità della teoria del precedente e di affermare che il provvedimento singolare merita almeno qualche commento. Anche il municipio di Milano sembra considerare degno di commento un provvedimento che lo costringe ad elevare il prezzo delle corse tramviarie normali – quelle dopo le ore 9, perché le corse popolari prima di quell’ora rimangono ferme a 10 centesimi – da 20 a 25 centesimi. Noto che l’aumento non pare che sia una conseguenza necessaria del decreto, perché da informazioni assunte a Torino risulterebbe che il prezzo del biglietto rimarrebbe qui fermo in 20 centesimi. Se ho capito bene – e in tempi di decreti luogotenenziali accade spesso a cittadini non specialisti, non iniziati ai misteri della nuovissima legislazione di non capire – parrebbe che in qualche città, come Milano, dove per altre ragioni il prezzo era stato elevato a venti centesimi, il decreto costringa all’aumento a 25 centesimi, mentre in altre città dove l’aumento odierno, portato dal decreto, era stato applicato in anticipazione, esso non debba ripetersi un’altra volta ed il prezzo stesso rimanga fisso a 20 centesimi.

 

 

Comunque sia di ciò, una prima domanda è lecita: furono fatti studi per controllare che l’aumento di spesa per il pubblico non sia superiore all’aumento di onere per le amministrazioni?

 

 

Pare di no. Tanto è vero che l’aumento della tariffa si chiama tassa e va versato nelle casse dello stato. Le singole società, poi, dovranno fare – a norma di un regolamento ancora da emanarsi dalla commissione dell’equo trattamento – un bilancio e dimostrare quale danno o onere esse subirono in causa della riduzione dell’orario ad otto ore e dell’aumento delle paghe.

 

 

Le società, naturalmente e ragionevolmente, metteranno in conto anche le perdite eventualmente subite per la contrazione del traffico che fosse stata cagionata precisamente dall’aumento delle tariffe. Lo stato riceverà il conto: lo controllerà, Dio sa come, e rimborserà alle società le perdite, prelevando l’occorrente dal fondo delle tasse di cui si disse sopra. Il congegno, non si può negare, è meraviglioso. Il legislatore – chi è il legislatore oggi in Italia? – considera principii ovvi questi:

 

 

  1. che ogni qualvolta a una corporazione di operai e di impiegati di enti semi-pubblici salta in mente di ottenere paghe maggiori, una legge debba intervenire a sancire il desiderio, invece di lasciar sbrigare la questione tra gli interessati;

 

  1. che la legge debba, per permettere l’esaudimento del desiderio, imporre tasse sugli utenti del servizio.

 

 

Domani i passeggeri dei trams dovranno pagare 25 centesimi invece di 20, 20 invece di 15, perché qualche tempo fa si concessero aumenti ai tramvieri e oggi ai ferrovieri secondari. Ciò sarà naturale; potrebbe essersi verificato anche senza legge; ma non è singolare che proprio una legge debba aumentare per tal modo le tariffe delle tramvie urbane? Gli impiegati gridano, e a ragione, contro la necessità di dover spendere 70 centesimi al giorno per quattro corse di cui una a 10 centesimi; e per tutta risposta lo stato aumenta, con un decreto, la spesa a 85 centesimi. Supponiamo che in una famiglia vi siano due persone costrette a far uso delle tramvie per quattro volte al giorno per 300 giorni all’anno. Prima della guerra quella famiglia spendeva 210 lire all’anno, oggi è costretta a spendere 510 lire. Come si può pretendere che la gente non si congestioni al centro, che ivi i fitti non rincarino, che la fabbricazione alla periferia, nei sobborghi, nelle auspicate città-giardino non sia resa più aleatoria? Codesti legislatori parmi abbiano perduta la testa e stiano gettando i semi di malanni sociali gravissimi. «Imposte», sì e molte; ma devono essere imposte sul reddito e sui consumi non di prima necessità; non sugli strumenti di lavoro. Se si è ritenuto necessario esentare dall’imposta le corse fino alle 9, per la stessa ragione dovevansi esentare le corse dalle 12 alle 14, che sono fatte per necessità di ufficio e di lavoro. Altrimenti, la piccola borghesia, che ha avuto i redditi stazionari, rimarrà stritolata. Lo stato, inoltre, dovrebbe almeno per conto suo, evitare che l’aumento del costo dei pubblici servizi vada oltre il doppio; data la diminuzione del valore della lira, si può ammettere la corsa popolare portata da 5 a 10 centesimi e quella ordinaria da 10 a 20. Andare al di là dei 20 centesimi parmi un pessimo esempio dato dallo stato ai privati.

 

 

  1. Ma forse non meno importante è l’altro principio contenuto nel decreto: quello del conto corrente istituito tra lo stato, che incassa i proventi della nuova tassa, e le duecento società che presentano il conto delle maggiori spese dovute al decreto. Che razza di roba è questa? Ha pensato il legislatore che ciò vuol dire disinteressare le società esercenti da ogni cura e responsabilità per le variazioni di spesa intervenute, ad esempio, dopo l’1 gennaio 1919? Che cosa importa alle società che gli agenti siano pagati il prezzo giusto ovvero troppo, che essi lavorino o no, che siano nel numero giusto o in troppi? Paga il fondo tasse presso il ministero! Si può immaginare niente di più disastroso per lo spirito di economia, di buona amministrazione, di freno all’aumento dei costi? Qual limite vi sarà all’aumento delle paghe e delle spese del personale? Fino a ieri una società o un’impresa municipale esercente tramvie non poteva essere costretta a dare aumenti di paghe al di là dei mezzi del suo bilancio. Se gli agenti chiedevano di più, ciò voleva dire che quell’industria era povera ed essi avevano interesse ad abbandonarla, se il mercato offriva loro altrove di più. Adesso non più: c’è il fondo generale delle tasse che paga, la fontana miracolosa che gitta latte e miele per tutto il mondo.

 

 

In parole povere, questo decreto prepara la statizzazione delle ferrovie secondarie e delle tramvie urbane. Immagino che le società si siano già rassegnate e vi si preparino. Al solito, ci si arriverà senza saperlo. A un certo punto, il vero esercente, il vero responsabile sarà lo stato, e si dirà: facciasi l’ultimo passo, e lo stato riscatti l’esercizio.

 

 

Molti spropositi si fecero in Italia senza accorgersene. Questo si aggiungerà ai tanti. Sia ben chiaro che si tratta di uno sproposito. Le persone sennate, la stessa commissione governativa per l’ordinamento delle ferrovie, sono d’opinione che lo stato abbia commesso un errore grave statizzando tutte le reti dello stato. Esso doveva esercire solo le grandi reti, lasciando le reti minori, secondarie, a compagnie private, che avrebbero potuto adottare sistemi economici di esercizio. Invece di ascoltare questi saggi propositi, il legislatore si incammina sulla via opposta, e fa il primo passo verso l’esercizio diretto delle altre ferrovie secondarie e persino delle tramvie interurbane e urbane. A tutte finiranno di applicarsi i medesimi organici, i medesimi gradi e stipendi, i medesimi criteri di esercizio. Una cosa pazzesca, feconda di costi alti. I trasporti sono uno dei mezzi più potenti di progresso economico che si conoscano. Ma occorre che siano esercitati economicamente. Oggi, in Italia, abbiamo invece la smania dei costi alti. Si vuol fare in grande; tutto diventa enorme, colossale, gigantesco. Ma il colossale e il gigantesco si riferiscono solo alla partita spesa, non alla partita entrata. «Massimo costo col minimo risultato» – ecco la divisa del legislatore italiano del dopo guerra. Sarà questa la nuovissima scienza economica che si dice essere stata inventata in sostituzione di quella che un tempo si studiava a scuola? Finora però i padreterni di Roma non hanno osato fare un decreto per ordinare di insegnare gli spropositi nuovi al posto delle verità antiche. È un piccolo vantaggio di cui godiamo ancora in confronto della Russia.

 



[1] Con il titolo Il biglietto delle tramvie aumentato. Verso le ferrovie secondarie e le tramvie di stato [ndr].

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