Riforma amministrativa ed orario unico
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 20/05/1919
Riforma amministrativa ed orario unico
«Corriere della Sera», 20[1], 27[2] e 29 maggio[3], 5 giugno 1919[4]
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 230-252
I
Orario unico e ruoli aperti[5]
Il pubblico avrebbe torto a considerare l’agitazione degli impiegati dello stato alla stregua di una qualunque altra agitazione intesa ad ottenere semplicemente un aumento di stipendi ed una riduzione di ore di lavoro. In uno stabilimento in cui il lavoro è bene organizzato od in cui il danno della cattiva organizzazione ricade tutto sull’industriale, si può all’ingrosso contentarsi di non spingere lo sguardo al di là delle paghe e dell’orario. Nel caso degli impiegati pubblici le cose non possono essere messe in questi termini: il lavoro degli uffici è male organizzato, epperciò, sebbene le paghe siano modeste, la resa del lavoro è bassa ed il costo alto; ed opprimenti le imposte che i contribuenti debbono pagare per mantenere un ceto di funzionari povero, malcontento, invidioso ed improduttivo. Finché si lascia immutata la organizzazione attuale, bisogna dichiarare che il problema è insolubile. Se lo stato desse anche, come propone la commissione governativa presieduta dal sottosegretario al tesoro, 500 o 600 milioni di lire all’anno in più ai suoi impiegati, accollerebbe ai contribuenti un onere d’imposte grave, forse intollerabile se si tenga conto delle nuove imposte che per altre cause si dovranno istituire; né il malcontento degli impiegati sarebbe gran fatto scemato. Non sono 1.000 lire di più all’anno che possono rendere paghe le schiere dei pubblici funzionari, i quali si lamentano del caro – viveri e dell’arresto delle loro carriere. Cominciare a risolvere il problema economico, rinviando la risoluzione dell’organizzazione del lavoro, non è risolvere qualcosa. Forse è peggio che nulla.
Il problema vero si pone così: trovare il metodo con cui sia possibile migliorare le sorti economiche degli impiegati senza sacrificio per i contribuenti. Sembra paradossale porre il problema così, e non è. Ogni industriale tende a risolvere il problema suo, dei salari operai, in questo modo. In generale, si può affermare che quei soli rialzi di salari durano, i quali non sono ottenuti a spese né dei profitti necessari a stimolare lo spirito di intrapresa, né dei consumatori. Il maggior salario deve pagare se stesso, con una migliore resa del lavoro. Altrimenti bisognerebbe supporre che esistano in qualche buca misteriosa tesori nascosti, da cui si possano ricavare a volontà gli aumenti delle paghe. Certi teorici socialisti immaginano in verità l’esistenza di una simile buca misteriosa e la chiamano «sfruttamento capitalistico del lavoro»; ma trattasi di una favola infantile, buona a spiegare qualche eccezione, non la generalità dei fatti.
Gli impiegati debbono persuadersi di questa verità semplice: o essi organizzeranno o lasceranno organizzare meglio il loro lavoro e le paghe più alte verranno da sé e non costeranno nulla ai contribuenti; ovvero ad essi continueranno a darsi a stento ed a spizzico dei caro-viveri insufficienti a mettere in sesto i loro bilanci e ciononostante cagione di aggravio eccessivo per i contribuenti.
Questa verità sembra sia stata finalmente sentita dagli impiegati, alcuni dei quali mettono avanti proposte di riforme da compiersi nel tempo stesso in cui dovrebbero aumentarsi i loro stipendi. La commissione citata ha anch’essa sentita questa necessità. Il proposito è degno di lode; e la tendenza deve essere incoraggiata. Per non star nel vago, fa d’uopo cominciare subito a scernere le proposte buone dalle cattive.
Ve n’è una, pessima, sinora non fatta propria da commissioni e governi, che bisogna immediatamente prendere con le molle ed esporre all’indignazione dei contribuenti italiani, ossia di coloro che saranno chiamati a farne le spese. È una vecchia pretesa degli impiegati romani, i quali in genere sono la sezione meno produttiva del ceto. Da anni costoro hanno inventato il feticcio dell’orario unico e delle sei ore di ufficio. Adesso le ore sono sette, divise in due turni, nominalmente dalle 9 alle 12 e dalle 14 alle 18. Vorrebbero gli impiegati cominciare, a seconda delle stagioni, alle 8 od alle 9 ed andarsene alle 14 od alle 15. È una pretesa inammissibile e giova sperare che il governo saprà puntare i piedi e dir di no, ad ogni costo, anche a costo di lasciare verificarsi quella cosa divertente che potrà essere uno sciopero degli impiegati della capitale. Orario unico e sei ore vorrebbe dire, di fatto, riduzione del lavoro, sì e no, a due o tre ore mattutine. L’impiegato, se lavora sul serio, non può con attenzione e frutto prestare servizio per 6 ore continuative. Alla quarta, peggio alla quinta ed alla sesta ora la sua resa è minima. Un riposo intermedio è necessario. L’orario unico non abolirebbe il riposo intermedio. Il proposito, tacito eppur trasparente, dei propugnatori della «grande» riforma dell’orario unico è di far pagare il riposo allo stato. Alle 12, quando non si aggirerà più anima viva nei corridoi ministeriali – chi va in giro dalle 12 alle 15 per le vie di Roma e per le scale dei ministeri? – Ci sarebbe una trasformazione a vista nelle stanze e stanzette e salette dei templi burocratici: gli scrittoi si convertirebbero in tavolini da ristorante ed ogni impiegato tirerebbe fuori il cestino delle provviste. Colazione, lettura del giornale, fumatina. Tanto il pubblico non c’è o può aspettare o la pratica può attendere l’indomani mattina.
Alle 14 od alle 15, si prende la via di casa o si vanno a tenere i conti o la corrispondenza presso qualche ditta privata od a fare il giro delle botteghe che vendono l’articolo, di cui si ha la rappresentanza. Adesso, uscendo alle 18, è troppo tardi per fare qualche altro mestiere redditizio; e bisogna contentarsi dello «straordinario» che il capo ufficio fa fare fuori orario. Né la piaga del lavoro «straordinario» cesserebbe coll’orario unico. Anzi, colla riduzione del lavoro effettivo a due o tre ore mattutine, le «pratiche» si accumulerebbero per modo da rendere «necessario» ai capi ufficio pregare gli impiegati a trattenersi dopo le 14 o le 15 al ministero, per fare un po’ di «straordinario». È incredibile quanto forte sia ora la proporzione del lavoro «straordinario» al lavoro «ordinario» nei ministeri. Talvolta sembra che tutto il lavoro si faccia in ore straordinarie e che le ore ordinarie si siano volatilizzate senza lasciar traccia. L’impiegato è portato a considerare lo stipendio fisso come un diritto acquisito, una pensione di grazia, in cambio di cui non si ha il dovere di dar nulla. Il dovere di lavorare nasce solo quando cominciano le ore straordinarie, incerte e pagate in ragione del lavoro prestato. Questo malanno, ingigantito col tempo per la tenuità delle paghe e la furbizia degli uomini, sarebbe cresciuto dall’orario unico. Il quale perciò deve essere combattuto, additato all’esecrazione delle persone riflessive e respinto risolutamente dal governo.
Sarà combattuto, come immorale, dai migliori tra gli impiegati medesimi. Tra di essi non sono pochi oramai coloro i quali vedono le magagne dei loro uffici ed aspirano a trarsene. Un ottimo libro ha scritto intorno al problema della burocrazia un funzionario del tesoro, Ettore Lolini (Burocrazia, editrice La Voce, Roma 1919); un eccellente riassunto dei punti più importanti del problema ha pubblicato nel suo numero 19 dell’anno in corso l’«Unità» di Firenze. Alcune proposte buone ha fatto la commissione De Nicolò:
- generalizzazione del sistema dei ruoli aperti, per cui il segretario può contentarsi, se non ha le qualità necessarie per diventar capo divisione, di rimanere segretario per tutta la vita, perché ha dinanzi a sé una carriera economica discreta. Sperasi in tal modo di togliere di mezzo una delle cause più potenti di moltiplicazione dei pani e dei pesci, ossia delle divisioni, direzioni generali, ecc.;
- riduzione dei gradi a quelli di segretari, capi divisioni e direttori generali; abolendo i primi segretari, i capi sezioni, i vicedirettori generali, che sono invenzioni provocate dal desiderio di crescere, senza parere, gli stipendi;
- promozioni esclusivamente per esame dal grado di segretario a quello di capo divisione e da questo a quello di direttore generale. Non pare però che gli esami siano resi abbastanza severi, anzi severissimi, come dovrebbero essere, per ridurre al minimo il numero degli aspiranti;
- istituzione di un fondo di cointeressenza uguale al 10% dello stanziamento di spesa per ogni ufficio e delle economie per vacanze ed assenze non retribuite. Si spera di interessare così gli impiegati a cercare di ridurre il proprio numero e a non fare dello «straordinario» perché la spesa di questo verrebbe dedotta dal fondo di cointeressenza. Proposte buone, ma che sono appena l’inizio dell’opera da compiere. Ricordo un po’ alla rinfusa:
- abolizione di uffici inutili o dannosi: sottoprefetture, commissariati e dicasteri creati per la guerra;
- attribuzioni di funzioni definite a ciascuno dei tre gradi residui, abolendo la necessità dei segretari di riferire ai capi divisione ecc. per gli affari di propria competenza; e responsabilità diretta dei funzionari per le funzioni ad essi precisamente attribuite;
- riduzione al minimo dei funzionari di concetto, direttivi. Il resto del personale d’ordine, di scrittura, di archivio, dattilografe, stenografe reclutati con norme speciali, simili a quelle in uso nella industria privata;
- abolizione di tutte le barriere tra i funzionari della capitale e delle provincie. Parità di gradi ed intercomunicabilità perfetta tra le due categorie. Anzi nessuno possa andare al centro, se non ha prima fatto esperienza esecutiva nelle provincie. A questo riguardo, le tabelle della commissione De Nicolò sono troppo specificate e lasciano sussistere troppe barriere tra amministrazione ed amministrazione, troppe differenze tra centro e provincie, dannose ed inaccettabili.
Si potrebbe continuare. Ma bisogna mettersi su questa via. Altrimenti, come sarà mai possibile dare ai segretari da 4.000 a 14.000 lire, ai capi divisione da 12.000 a 18.000 lire ed ai direttori generali 25.000 lire, come dagli ordini dei funzionari è richiesto? Chi conosce la delicatezza e la importanza degli uffici che dovrebbero essere compiuti dai tre ordini di pubblici funzionari sente che quegli stipendi sarebbero ben meritati ed appena adeguati. Ma oggi sarebbe pura pazzia pensare a quelle cifre. Anche le cifre della commissione De Nicolò fanno pensare, dato il numero strabocchevole degli impiegati attuali, se esse non siano un salto nel buio per il tesoro dello stato. La verità è una sola: oggi gli stipendi chiesti dai funzionari, da 4 a 25.000 lire, ragionevolissimi per se stessi, non sarebbero meritati dalla grande maggioranza dei pubblici funzionari. L’opinione generale li risentirebbe come una ingiustizia; ed i contribuenti se ne lagnerebbero come di una spogliazione.
Ed avrebbero ragione. Il miglioramento economico dei pubblici funzionari è inscindibilmente collegato con la riforma della amministrazione e con l’elevamento del lavoro prestato nei pubblici uffici.
II
Tabelle di stipendi e gonfiamento di organico
Le recriminazioni degli impiegati intorno alla tabella degli stipendi apprestata dalla commissione dei sette (presidente De Nicolò, relatore Ranelletti) sono già cominciate. I provinciali si lamentano delle preferenze ai centralisti, i ragionieri invidiano gli amministrativi, questi ribattono affermando che, entrando più tardi in carriera e con una laurea, sono in realtà bistrattati in confronto ai ragionieri. Gli archivisti, i funzionari delle carceri, delle intendenze di finanza, delle agenzie delle imposte hanno tutti qualcosa da ridire. Quando verranno alla luce i ruoli speciali, il coro delle lamentele salirà al cielo.
Per un momento suppongo di fare anch’io parte di un coro, quello del pubblico; ed aggiungo le mie critiche a quelle degli interessati. Pare a me che coloro i quali compilano tabelle di stipendi ed i ministri che vi danno il loro consenso vivano nel mondo della luna. Si dimentica che il problema massimo dello stato nel momento presente è di unire i due capi del bilancio, di trovare i mezzi di fronteggiare la marea crescente delle spese. Fino ad alcuni mesi fa, si poteva dire che le spese permanenti dello stato, a cose assestate, dovevano salire a 7 miliardi di lire all’anno. Era un bel salto dai 2 miliardi e mezzo di prima della guerra. Ma ora? Sono 8, o 9 o 10 i miliardi di spesa probabile annua? Nessuno può dirlo. Ogni giorno, il ministro del tesoro dice di sì a qualche spesa nuova, chiestagli urgentemente da qualche suo collega. Ancora ieri il ministro dell’industria, questo fucinatore incorreggibile di malanni e di cataplasmi, ha ottenuto di potere erigere un osservatorio economico ed un ufficio per le piccole industrie. Può darsi che di lì esca qualche stampato più o meno leggibile, utile per qualche studioso, ignorato da industriali e commercianti. Ma dove si è andato a nascondere il buon senso se si reputa possibile, con un bilancio che s’avvia verso l’abisso, in cui le entrate annue permanenti superano di poco i 4 miliardi, mentre le spese hanno superato certamente il doppio, aumentare ancora la falange dei pubblici funzionari poveri, malcontenti, ed invidiosi? Se avete, signor ministro dell’industria, da sistemare qualche centinaio di impiegati straordinari od avventizi assunti per i tanti commissariati ed uffici di guerra, ricordatevi che il miglior metodo di sistemarli non è già di dar a ciascuno di loro un cannocchiale e mandarli a specolare, dall’alto di un osservatorio economico, le fortune d’Italia, disturbando con i loro ordini e contrordini i liberi navigatori; ma di mandarli energicamente a spasso, affinché vadano a crescere le ciurme di quei navigatori, i quali dovranno lavorare e produrre la ricchezza senza di cui nessuno colmerà la falla dei 4 o 5 miliardi all’anno aperta nel bilancio dello stato.
L’opinione pubblica grida: licenziate i padreterni, via le ostriche dallo scoglio, a spasso gli avventizi e gli straordinari! I ministri si affannano invece a «sistemare» gli uffici, ad ampliare organici, a crescere la torma della gente abbarbicata al bilancio. Pare che, nell’imminenza dei decreti che aumentano gli stipendi ed aboliscono i gradi di capi sezione e vicedirettori generali, i vari ministri si diano un gran da fare per creare nuove direzioni generali, nuovi «osservatori», nuovi «uffici per le piccole industrie» per mettere a posto gente che si sente minacciata nel proprio personale interesse.
In tal modo il male si aggrava sempre più. Chi pensa al modo di fare economie sul serio, di ridurre il numero degli uffici e degli impiegati? Da anni, su giornali speciali ed in lettere private, il signor Sigismondo Balducci, un tipo originale di ferroviere almanaccante sempre qualcosa di nuovo nell’interesse pubblico, infastidisce ministri, deputati, pubblicisti dicendo e documentando che negli uffici amministrativi delle ferrovie si compiono moltissimi lavori inutili, si mantiene una caterva di impiegati coll’unico risultato di non dare ascolto ai reclami del pubblico, di tirare in lungo le pratiche e di scontentare tutti e principalmente gli speditori di merci, derubati del loro avere, angariati con giudizi interminabili e per lo più condotti ad abbandonare per disperata o prescritta la pretesa di ottenere un indennizzo per il mal perduto. Egli, il Balducci, si profferse infinite volte di fare uno sperimento dei suoi criteri di semplificazione: gli fosse data mano libera in un ufficio ed avrebbe dimostrato che si poteva ridurre le spese, accelerare il lavoro e contentare il pubblico. Scrisse e fece parlare da deputati. Ohibò! Qual è il ministro, qual è il direttore generale, il quale consente ad ammettere che si spende troppo e male? Un industriale sarebbe felice di dare carta bianca ad un suo dipendente che si offrisse di ridurre la spesa in un suo reparto; salvo a fargli pigliar la porta se non riesce. Il governo non può: bisogna rispettare la gerarchia, le sacre scartoffie e mantenere 500.000 impiegati irritati e mal pagati e semi-oziosi, pur di non cercare il modo di averne 250.000 ben pagati, alacri ed accetti al pubblico.
Ancora. Il pubblico, leggendo la tabella degli stipendi, non ha potuto a meno di fare una osservazione curiosa. La tabella è lunga a mala pena una colonna di giornale; ma di questa un buon terzo, per non dire i due quinti sono occupati dagli stipendi dei ragionieri. Chi immaginava che i ragionieri tenessero un così gran posto nell’amministrazione dello stato? Questa è veramente una delle pesti d’Italia: la mania del controllo. Tutti devono essere controllati. Ci sono quasi più controllori che agenti attivi. Nessuno nega che una delle due maniere con cui si ristabilisce l’equilibrio nel bilancio sia di spendere bene; ma nessuno può illudersi di ottenere lo scopo moltiplicando, raddoppiando, triplicando i controlli: alla periferia, al centro, al tesoro, alla corte dei conti. Questa è invece cagione di lentezza, ossia di sperpero.
Ciò che non è più curioso, è che queste falangi strabocchevoli di controllori siano più ben pagate dei funzionari produttori. I ragionieri centrali hanno stipendi i quali vanno da 4.000 a 9.600, da 9.500 a 12.200 e di 13.200 a seconda dei gradi. Non dico che non li meritino. Ma che cosa meriterebbero in confronto gli agenti delle imposte, ai quali vengono tuttavia assegnati, a seconda dei gradi, stipendi i quali vanno da 4.000 ad 8.000, da 7.500 a 10.000 e di 12.200 lire? All’infuori della boria, la differenza tra i «controllori» ed i «produttori» è tutta in favore dei secondi; ed i sette propongono di pagare questi meno dei primi, e meno anche dei funzionari delle intendenze di finanza, i quali dovrebbero essere ridotti a fare soltanto le cose proprie, cessando di invigilare inutilmente altrui bastando alla bisogna una piccola parte dei funzionari ora esistenti.
Questa è davvero amministrazione da mondo della luna! Come? In un momento, in cui mancano da 4 a 5 miliardi all’anno a bilanciare le spese alle entrate, in cui è urgente aumentare molto, moltissimo le entrate, voi mettete all’infimo posto della scala degli organici e degli stipendi precisamente quei funzionari, i quali vi dovrebbero procacciare le centinaia di milioni ed i miliardi? A capo di uffici come quelli di Milano, Genova e Torino, i quali rendono allo stato centinaia di milioni all’anno, mettete funzionari pagati oggi 8.000 lire lorde, domani 10.000 lire pure lorde! Ma dove è il buon senso? Son funzionari, questi, i quali ogni giorno contrattano con contribuenti piccoli, medi e grossi le cifre dell’imponibile. Al loro criterio discrezionale, al loro zelo, al loro spirito di giustizia è affidato il carico gelosissimo di fissare il debito del contribuente in 1.000 piuttosto che in 500 lire, in 1 milione piuttosto che in 500.000 lire. Voi pagate costoro meno di un ragioniere, che controlla cifre e spulcia carte per vedere se sono d’accordo con la legge scritta! Ma gli agenti delle imposte dovrebbero essere nel tempo stesso cani da caccia dotati di fiuto finissimo per iscoprire la materia imponibile, giuristi per precisare l’obbligo del contribuente, economisti e tecnici per valutarlo, magistrati per tenere la bilancia imparziale tra fisco e contribuente e tra contribuente e contribuente. E voi a costoro date ora 600 e darete poi 750 lire nette al mese, quante oggi guadagna un buon operaio! Epperciò i migliori se ne vanno. Epperciò l’imposta sui sovraprofitti darà 2 miliardi in tutto, invece dei 3 o 4 miliardi che avrebbe potuto dare, senza menomamente mutare la struttura della legge; epperciò la riforma tributaria Meda sarà inapplicabile, né si potrà sul serio applicare quella qualunque riforma che astrattamente potesse essere concepita come ottima e massima.
Tutte queste cose il ministro del tesoro, che è quello responsabile del bilancio dello stato, le sa e le vede. Ma occorre che l’opinione pubblica lo appoggi contro le richieste petulanti e dannose dei suoi colleghi, i quali non fanno che chiedere spese e poi spese e ancora spese e neppure un istante si preoccupano di fare economie e poi economie e poi ancora economie e di fare entrare nelle casse dello stato imposte e poi imposte e poi ancora imposte. Se il ministro del tesoro non ha il coraggio di virare energicamente di bordo, è da temere fortemente che la nave dello stato andrà a dar di picco negli scogli. In tal caso non potranno certo gl’impiegati – i quali oggi vociferano contro chi ammonisce non potersi aumentare gli stipendi senza riformare l’amministrazione – salvare carica e stipendio.
III
Orario unico e rendimento del lavoro
Signor direttore,
Il professor Einaudi nel suo recente articolo Il problema della burocrazia si è scagliato contro quella «pessima proposta» che è la richiesta avanzata da tutte le categorie dei funzionari dello stato per l’attuazione dell’orario unico.
Non è intendimento della federazione nazionale tra i funzionari di ragioneria dello stato ripetere qui tutte le argomentazioni che rendono indispensabile per unanime consenso di studiosi e di interessati l’adozione dell’orario unico nelle amministrazioni pubbliche. L’agitazione rimonta a troppi anni perché la pubblica opinione non sia informata attraverso le ampie discussioni della stampa, unanimemente concorde con gli impiegati nell’invocare l’attuazione della riforma strettamente collegata con l’interesse dell’erario, col problema delle abitazioni e con quello del caro-viveri.
Tutte queste ragioni rimangono oggigiorno, con l’aggravante di un peggioramento progressivo, e ad esse ci limitiamo a fare riferimento.
Vogliamo però far presente al professor Einaudi che quella dell’orario unico è una «pretesa» degli impiegati «romani» per il semplice fatto che tale orario è già attuato presso tutti gli uffici dell’amministrazione provinciale aventi rapporti col pubblico.
E noi siamo certi che non si sia mai dovuto lamentare alcun inconveniente in conseguenza dell’orario unico vigente negli uffici governativi di Milano, ove pure il movimento commerciale è senza confronto più intenso di quanto sia alla capitale.
Non sappiano trovare la ragione che renderebbe impossibile negli uffici italiani ciò che si pratica nell’amministrazione inglese senza dar luogo ad alcuna protesta per parte del pubblico egualmente interessato ed egualmente esigente.
Né si vede per quale motivo gli uffici governativi centrali dovrebbero, soli, continuare ad attuare l’orario diviso quando tutti gli istituti di credito hanno già in vigore l’orario unico e quando apparisce evidente che anche tutte le aziende private dovranno seguirne l’esempio.
Neppure sembra possibile opporre l’interesse dei frequentatori dei ministeri, poiché sono note le difficoltà non lievi derivanti appunto dall’ordinamento attuale degli uffici governativi chiusi quando gli istituti di credito sono aperti e viceversa, aggiungendo che gl’interessati sarebbero invece notevolmente avvantaggiati dalla possibilità, derivante dall’attuazione dell’orario unico, di avvalersi dei treni serali per il ritorno ai grandi centri provinciali di provenienza.
Apprezziamo troppo l’ingegno del professor Einaudi per non comprendere che egli ha voluto scherzare quando ha chiesto chi vada in giro per le vie di Roma dalle 12 alle 15.
Forse si riferisce ai disagi delle ore estive? Ma sono gradevoli per i buoni quiriti perché deliziate dal caratteristico «ponentino».
Ché poi fossero ore torride, non si vede appunto perché in quelle ore debba infliggersi ai poveri impiegati il martirio di una doppia gita alle eccentriche abitazioni.
D’altronde noi reclamiamo l’orario insieme alla riforma funzionale dell’amministrazione dello stato. Quella riforma che migliorando le condizioni dell’impiegato e aumentandone le responsabilità ne rialzi la coscienza.
E speriamo confini per sempre negli archivi della letteratura amena, le fumatine, le letture dei giornali e gli spuntini fatti in ufficio.
Tutto si rinnova. È possibile che la burocrazia debba restare immota ed immutata?
Mi creda, signor direttore,
Il presidente della federazione nazionale
tra i funzionari di ragioneria dello stato
Virgilio Vercelloni
Se il presidente della federazione tra i funzionari di ragioneria dello stato crede di accaparrarsi le simpatie dell’opinione pubblica con lettere del genere di quella che sopra è trascritta, sbaglia di grosso. Può darsi che gli impiegati romani abbiano qualche ragione contingente per desiderare l’orario unico di sei ore ed un cortese corrispondente me le accenna: deficienza di comunicazioni tramviarie nella capitale, lontananza dei ministeri dalle case accessibili per prezzo, peso non sopportabile delle corse tramviarie per molti scarni bilanci di impiegati, necessità quindi di lunghe corse asfissianti e debilitanti tra casa ed ufficio. Questi sono argomenti persuasivi, non a favore dell’orario unico, ma a favore del miglioramento dei servizi tramviari nella capitale ed eventualmente, in casi speciali di impiegati costretti ad abitare in luoghi lontani, del rimborso dell’abbonamento tramviario da parte dell’amministrazione.
Ma gli esempi citati dal presidente dei ragionieri dello stato non tornano. Non so che cosa accada in Inghilterra e negli altri paesi del mondo. Non ho neppure avuto modo di fare un’inchiesta nelle varie città d’Italia per appurare come veramente stanno le cose. Ma l’esperienza mi ha insegnato ad essere diffidentissimo degli esempi forestieri e lontani. Per lo più i libri di legislazione comparata pullulano di spropositi proprio nelle citazioni relative all’Italia, ossia a quelle sole che si ha modo di controllare; il che pregiudica gravemente la credibilità delle notizie relative agli altri paesi. Nel caso nostro, a cose appurate, risulta che a Milano gli istituti di credito hanno bensì l’orario unico di sei ore, ma per il servizio di cassa, ossia per quel servizio che ha contatto diretto con lo speciale pubblico che frequenta le banche. Ma gli impiegati hanno finora fatto un orario da 7 e mezzo ad 8 ore distinte in due periodi, divisi da un intervallo da 1 e mezzo a 2 ore per la colazione. A partire dall’1 luglio a Milano l’orario presso le grandi banche sarà ridotto a 7 ore, dalle 9 alle 12 e dalle 14 alle 18. Dalle 12 alle 14 le banche starebbero chiuse. Il sabato l’orario sarà dalle 9 alle 13. Così, perfino per gli enti, che finora rimanevano aperti nelle ore del meriggio, si è veduta l’opportunità della chiusura.
Pretendere che l’orario sia unico e sia ridotto a sei ore è, ripeto, una pretesa assurda. Quanto prima se ne persuaderanno il presidente dei ragionieri di stato ed i suoi colleghi presidenti o soci di associazioni di funzionari, tanto meglio per la loro causa. Non giova ad essi andar fantasticando su quello che si fa presso enti od uffici diversi da quelli ministeriali. Ogni ufficio ha le sue esigenze. I funzionari devono adattarsi alle esigenze del pubblico, non questo a quello dei funzionari. Può darsi che per taluni servizi di sportello giovi l’orario unico; e lo si deve adottare. Ma è stravagante affermare che l’orario unico giovi sempre al pubblico. Forseché gli uomini in generale non hanno l’abitudine di far colazione o pranzo nelle ore verso le 12-13 d’ogni giorno? Vogliamo sopprimere quest’abitudine per il comodo degli impiegati? Forseché le ore in cui il pubblico si reca nelle banche, negli uffici, negli studi dei professionisti, nelle sedi delle ditte industriali non sono le ore che vanno dalle 10 alle 12 e dalle 14 alle 16, spesso anche fino verso le 18? Non è una teoria novissima codesta, per cui i cittadini che lavorano, che pagano imposte, che hanno diritto di essere serviti dai pubblici funzionari, dovrebbero mettersi a correre furiosamente e senza requie dalle 10 alle 15? Si farà così in Inghilterra, nella Nuova Zelanda, al polo nord ed in Patagonia; ma non si usa far così in Italia. E gli impiegati non hanno alcun diritto di far cambiare le abitudini agli italiani.
Tanto più quando queste abitudini sono ragionevoli ed informate a un gran buon senso. Sei ore di lavoro filate non si possono fare, quando si tratti di lavori richiedenti una certa dose di intelligenza e di attenzione. In climi come l’italiano, sei ore alla lunga sfibrano e diventano poco redditizie. Né viviamo in tempi in cui ci si possa prendere il lusso di lavorare solo sei ore. Bisogna produrre più di prima, se non si vuole tutti immiserire. E per produrre più di prima, sei ore non bastano. Ne occorrono sette od otto, convenientemente ripartite, con un intervallo ragionevole, passate in locali sani, aereati ed intese ad un lavoro che attragga ed ecciti.
Gli impiegati hanno ragione di chiedere molto allo stato. Devono poter condurre una vita non fastosa, ma dignitosa ed indipendente. Sono l’ossatura dello stato: fanno andare la macchina, rotta la quale la società va in sfacelo. L’opinione pubblica è pronta a sorreggerli nelle loro giuste domande. Occorre però che essi dimostrino a chiare note che essi sono i primi a volerla far finita con le vecchie abitudini che hanno resa l’amministrazione costosa per i contribuenti e fastidiosa per i disgraziati che hanno l’obbligo di ricorrervi. Molti giovani valorosi funzionari del centro e delle provincie ne sono persuasi. Costoro non hanno paura di lavorare le sette e le otto ore ed anche più. Vogliono avere una responsabilità propria, essere apprezzati quando lavorano sul serio e non essere messi a fascio con gli altri che cercano di far passare il tempo. Perché gli impiegati sono male pagati e ciononostante il loro costo è altissimo? Perché su 3 impiegati pagati ugualmente a 6.000 lire, uno vale 10.000 lire, il secondo vale 4.000 lire ed il terzo vale zero. Un industriale privato metterebbe il terzo alla porta, non avrebbe mai alzato il salario del secondo oltre le 4.000 lire e sarebbe ben lieto di dare subito, a 25 anni, le 10.000 lire al primo. So bene che tutto ciò non si può fare nelle amministrazioni pubbliche; ma so anche che correnti fortissime burocratiche tendono a parificare, livellare, assicurare continuità di carriera e di organici, ossia ad accentuare una delle cause del malanno. Non tutti sono di questa opinione. Occorre che i migliori che vedono l’assurdità delle sei ore, dell’orario unico, della parificazione meccanica dei buoni e dei cattivi, si facciano coraggio e non si lascino sopraffare dai vociferatori e dai maneggioni. L’opinione pubblica sarà con essi. Volentieri e vivacemente.
IV
Scissiparità e moltiplicazione dei gradi e degli ordini
Nelle manifestazioni rumorose che ebbero luogo da parte degli impiegati del ministero delle finanze contro l’on. Meda vi è un aspetto generale, che merita di essere posto in rilievo. Non so se siano vere le accuse di favoritismi rivolte dagli impiegati contro il ministro. È un punto su cui si può dare un giudizio solo dopo una verifica precisa di fatti concreti. Ma il problema generale è un altro.
Se il servizio dei nuovi monopoli commerciali avesse dovuto essere organizzato secondo il buon senso, allo scopo di ricavare il massimo risultato dalle nuove imposte stabilite col metodo del monopolio, quale norma avrebbe dovuto essere seguita nella scelta degli impiegati? Alla testa un commerciante sperimentato pagato con 50.000 lire all’anno ed una cointeressenza; e sotto di lui un personale tratto dalle aziende che sin qui commerciarono in caffè, zuccheri, petroli e nelle altre derrate il cui commercio doveva essere monopolizzato. Neppure un impiegato doveva essere tratto né dal ministero delle finanze né dai commissariati di guerra per i cui affiliati ora si va cercando ospitalità nei nuovi servizi creati a guisa di ospizi di mendicità per i disoccupati della pace. Alla rigidezza del principio ora detto poteva farsi qualche strappo per qualche posto amministrativo o contabile che direi di collegamento con le rimanenti branche dell’amministrazione dello stato. Pochissimi posti, da contarsi sulle dita di una mano.
È probabile che contro un siffatto ordinamento voluto dal buon senso si sarebbero scagliati i funzionari del ministero delle finanze. Parlo di questi, perché occasione del presente articolo furono i tumulti contro l’on. Meda; ma il discorso si può estendere agli impiegati di qualunque ministero. I centrali hanno la convinzione di essere i «direttivi» e di aver diritto a gittar propaggini a destra ed a sinistra, ogni volta che si ampliano i servizi di un ministero. Donde essi abbiano tratto la persuasione di «dirigere» è un mistero. «Esecutivi» sarebbero invece i funzionari delle provincie od una parte di essi. Per tornare alle finanze, che conosco meglio, «direttivi» sarebbero i funzionari del ministero a Roma, e delle intendenze nelle provincie, ed «esecutivi» gli impiegati delle dogane, del registro, i verificatori tecnici di finanza, gli agenti delle imposte.
Di qui nascono parecchi lamentevolissimi effetti, che sono causa non trascurabile dei guai di che tuttodì noi ci lamentiamo. Non è la sola causa, ché il problema della burocrazia è molto complesso ed è miracolo in un articolo potere accennare ad un solo aspetto di esso.
Primo effetto è la moltiplicazione dei gradi gerarchici. I direttivi a Roma ordinano, l’ordine è trasmesso ai direttivi provinciali e questi lo abbassano agli esecutivi. Qui di solito c’è almeno un organo di troppo ed è il passacarte intermedio. In Italia si potrebbero abolire con un decreto tutte le intendenze di finanza, affidando le funzioni proprie a cui le intendenze adempiono agli uffici che già in parte adempiono agli stessi uffici: alle delegazioni del tesoro i servizi del debito pubblico e della cassa depositi e prestiti, alle agenzie delle imposte i rimborsi, agli uffici del registro tutto ciò che si riferisce al demanio ed alle tasse e così via. Il lavoro, quando è necessario, si farebbe ugualmente e con le stesse persone, meglio pagate, perché ridotte di numero ed alleviate dalle funzioni semplicemente intermediarie o di inutile parere o figurativa sovrintendenza.
Ma il primo effetto è aggravato a mille doppi da un altro: che i tre ordini di funzionari sono chiusi in se stessi, né v’è passaggio dall’uno all’altro. I direttivi romani non ammettono che i direttivi provinciali invadano il loro campo; né, questi, vogliono essere contaminati dagli esecutivi. Chi è nato in un gruppo deve vivervi sino alla morte. Potrebbe l’esecutivo concorrere ai posti messi a concorso nel ministero o nelle intendenze; ma dovrebbe ricominciare la carriera dall’infimo grado di segretario. Il che costituisce una barriera assoluta tra l’un ordine e l’altro, l’uomo di quarant’anni, sperimentato e padre di famiglia, sdegnando di ridursi alla stregua del segretario di primo pelo. Nasce da ciò che il direttivo centrale dirige cosa che non conosce, poiché non fu mai nei servizi attivi. Salvo miracoli, chi dirige le imposte di produzione non ha alcuna nozione diretta del modo con cui i verificatori tecnici procedono all’accertamento delle imposte sugli alcool e sugli zuccheri; ed i dirigenti della ricchezza mobile a Roma non sanno come realmente si fanno in provincia gli accertamenti a carico dei contribuenti. Ancor meno di ciò sono edotti i passacarte delle intendenze, i quali invece sono espertissimi e benemeriti nelle funzioni loro proprie relative al debito pubblico od alla cassa depositi e prestiti ed altre, in cui realmente operano e decidono.
Nasce altresì che, siccome nei tre ordini si entra, per concorso od in altro modo, dai 18 ai 25 anni e si rimane per tutta la vita, i direttivi centrali, i direttivi provinciali e gli esecutivi sono, tutti ugualmente, composti di elementi ottimi, mediocri e cattivi. E siccome in ogni ordine di persone, e non solo degli impiegati, gli ottimi sono una minoranza, è fatale che una maggioranza di mediocri e di cattivi dia ordini agli ottimi ed ai mediocri tra gli esecutivi. Un qualunque segretario ministeriale, di cultura limitata, di pratica nulla e di ingegno mediocre, dà ordini senza senso ad ufficiali esecutivi che possono essere di grande esperienza e di maggiore abilità. Quando i cittadini si lamentano delle risoluzioni insensate, che così frequentemente vengono da Roma, hanno torto di incolparne le persone. È in colpa il sistema il quale necessariamente fa sì che comandino spesso i mediocri ed i nulli e che solo per miracolo i buoni tra i direttivi si trovino a dovere ordinare precisamente ai cattivi tra gli esecutivi cattivi; i quali male applicheranno gli ordini sapienti.
Il rimedio ad una simile situazione di cose, la quale fatalmente rende cattivi e lenti i pubblici servizi, fu indicato molte volte. Non è, ripeto, un toccasana; poiché, ripeto altresì per evitare equivoci, i mali della burocrazia sono tanti e diversi; ed agli uomini è dato affrontarli solo ad uno ad uno. Il rimedio consiste nella abolizione assoluta della assurda, infondata distinzione tra gli ordini direttivi ed esecutivi, delle barriere artificiose tra provincia e centro. È il merito individuale, è la funzione specifica esercitata che deve distinguere chi ordina e chi esegue: non l’appartenenza ad un ordine piuttosto che ad un altro. L’ordine è una sopravvivenza medievale; e fa risorgere le vecchie comiche contese tra ciabattini e calzolai, falegnami e stipettai, di cui ognuno riteneva d’avere il diritto ad un dato mestiere.
L’impiegato deve sempre, in ogni caso, cominciare la sua carriera negli uffici provinciali dove si fa il lavoro del ramo: nessuno dovrebbe dirigere a Roma le dogane senza aver fatto a 20 anni l’ufficiale di dogana; nessuno sovraintendere alle imposte di produzione senza aver lavorato nella fabbrica come verificatore tecnico od almeno come ingegnere aggiunto di finanza; nessuno deve diventare direttore generale delle imposte dirette senza essere stato agente delle imposte. Dall’infimo pochissimi giungeranno al sommo grado; ma tutti devono poter sperare di stringere un giorno in mano il bastone da maresciallo. Il sistema delle caste intorpidisce, spegne lo spirito di iniziativa e di emulazione. Dalle provincie si deve poter passare al centro solo in seguito ad un severissimo esame di concorso, in cui si tenga conto sovratutto, insieme alla cultura specifica, delle prove fatte negli uffici provinciali. Nessuno deve poter entrare segretario a 20 anni al ministero; ma solo ad una età più avanzata quando si siano trascorsi almeno 5 e forse 8 anni nell’esercizio effettivo delle funzioni proprie del ramo. I funzionari dei ministeri dovrebbero essere gli ottimi fra gli esecutivi, scelti attraverso un vaglio severo. Allora, sì, potrebbero veramente chiamarsi ed essere «direttivi». Lo sarebbero sul serio, mentre ora lo sono per burla.
Sarebbe allora, conseguenza capitalissima del metodo prescelto, altresì possibile di fare a meno della grottesca gerarchia che oggi inquina i ministeri: segretario, capo sezione, capo divisione, vicedirettore generale, direttore generale. Tutti questi gradi sono l’effetto necessario dell’essere oggi gli impiegati cosidetti «direttivi» scelti fra giovinetti inesperti di 18-25 anni. Costoro è assurdo possano dirigere sul serio e quindi sono messi a minutar lettere, che passano al capo sezione, e da questi al capo divisione su su sino al direttore generale, per ritornare indietro sino al minutante per la copia e ritornar su al direttore generale per la firma. Da capo sezione in su si ha il diritto acquisito a non eseguire più il lavoro ed a limitarsi a rivedere e firmare gli atti compiuti dai segretari. Come possa andar bene un servizio organizzato in questa balorda maniera non si capisce; ed in verità va malissimo.
Se invece i direttivi fossero scelti tra persone veramente capaci a dirigere, che hanno già fatto le loro prove, dai 30 ai 40 anni, scomparirebbe la necessità della complicata gerarchia attuale. I direttivi sarebbero di classe unica, tutti segretari, o consiglieri o referendari. Il primo stipendio dovrebbe essere di almeno 8.000 lire o quello superiore a cui fossero già pervenuti negli uffici provinciali, e dovrebbe rapidamente crescere. Ognuno avrebbe sotto di sé stenografo, dattilografo, archivista, commesso. Ognuno dovrebbe essere provveduto di apparecchio telefonico particolare. Ognuno dovrebbe decidere, sotto la propria individuale responsabilità, le pratiche di propria competenza. Ogni settimana potrebbe riunirsi una conferenza dei referendari, per decidere i casi comuni o dubbi. Al disopra sarebbe soltanto un direttore, che organizzerebbe e distribuirebbe il lavoro e si riserverebbe le decisioni dei casi più gravi tassativamente da lui indicati al principio d’ogni anno. Un piccolo numero di questi referendari basterebbe a sbrigare il lavoro di una direzione generale. Il telefono, la stenografa, la dattilografa ridurrebbero al minimo il lavoro materiale di scritturazione che affatica senza rendimento adeguato. Il referendario di 30 – 40 anni, adusato ad eseguire in provincia, si troverebbe al ministero a casa sua, dovendo decidere intorno a quei casi che, per esperienza, ha conosciuto e risoluto infinite volte in provincia. L’abitudine al comando, all’ordinare e dirigere sarebbe fatta. La dignità del grado e l’uguaglianza tra i referendari farebbero venir meno la voglia dei gradi intermedi di capo sezione e capo divisione, che oggi valgono così poco. Ognuno, nel suo ramo, sarebbe un capo. Chi, tra i professori, sogna di diventare capo professore? Il referendario al consiglio di stato, sicuro di poter diventare consigliere, è forse malcontento della sua sorte? Rimarrebbe l’ambizione ragionevole di diventare direttore generale o direttore semplicemente. Grado raro epperò ambito e significativo. Diventerebbe vieppiù ambito se potesse essere sottratto all’arbitrio dei ministri, dando poteri e responsabilità proprie a chi lo copre, come del resto poteri e responsabilità precise dovrebbero essere riconosciuti ad ogni funzionario dello stato. Aspirazione antica, ma destinata a rimanere insoddisfatta sinché segretari freschi di nomina comanderanno, sotto l’egida di una filza di firme dei superiori, a prefetti, ad intendenti, a provveditori agli studi, a rettori d’università, ad agenti superiori delle imposte, a comandanti di corpi d’armata.
[1] Con il titolo Il problema della burocrazia. Pretese assurde e riforme necessarie [ndr].
[2] Con il titolo Virare di bordo [ndr].
[3] Con il titolo L’orario unico nelle pubbliche amministrazioni [ndr].
[4] Con il titolo Direttivi ed esecutivi [ndr].
[5] Con il titolo Il problema della burocrazia in Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 9-14; Con il titolo Il problema della burocrazia. Pretese assurde e riforme necessarie in Scritti economici, storici e civili, Mondadori, Milano, 1973, pp.685-690 [ndr].