Riforma tributaria, progetto Meda e sciabolate tributarie
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 13/03/1919
Riforma tributaria, progetto Meda e sciabolate tributarie
«Corriere della Sera», 13[1], 18[2], 26[3] e 30 marzo[4]; 4[5] e 13 luglio[6]; 3, 27,[7] 28[8] e 30 novembre[9]; 1[10] e 8[11] dicembre 1919
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 116-180
I
Perché il progetto Meda non poteva essere di pochi articoli
Il breve riassunto pubblicato dai giornali del progetto di riforma delle imposte dirette sui redditi e nuovo ordinamento dei tributi locali mi fa supporre che le eventuali modificazioni apportate al testo del disegno di legge elaborato fin da quasi due anni fa da una commissione di studio presieduta e con grande solerzia ed amore guidata dall’on. Meda siano lievi e tocchino punti di secondaria importanza. Sicché, in attesa del testo stampato del disegno di legge, parmi utile fare qualche prima osservazione provvisoria sulla base di quel testo originario.
Una è relativa alle dimensioni del disegno. A molti, 181 articoli di legge sono parsi troppi e taluno osservò che lo schema di riordinamento si presentava complicato. V’è davvero bisogno di scrivere un intiero codice per definire gli obblighi dei contribuenti in rapporto al loro reddito od al loro patrimonio? O non basta scrivere in pochi semplici articoli che colui il quale meno ha paghi poco o nulla e colui il quale molto possiede o guadagna paghi in misura superiore? Al più si potrebbe aggiungere qualche norma, universalmente ritenuta necessaria, come quella relativa alla deduzione dei debiti o dei pesi o carichi gravanti sul reddito o l’altra relativa ai gravami di famiglia od alle necessità di provvedere alla vecchiaia, alle malattie od alla morte del contribuente.
Così invero erano stati per lo più concepiti in Italia i disegni di riforma delle imposte dirette e di istituzione della imposta globale sul reddito. Ma fu anche questa una delle ragioni, e non quella di minor peso, per cui quelle proposte di riforma non poterono approdare a nulla di concreto. La complessità è oggi una condizione necessaria di un buon sistema tributario. È passata l’ora delle leggi d’imposta semplici, nel senso di leggi brevi, da potersi contenere in pochi articoli. Le leggi semplici erano possibili un tempo, quando la società era poco specificata, quando suppergiù tutti traevano reddito dalla terra o da occupazioni elementari: il fabbro, il sarto, il medico, l’avvocato, l’impiegato, l’ufficiale. Adesso la società umana è divenuta grandemente complessa; le professioni si contano a migliaia; i rapporti sociali sono intricatissimi, e lo stesso individuo può nel tempo stesso essere lavoratore, azionista di società anonime diverse, proprietario di terreni, creditore dello stato. In una società siffatta, una legge d’imposta breve, apparentemente semplice, in realtà è:
- oscura ed arbitraria. I pochi principii enunciati dal legislatore male si adattano agli innumeri casi concreti, e lasciano luogo a dubbi di interpretazione e ad arbitri della finanza e della magistratura;
- aperta alle frodi. Di tra le grandi maglie sfuggono i contribuenti più avveduti, mentre gli inesperti sono taglieggiati. Perciò le grandi riforme sonore e vuote sono preferite dai professionisti della politica, i quali vogliono gettar polvere negli occhi del pubblico; ma sono alieni dal far cosa veramente spiacevole ai loro clienti. Perciò è probabile che i 181 articoli del disegno di legge Meda, sebbene molti di essi siano non poco vistosi, dovranno crescere di numero se si vorrà che la legge d’imposta sia seria, chiara, severa, giusta;
- prolifica di aggiunte, varianti, che la deformano ed a poco a poco la allontanano dalla semplicità primitiva. Così è accaduto al sistema delle imposte dirette in Italia, il quale per l’accavallarsi di leggi e leggine interpretative e modificatrici, dettate dalle circostanze e non coordinate tra di loro, è diventato una foresta vergine, nella quale solo alcuni pochi specialisti osano avventurarsi.
Il disegno di legge Meda ha per iscopo di chiarire questa foresta, di alleggerire, di sfrondare e di presentare al contribuente un codice intelligibile, in cui anche il profano possa orizzontarsi.
Quante imposte pagano oggi i contribuenti, sempre a titolo di imposte sul reddito? È divenuto difficile persino farne il conto: imposte sui terreni, sui fabbricati, di ricchezza mobile, di famiglia, sul valor locativo, di esercizio e rivendita, complementare sul reddito, contributo straordinario di guerra, centesimo di guerra, sugli amministratori e sui gerenti delle società, ecc. ecc. Ognuna di queste imposte è retta da regole proprie, l’una disforme dall’altra, con metodi diversi di accertamento, con magistrature giudicanti differenti. E tutte colpiscono lo stesso oggetto, che è il reddito nelle sue varie forme. Era tempo di porre un po’ d’ordine in tutto ciò; diminuire il numero e il nome delle imposte e rendere l’unica imposta residua abbastanza varia da non lasciare nulla sfuggire e nel tempo stesso abbastanza unificata da consentire allo stato ed agli enti locali di avere dinanzi a sé l’immagine compiuta del reddito e del patrimonio del contribuente da assoggettare a tributo in ragione della sua capacità di pagare. I 181 articoli necessari a raggiungere tale fine parranno pochi se si confrontano ai molti più articoli di tante leggi diverse che il nuovo codice renderebbe inutili; ed al vantaggio di sostituire un’unica regola alle molte e contradittorie prima esistenti.
È probabile – ed è questa la seconda osservazione d’indole preliminare che è opportuno fare sulla scorta del riassunto dato dai giornali – che i due anni decorsi dal giorno in cui l’on. Meda chiuse i lavori di elaborazione del disegno di legge abbiano reso necessarie nuove discipline tributarie che allora potevano essere rinviate a miglior tempo. Il fabbisogno dello stato è cresciuto, d’allora in poi, di qualche miliardo di lire all’anno: forse 2 miliardi. E crescerà ancora. Maggiori mezzi occorrono perciò alla finanza. Non credo che tutti debbano essere chiesti alla imposta sul reddito; ché sarebbe ingiusto non chiedere nulla di più ai consumi non necessari, i quali imperversano più che mai, con danno dei meno provveduti e della produzione della ricchezza. Ma la rete tributaria va resa più fitta attorno ai redditi. Il disegno di legge si contenta, ad esempio, di accertare attraverso indizi – spese per l’appartamento, domestici, ville, ecc. – il reddito di coloro che vivono del frutto dei capitali mutuati allo stato. Il legislatore ha bisogno di una spinta dell’opinione pubblica per mettersi su una via più ardimentosa. Questa spinta è oramai necessaria. Le urgenze della finanza impongono di accertare anche questi redditi con lo stesso sistema che il disegno di legge propone per tutti gli altri titoli al portatore, metodo che spiegherò in altra occasione e che parmi efficace e giustamente severo, senza essere perturbatore delle transazioni commerciali. Non occorre all’uopo nulla mutare all’economia del disegno. Basta resecare qualche inciso d’esclusione, perché 80 miliardi di titoli di debito pubblico vengano assoggettati all’imposta. Badisi, non all’imposta sul titolo; ma a quella generale sul reddito complessivo del contribuente, che lo colpisce personalmente, se il suo reddito sia superiore ad un certo limite, e progressivamente, in funzione dell’ammontare del reddito. Come ho spiegato ripetute volte ed anche in occasione delle ultime emissioni di prestiti nazionali, ad espresso avvertimento dei sottoscrittori, siffatta tassazione personale non violerebbe la parola data dal governo di esimere i titoli da qualunque imposta presente e futura. L’esenzione rimane e sarà osservata. Ma se v’è una imposta che non colpisce il titolo, ma la persona del contribuente in rapporto al totale suo reddito, questa imposta non può lasciar immune Tizio solo perché egli ha investito o pretende di avere investito il suo patrimonio in titoli di stato e tassare Caio, il quale scelse altra fonte di investimento. La imposta sul reddito guarda al contribuente, come tale, alla sua agiatezza. Non conosce le fonti dell’agiatezza; e questa deve colpire intieramente.
II
I lineamenti ed i limiti del progetto Meda
Il riassunto che, a parecchie riprese, fu qui fatto dei lineamenti essenziali del progetto di riforma delle imposte dirette sui redditi presentato alla camera dall’on. Meda ha consentito ai lettori di formarsi un’idea abbastanza precisa del suo contenuto e della sua portata e consente a me un primo apprezzamento sintetico.
Comincio dall’enunciare alcune sue caratteristiche negative.
Il progetto Meda non risolve da solo il problema finanziario del momento presente, che è di trovare i 3 miliardi circa all’anno i quali mancano all’equilibrio del bilancio dello stato italiano. Il riordinamento proposto delle imposte esistenti ed i nuovi tributi messi innanzi non potranno dare 3 miliardi e neppure 2 e subito saranno anche probabilmente lontani dal rendere un miliardo solo. Questa però è una critica che può essere mossa solo da visionari i quali immaginano possibile inventare il metodo per fare spuntare i miliardi come i funghi. Promettere di risolvere il problema di trovare i 3 miliardi subito e con una sola bella riforma o con un solo mezzo è da visionari o peggio. Il problema si può risolvere solo in qualche anno – non troppi, ma neppure uno solo – e ricorrendo a svariati mezzi. Uno dei quali e principalissimo a parer mio è appunto quello di ridare elasticità al sistema delle imposte dirette sui redditi che, per le sue norme antiquate, per la sua sperequazione, s’era quasi irrigidito. Chi non vuol chiudere gli occhi alla realtà, deve riconoscere che i soli due paesi i quali od hanno risoluto o sono incamminati a risolvere il problema della finanza post-bellica ed i quali v’è probabilità lo possano aver risoluto senza fare affidamento sull’entrata straordinaria dell’imposta sui sovraprofitti di guerra sono gli Stati uniti e l’Inghilterra. E questi due paesi si sono sovratutto poggiati per raggiungere l’intento su imposte sul reddito congegnate suppergiù nel modo proposto nel progetto Meda. Altri paesi quelli, si dirà ; più ricchi e meglio educati al senso del dovere civico. La maggior ricchezza è indubitata: ma coloro che la mettono innanzi dimenticano che l’Inghilterra istituì l’imposta sul reddito quando non era certo più ricca dell’Italia d’oggi ed allo scopo di sostituire imposte male congegnate e male distribuite che ostacolavano appunto l’incremento della ricchezza. L’imposta la quale colpisce il reddito già prodotto, in molti casi già distribuito e vicinissimo al consumo è tra tutte quella che meno ostacola l’incremento della ricchezza. Teniamolo a mente e non ripetiamo un’obiezione insussistente, il cui unico effetto sarebbe quello di farci rassegnare a nuove imposte fastidiosissime sugli affari o sugli scambi o sulla produzione. Quanto alla maggiore educazione degli anglo-sassoni, chi abbia letto inchieste, relazioni e scritti di quei paesi rimane scettico; ché le frodi erano e sono frequenti in quei paesi, sì da rendere, a detta di scrittori insigni, alcune imposte uno scandalo agli occhi del mondo. Chi ha reso i contribuenti anglo-sassoni ossequenti al dovere tributario fu l’amministrazione rigida, fu la equità verso i contribuenti, furono le penalità severe ed applicate, fu la ragionevolezza delle aliquote. Facciamo altrettanto in Italia ed otterremo gli identici risultati.
La riforma tributaria Meda non è una riforma tributaria compiuta che riguardi tutto l’assetto delle imposte esistenti. Essa non tocca le imposte sui consumi, né quelle che da noi si dicono sugli affari (successioni, registro, bollo, ecc.). Certuni, quando si parla di riforma, vogliono subito tutto o niente. E così non si conclude mai nulla. In realtà la riforma dei tributi diretti sul reddito è una cosa perfettamente distinta dal riordinamento dei tributi sugli affari o di quelli sui consumi. Diverse le basi imponibili, diversi i metodi di accertamento, differenti gli organi fiscali. Il trattarne insieme non gioverebbe a nulla, salvo a crear confusioni e ritardare l’un riordinamento col pretesto che gli altri non sono maturi. Governo e parlamento debbono sapere quanto chiedere all’un gruppo di tributi in confronto agli altri; ma, stabilito questo rapporto generale, ogni gruppo sta a sé e giova trattarli separatamente, per compiere il riordinamento in modo tecnicamente adatto ad ognuno di essi.
Il progetto Meda non propone novità strepitose, imposte mai più viste o diverse da quelle solite. Anche questa è per me cagione di compiacimento. Giova ricordare ancora una volta ciò che ho detto infinite volte: che cioè nelle sue linee essenziali il nostro sistema di imposte dirette sui redditi fu all’inizio bene congegnato, con un grado di perfezione non raggiunto neppure dai più celebri sistemi d’imposta stranieri. La nostra imposta di ricchezza mobile nei suoi lineamenti primi non ha nulla da invidiare né alla income tax inglese né alla Einkommensteuer prussiana, celeberrime agli occhi di coloro che stanno sempre a bocca aperta dinanzi a ciò che accade all’estero. Ciò che nocque e nuoce alle nostre imposte fu che esse coll’andar del tempo divennero aggrovigliate e complicate, perdettero la nozione dei rapporti reciproci; si irrigidirono e rimasero ferme, mentre all’estero via via andavano perfezionandosi. Il progetto Meda ha per iscopo di mettere l’ordine nel caos e col minimo numero di variazioni – non è forse arte di governo sapere far uso dei materiali esistenti ed ottenere un risultato discreto con lo sforzo minimo? – costruire un sistema di imposte sul reddito che non abbia nulla da invidiare ai più celebrati e modernissimi sistemi esteri. Costruito questo sistema, quando per qualche tempo lo si sia visto in opera, sarà possibile tentare tutte le novità più strepitose che ai riformatori piacerà di saggiare. Oggi tanti discorrono di imposte patrimoniali grosse per pagare le spese di guerra o di imposte sugli incrementi di patrimonio avvenuti dopo la guerra. Non discuto qui per incidenza il problema intricatissimo. Sia lecito però osservare che oggi noi non possediamo alcuno strumento per esigere giustamente tributi cosiffatti. Non conosciamo né il reddito né il patrimonio dei contribuenti; non sappiamo e non potremo quindi mai più sapere quale era il patrimonio dei contribuenti all’1 agosto 1914 e non abbiamo modo quindi di conoscere la differenza in più al 31 dicembre 1918 o 1919. L’applicazione di imposte simili a quelle che sono possibili in Germania, perché da tempo là funzionavano, già prima della guerra, imposte sul reddito e sul patrimonio, condurrebbe in Italia ad improvvisazioni indicibili e ad ingiustizie atroci a pro dei furbi ed a danno della gente onesta. Il progetto Meda permetterebbe di ottenere, finalmente, un inventario della ricchezza e del reddito dei contribuenti italiani. Fatto questo inventario, vistolo funzionare per qualche anno, perfezionatolo coll’esperienza, sulla base dei dati così conosciuti, sarà possibile tentare, se i legislatori lo riterranno a ragion veduta opportuno, altre novità, audaci od avventate a seconda dei punti di vista. Almeno saranno tentate in modo serio e con giustizia. Oggi chi critica il progetto Meda perché non abbastanza innovatore, o è un visionario ovvero vuol gittar polvere negli occhi del pubblico.
Le qualità negative e per me lodevoli del progetto Meda si riassumono in una affermazione positiva: esso è uno sforzo onesto e serio di creare finalmente un sistema d’imposte sul reddito che sia di grande aiuto alla finanza e nel tempo stesso riduca al minimo la pressione che ogni imposta esercita sulla produzione della ricchezza. Cerca di recare l’ordine e la semplicità nel groviglio tributario inestricabile d’oggi. Siano le leggi d’imposta chiare e comprensibili ai contribuenti, diceva Adamo Smith, il gran padre della scienza economica. Questo canone dimenticato attraverso cinquant’anni di sovrastrutture tributarie viene fatto rivivere nel progetto attuale.
Il quale perciò , se attuato, avrà l’effetto di rendere consapevoli i contribuenti dell’onere d’imposta dovuto allo stato e quindi di interessare i contribuenti alla buona amministrazione della cosa pubblica. Pur rispettando le convenzioni private relative al passato, il progetto dichiara per l’avvenire nulle le convenzioni stipulate tra le parti dirette ad accollare l’onere dell’imposta a persone diverse da quelle indicate dalla legge oppure ad esonerare dalla rivalsa le persone a carico delle quali la rivalsa stessa è dalla legge stabilita. Perciò i creditori sapranno che essi pagano di imposta normale il 18%, gli impiegati non solo di stato, ma di enti locali o morali o privati, sapranno di pagare il 9 od il 12%; ed in aggiunta tutti sapranno di pagare l’imposta complementare e la patrimoniale a seconda delle proprie condizioni di fortuna e di famiglia. Sul medesimo foglio d’avviso ognuno vedrà elencate tutte le imposte dirette dovute allo stato, alle provincie ed ai comuni; avrà un indizio tangibile della loro buona o cattiva amministrazione. Una sola cifra che in percentuale andrà dal 0,50 circa per i redditi di lavoro poco sopra le 1.200 lire al 10 e più per cento, tutto compreso, per i redditi massimi dirà ad ognuno quale sia il costo dei pubblici servizi. Nulla di più morale, di più necessario in tempi di suffragio universale, di alta pressione tributaria e di utilità di un controllo continuo e rigoroso sulla spesa pubblica. Il progetto è altresì un tentativo serio di conoscere meglio i redditi dei contribuenti. La rinnovazione periodica degli estimi dei fabbricati, la tassazione dei redditi dei terreni ai fini della complementare a norma dei fitti o redditi correnti, l’obbligo delle dichiarazioni generalizzate a tutti i contribuenti e soggetto a controlli, il metodo praticamente ferreo di tassazione dei titoli al portatore, le penalità non condonabili per i contravventori, i nuovi poteri delle giunte di stima e dei funzionari delle imposte, tutto ciò darà modo all’amministrazione di conoscere molto meglio la massa dei redditi e la loro distribuzione di quanto non accada oggidì.
Oggi, è impossibile rispondere sul serio alla domanda: quanto renderà una nuova imposta sul reddito o sul patrimonio? Il professore Rodolfo Benini, insigne maestro di statistica, dovendo calcolare per la commissione del dopo guerra il probabile gettito di queste due imposte dovette premettere le più ampie riserve sulle basi del calcolo; e le stesse riserve per altra commissione aveva dovuto fare il professore Corrado Gini, altro penetrantissimo statistico nostro. In realtà non sappiamo nulla. E dovremo attendere dall’applicazione dei nuovi tributi la nozione di quanto essi potranno fruttare all’erario. Ma finalmente il tentativo viene fatto con mezzi seri di ripartire il carico tributario ponendo mente se il contribuente è capitalista o lavoratore, o corra rischi di industria o no, se è carico di famiglia ovvero celibe, se ha reddito piccolo ovvero medio ovvero grande, se ha debiti ovvero ha il patrimonio libero da pesi.
Occorre che l’opinione pubblica appoggi il tentativo. Sarebbe un danno grave se il progetto dell’on. Meda dovesse rimanere allo stadio di documento presentato alla camera. Esso può essere emendato, migliorato. Può sovratutto essere generalizzato ancor più, assoggettando al medesimo metodo di accertamento, usato per i titoli al portatore in genere, anche i titoli di stato ai fini dell’imposta personale complementare sul reddito. Può essere reso più duro, aggravando le penalità per i contravventori; e sovratutto creando un corpo tecnico di esecutori della legge, scelto, consapevole dei suoi doveri, tutore ugualmente dei diritti dello stato e dei contribuenti. Ma bisogna che l’opera non rimanga a mezzo, ad ogni costo.
A questo fine deve collaborare l’opinione delle classi alte, le quali sono chiamate a sopportare l’onere maggiore del nuovo ordinamento tributario. È in gioco la stabilità dell’assetto sociale. Con un sistema tributario farraginoso, sperequato, in cui i ricchi pagano gli uni troppo poco e gli altri troppo e danno perciò l’impressione d’insieme di non pagare abbastanza, l’equilibrio sociale è instabile. Se si vuole evitare la violenza, bisogna cominciare a far giustizia. Per tutti, in alto e in basso. Tutti debbono essere chiamati a pagare, perché il dovere di contribuire alle spese pubbliche è universale. Ma si deve sapere che gli uni contribuiscono poco e gli altri molto, ognuno in rapporto alla propria possibilità di pagare.
Per anni, prima della guerra, su queste colonne ho battagliato per inculcare l’idea della vanità di ogni pretesa grande riforma tributaria la quale non fosse basata su una preliminare rinnovazione, nel senso della rigidità, dei metodi di accertamento. Il progetto dell’on. Meda è un primo importante e serio passo su questa via. L’esperienza indicherà come i metodi proposti possano essere perfezionati. Ma frattanto importa, urge che il passo si faccia. L’on. Meda ha risolto il dilemma della precedenza nella riforma degli accertamenti o nella riforma della ripartizione del carico dell’imposta proponendo che anche le riforme si compiano contemporaneamente. È il partito più savio: poiché, a che cosa deve servire la rigidità se non ad instaurare la giustizia?
III
La tesi demagogica de «La stampa»
Dopo essersi lagnata che lo stato italiano non abbia, dopo l’armistizio, provveduto se non ad atti di ordinaria amministrazione, «La Stampa» di Torino prosegue nel suo numero del 24 marzo dicendo che «solo, quasi per dare ragione ad una vecchia e sarcastica definizione dello stato italiano (secondo la quale questo è essenzialmente un… torchio fiscale) è venuto il congegno delle nuove tasse, il macchinoso omnibus fiscale del ministro Meda».
…Il quale, col pretesto di tassare la ricchezza nelle sue sorgenti senza farla sfuggire nei suoi trapassi, attraverso i quali essa si moltiplica, in realtà è un sistema molto complicato e dispendioso di duplice e di triplice balzello sulla stessa entità economica, che avrà da un lato l’effetto di scoraggiare l’investimento del denaro nelle intraprese produttive e determinerà, dall’altro, con più iniqui risultati di prima, il solito scarica barile fiscale dei proprietari dei terreni e dei fabbricati su tutte le categorie degli affittuari e degli inquilini, sulla vasta massa dei consumatori. Onde, anche queste, che l’onorevole Meda pretende siano imposte dirette, in pratica si risolveranno in imposte indirette, ossia in un sistema di balzelli, che descrivono un arco di rimbalzo intorno ai veri detentori della ricchezza, per andare a cadere su ceti meno abbienti e per gravare sovratutto su quelli proletari. Per tutto il resto, c’è… un soldino di più per ciascuno dei francobolli in uso, qualche decimo di aggravio, distribuito a caso su tutte le tasse spicciole dei minuti affari e i prezzi proibitivi per tabacchi sempre più attossicanti e perfidamente confezionati. Questa è la sanguinante ironia, è l’atroce derisione, è la sfida proterva alla terribile realtà e a quelli che la sopportano, in un paese, che, avendo fatto 80 miliardi di debiti e dovendo pagarne 4 per interessi ogni anno, dovendo ricostruire e riorganizzare tutti i servizi civili e quelli pubblici, dovendo provvedere alle pensioni e a tutto il resto, deve trovare mezzi non già nei ruscelletti spillati fuori con i faticosi stratagemmi fiscali, bensì fiumi di denaro… là dove essi stagnano, nei forzieri, o in altri accantonamenti finanziari di tutti gli arricchiti dalla guerra. Il pubblico – al quale la cosa fu tante volte preannunziata e promessa – attende ancora, attende sempre, e già brontola per l’indugio, un congegno fiscale di forte percezione, di prelevamenti quasi espropriatori dei sovraprofitti di guerra, che la coscienza universale si ricusa di considerare come leciti accumuli di legittimi benefici, e considera piuttosto come refurtiva della vasta e permanente razzia allestita sui vari bilanci della difesa nazionale durante la guerra. La relazione della commissione dei quindici sulle esportazioni non è se non una delle documentazioni della criminosa illegittimità di queste congestioni di ricchezza e della necessità morale e politica di dissolverle in soccorso dell’anemia finanziaria del paese!
Ho voluto citare integralmente il brano in cui è esposta dal giornale torinese una critica alla finanza passata ed a quella auspicata per l’avvenire dal governo italiano, insieme con un programma che vorrebbe contrapporsi a quello ministeriale. Credo di non essere sospetto di indulgenza verso la politica tributaria italiana, che ripetutamente ho, ben prima che la guerra finisse, rimproverata come timida e procrastinatrice. Sento tuttavia il dovere di oppormi, con tutte le mie forze, ad un sistema dissolvente di critica, il quale pervertendo nel modo più aperto la verità dei fatti e dei propositi ed auspicando metodi infecondi tende a provocare l’odio, i rancori fra classe e classe ed a produrre la rovina della finanza italiana.
Intanto, è falso che si siano, come si dedurrebbe dall’articolo della «Stampa», contratti già 80 miliardi di debiti e su di essi si debbono pagare 4 miliardi di interessi. Risulta dall’ultima esposizione Nitti e dalle situazioni del tesoro e dei debiti pubblici che al 31 dicembre 1918 i debiti totali dello stato italiano erano i seguenti:
Antichi, anteriori all’1 agosto 1914 | 13.636
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Nuovi, posteriori all’1 agosto 1914 | 54.342,3
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Fruttiferi, interni | 29.947,2
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Fruttiferi, esteri | 15.375,4 45.322,6
| |
Infruttiferi (biglietti di banche per conto del tesoro, biglietti di stato, buoni di cassa e buoni del tesoro): | 9.019,7
| |
54.342,3
| ||
Totale 67.978,3
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Dopo il 31 dicembre 1918 non furono più pubblicati conti del tesoro e situazioni di debiti; ma non è probabile agli 80 miliardi si arrivi, se non a pace firmata ed a liquidazione compiuta della guerra. Anche allora dovremmo rimanere parecchio al di qua degli 80 miliardi, ove si sappiano utilizzare con avvedutezza le attività patrimoniali residuate della guerra. Qualcosa pur ci è dovuto a titolo di indennità per puri danni materiali arrecatici dal nemico. E poiché 13 miliardi e 635 milioni di debito preesistevano alla guerra, bisogna onestamente conchiudere che non 80 ma forse 60 miliardi di debiti saranno dovuti alla guerra e di questi 10 circa infruttiferi. Siamo ben lontani dai 4 miliardi di interessi passivi che «La Stampa» lascerebbe credere dovuti alla guerra. Anche 2 e mezzo 3 miliardi sono molti, moltissimi; ma perciò appunto è doveroso non crescerli alla cifra terrificante di 4 miliardi all’anno.
Sembrerebbe che gli 80 pretesi miliardi di debiti e le somme grandiose necessarie a ricostruire e riorganizzare tutti i pubblici servizi, a provvedere alle pensioni ed a tutto il resto potessero trovarsi cavando «fiumi di denaro là dove essi stagnano» con imposte sui sovraprofitti di guerra, «dissolvendo le criminose congestioni di ricchezza in soccorso dell’anemia finanziaria del paese».
Non ho alcuna tenerezza per i sovraprofitti di guerra. Obbedendo ad antiche convinzioni, da anni esposte in memorie di carattere teorico, anteriori alla guerra, io sono e rimango contrario alle imposte le quali colpiscono i redditi nuovi, cresciuti, aggiunti a quelli preesistenti. Una imposta come quella sui sovraprofitti di guerra sarebbe in tempo di pace la pessima fra le imposte. Che cosa vi può essere di più micidiale per l’iniziativa industriale, per la formazione del risparmio di un’imposta la quale colpisca non i redditi antichi e normali che tutti, anche i buoni a poco, ottengono e tassi i redditi tanto più fortemente quanto più essi sono una percentuale elevata del capitale? Un incitamento più funesto a produrre poco, a sprecare malamente capitali ed energie, mai non si vide.
Ma in tempo di guerra, altro e non economico è il problema. Politicamente può essere necessario tassare vigorosamente i sovraprofitti. Non ho atteso oggi a dirlo. Non ricordo articoli scritti anni fa, durante la guerra, su queste colonne, in cui si diceva: tassate al 60, al 70, all’80% i sovraprofitti, purché si sappia che cosa è tassato e che cosa si deve pagare. Ma l’altra settimana, in un corso speciale all’Università commerciale Bocconi, affermavo che bisogna rimaneggiare l’imposta sui sovraprofitti in guisa che essa abbracci tutto il periodo della guerra e della sua liquidazione e, computando il già versato, assorba una forte percentuale del lucro ottenuto dai commercianti, industriali ed intermediari. Fino all’80, fino al 90 per cento. Forse non si può andare fino al 100%, perché nelle umane cose fa d’uopo lasciare un piccolo margine per le possibilità di errore nelle valutazioni fiscali del reddito. Chiunque conosce le nostre leggi di finanza sa che un’imposta dell’80% sugli utili legali, quelli che gli agenti delle imposte debbono per legge calcolare, equivale al 100% e molte volte a più del 100% degli utili reali, quelli che onestamente si possono ripartire.
Non è l’imposta sui sovraprofitti che mi spaventa, ma è la affermazione, non so se leggera o sfrontata, che il suo provento possa essere il mezzo per pagare gli 80 miliardi di debito pubblico, e per ricostruire, riorganizzare, pagar pensioni ecc. ecc. Dir questo è voler far nascere illusioni, le quali, una volta radicate nelle masse, potrebbero partorire scoppi di ira e di malcontento quando si vedesse che esse sono irrealizzabili.
I conti sono presto fatti ed avrebbero dovuto essere fatti prima di lasciar credere che provvedimenti quasi espropriatori della «refurtiva della vasta e permanente razzia allestita sui vari bilanci della difesa nazionale durante la guerra» potessero essere il fiume di denaro che in contrapposto ai «ruscelletti» dell’on. Meda dovrebbe colmare il bilancio inaridito dalle spese di guerra.
Queste spese (p. XLIV dell’ultima esposizione finanziaria Nitti) ammontavano al 31 ottobre 1918 a 59 miliardi e 73 milioni di lire. Facciamole pur crescere, sebbene vi fossero già compresi 8 miliardi di pagamenti all’estero ancor da rimborsare al 31 ottobre 1918, a 70 miliardi alla fine del 1919. Ma già al 31 ottobre 1918 erano compresi nei 59 miliardi ben 21 miliardi e 651 milioni di spese fatte all’estero (p. XLII). Alla fine del 1919 questi 21 miliardi e 6 milioni saranno proporzionatamente divenuti almeno 25. Ciò vuol dire che su 70 miliardi di spese di guerra almeno 25 e forse assai di più – non ho dati per precisare – furono fatti all’estero. Il fisco italiano di fronte a questi 25 miliardi è perfettamente impotente. Anche se fossero tutto lucro, non potrebbe tassarli neppure di un centesimo.
Restano 45 miliardi. Se non m’inganno, bisogna dedurre ancora le somme spese per stipendi e soldo agli ufficiali e soldati, agli impiegati delle amministrazioni belliche, le somme erogate in sussidi alle famiglie dei militari, tutte insomma le spese aventi carattere personale. Ciò che fu pagato ai milioni di uomini che servirono per cinque anni il paese non può essere tassato come sovraprofitto di guerra. Sono così molti e molti miliardi che bisogna detrarre dai 45. Non so se «La Stampa» voglia considerare come sovraprofitto di guerra e quindi confiscabili i 3 miliardi e 620 milioni pagati sino al 31 ottobre 1918 come interessi sui debiti di guerra. Non credo, perché ciò sarebbe una troppo sfacciata violazione di solenni promesse dello stato.
Non oso esporre alcuna cifra; ma riterrei sicuramente esageratissima quella di 30 miliardi per le spese residue, dopo fatte le anzidette detrazioni, destinate a pagare ad industriali e commercianti italiani le forniture fatte dallo stato durante la guerra. Sarebbero una bella cifra se fossero utile netto. Ma sono invece per gli industriali l’incasso lordo, da cui bisogna dedurre l’acquisto delle materie prime e delle derrate alimentari all’origine presso gli agricoltori italiani, le spese di lavorazione (salari, combustibile ecc.), le quote di deperimento, le spese di impianto di stabilimenti per la guerra (un solo stabilimento in Piemonte costò 55 milioni di lire e poiché serve solo ad esplosivi e poiché altre industrie non vi si possono impiantare e poiché in pace quel solo stabilimento basterebbe ad inondare di esplosivi il mondo intiero, il suo valore oggi è zero). Quanto si crede che sui 30 miliardi di incasso lordo sia utile netto? Il 10%, il 15%, il 20%? Sulla media dei 5 anni dal 1915 al 1919 compreso il 1919 che è anno di svalutazione delle scorte e per molte industrie sarà anno duro di gravi perdite, forse la prima cifra è la più prudente. Voglio ammettere l’ultima. Sono 6 miliardi di utili netti che potrebbero essere confiscati. Sarebbe bene sapere se «La Stampa» li vuol confiscar tutti o solo la parte che può essere considerata sovraprofitto, ossia l’utile eccedente il reddito normale che gli stessi capitali avrebbero goduto anche in tempo di pace. Se è così, come pare ragionevole, ho timore che i 6 miliardi si riducano a molto meno. L’on. Meda ha affermato che il provento della esistente imposta sui sovraprofitti giungerà ai 2 miliardi. A questi 2 miliardi, già acquisiti dalla finanza, potremo forse, girando la vite, aggiungerne un altro, aggiungerne due, forse tre, come propone, senza fondamento di cifre, e tassando molta altra roba, oltre i sovraprofitti di guerra propriamente detti, la commissione del dopo guerra. Ma tutto finisce lì. Con 3 miliardi non si hanno i «fiumi» di denaro bastevoli a pagare gli 80 miliardi di debito di guerra ed a fare tante altre innumerevoli cose.
La verità è che la finanza con cui si pagano con 3 miliardi debiti di 80 miliardi è finanza dissolvitrice, è polvere negli occhi delle masse elettorali, è la finanza di chi reputa solo buone le imposte che colpiscono altrui. È necessario dir chiaro e forte che una siffatta finanza condurrebbe lo stato al fallimento ed il paese alla rovina. Non è lecito, no, bandire un cotal diversivo follaiuolo per screditare un progetto, quello Meda, il quale è suscettivo di miglioramenti, ma non si può onestamente negare sia il primo tentativo serio di riordinamento delle imposte sui redditi dopo quello di 45 anni fa del ministro Scialoja. Non è lecito affermare senza una parvenza di prova, che la imposta normale sui redditi, la complementare progressiva sul reddito e la patrimoniale siano destinate a risolversi in imposte indirette, ossia «in un sistema di balzelli, che descrivono un arco di rimbalzo intorno ai veri detentori della ricchezza, per andare a cadere su ceti meno abbienti e per gravare sovratutto su quelli proletari». Affermazioni così gravi, sobillatrici di tanto malcontento e di tanta ira andavano corroborate da una parvenza di prova. Ho cercato di studiare quanta più parte potevo della migliore letteratura sulla traslazione delle imposte; ma una teoria così stravagante come quella che farebbe rimbalzare sui poveri l’imposta di 17.000 lire allo stato, più 3.000 lire ai comuni, oltre la normale di probabili 20-30.000 lire, dovuta dal percettore di un reddito di 100.000 lire all’anno a titolo di imposta progressiva sul reddito e di patrimoniale, non l’ho veduta scritta in nessun libro. Si esponga il misterioso processo di traslazione e sarà oggetto di attento esame. Ma finché tale novella dimostrazione non sia data sono indotto ad asserire che il milionario pagherà lui, proprio lui, fors’anco sotto forma di improvviso calo di valore del suo patrimonio, l’imposta. Non altri. Il progetto Meda è inviso a molti perché riduce nei limiti del possibile le frodi fiscali al minimo. Non sopprime le frodi che si possono commettere possedendo redditi esteri; ma nessun progetto di nessun singolo stato può toccare una meta che si raggiunge solo con accordi internazionali e dovrebbe diventare uno dei precipui compiti della Società delle nazioni.
Nei limiti della azione dello stato italiano è una ingiusta e stolta ingiuria accusare l’on. Meda di volere rendere più iniquo il sistema tributario di prima. Forse così pensano i portatori di titoli al portatore, i quali invano riflettono agli avvedimenti per sottrarre quinc’innanzi il loro reddito alla progressiva ed alla patrimoniale e, per conseguenza inevitabile, alla imposta successoria. Per essi non vi sono scappatoie se non casualissime e pericolose. Converrà pagare. Forse dichiarano iniqua la riforma Meda quei proprietari di terreni, i quali abituati a pagare la fondiaria sulla base di stime vecchie ed a nulla pagare per ricchezza mobile, d’or innanzi dovranno dichiarare i loro redditi effettivi correnti ai fini della progressiva e dovranno pagare l’imposta sui redditi d’esercizio in aggiunta ai redditi dominicali. Forse imprecano alle regole innovatrici del progetto Meda quegli industriali e commercianti che oggi dichiarano di non tenere libri o li tengono in modo manifestamente artefatto e pretendono ciononostante di far sentire le proprie ragioni dinanzi ai magistrati. Il progetto dichiara i ricorsi di costoro irricevibili e li pone in balia assoluta della finanza; e ben fa, perché i disonesti non han diritto di piatire in tribunale. Forse v’è chi dichiara iniqua pretesa quella del progetto di non condonare le multe per mancata o deficiente dichiarazione dei redditi; ma è il solo modo per risanare l’ambiente ed abituare i contribuenti alla veracità.
Non è da stupire che tutti coloro i quali si erano abituati a godere di ingiuste immunità legali o di fatto giudichino iniquo il progetto che li colpisce; ma non è tollerabile che si danni con tono di disprezzo alla geenna delle imposte antidemocratiche un progetto di riforma il quale attua i postulati della scienza finanziaria contemporanea e rivaleggia, sotto molti rispetti in meglio, con le leggi d’imposta che furono il vanto indisputato dell’Inghilterra prima, della Germania poi ed oggi degli Stati uniti. Non è tollerabile che si faccia passare agli occhi del pubblico, il quale non ha i testi di legge dinanzi e non può controllare le recise affermazioni del suo giornale, come gravante sui proletari un disegno che raddoppia gli odierni minimi esenti, che aumenta le detrazioni, che tien conto dei componenti la famiglia, che deduce le quote versate alle casse d’assicurazione contro gli infortuni, le malattie, l’invalidità, la vecchiaia, ecc., che sottrae dal reddito, prima di tassarlo con la progressiva, le imposte ed i debiti; che, in ultimo, tassa mitemente coll’1 o 2% i redditi modesti e va su fino ai redditi altissimi e tenuto conto di tutte le imposte e delle loro addizionali comunali e provinciali, sino al massimo normale – sorpassabile in caso di eccedenze consentite agli enti locali – del 58 per cento. Potrà taluno dire che, per tempi di pace, siffatte aliquote sono troppo alte; non mai che esse siano frutto di condiscendenza verso i ricchi e di desiderio di vessazione verso quelli che un tempo si dicevano poveri ed ora chiamansi proletari. La sola via di salvezza per la finanza è qui, nel tassare tutti, senza eccezione alcuna, in rapporto alle rispettive condizioni di ricchezza e di famiglia. Anche questa via è lunga e penosa a percorrere; forse essa non è tale da poter dar da sola e da dar subito i miliardi che mancano alla saldatura del nostro bilancio. Ma percorrerla è necessario, con risolutezza ed energia. Fa d’uopo essere più risoluti del ministro proponente, cassando senz’altro e subito la esenzione, concessa ai titoli di stato e consigliata dalla timidezza, dall’imposta progressiva sul reddito e da quella patrimoniale. Fa d’uopo resistere con risolutezza agli attacchi diversivi che – additando mezzi di portata irrisoria ma fomentatori di odi sociali e di disillusioni amare per la loro fatale irrisorietà – hanno per iscopo di allontanare la riforma, la quale può riportare la giustizia nel nostro sistema tributario ed avrebbero per risultato necessario il fallimento dello stato.
IV
Le correzioni de «La Stampa»
Se i lettori non avessero avuto sott’occhio il testo preciso ed intiero del brano in cui «La stampa» metteva a confronto col progetto Meda il suo progetto di cavare «fiumi di denaro» da un «congegno fiscale di forte percezione, di prelevamenti quasi espropriatori dei sovraprofitti di guerra…, refurtiva della vasta e permanente razzia allestita sui vari bilanci della difesa nazionale durante la guerra», potrebbero credere oggi che io abbia esagerato nelle parole adoperate a proposito del tentativo di diversione compiuto dalla «Stampa» contro il progetto Meda. Ma il brano è lì, chiaro, preciso e dice a quelli che lo vogliono leggere che il progetto Meda di riforma tributaria è una «sanguinante ironia», è «un’atroce derisione», è «una sfida proterva alla terribile realtà» e che per far fronte al debito di 80 miliardi e pagare 4 miliardi di interessi, insieme alle pensioni, alla riorganizzazione ed «a tutto il resto» bisogna andare a stanar fuori i «fiumi di denaro» nei sovraprofitti di guerra. Questa io avevo detto essere finanza perversa ed ingannatrice e tale rimane. Neppure una virgola va tolta dal severo giudizio che l’enunciazione di tale politica merita.
Ma io non sono così ostinato da continuare a gridar forte quando il peccatore, pur dichiarando di non avere peccato, dichiara di non avere avuto male intenzioni e mette fuori un programma, discutibile bensì come sono tutti i programmi e tutte le riforme, ma ragionevole. Vorrà dire che la sua di prima sarà stata una involontaria dimenticanza – ahi! quanto intonata a tutta una campagna politica fomentatrice di odi e di malcontenti rabbiosi -; e che ora «La stampa» è disposta a discutere di questioni finanziarie con una certa serenità ed oggettività. Sarà bene che lo scrittore procuri di non cadere in errori diversi ma non meno chiari di quelli di prima. Oggi non dice più che l’imposta sugli extraprofitti dovesse servire a pagare gli 80 miliardi di debito e nemmeno ad ammortizzarli «ma solo, come è ovvio e come ha potuto capire, di pagarne gli interessi, di farne l’annuale servizio di bilancio». Non è ovvio e non si capisce affatto. Come può un’imposta sui sovraprofitti di guerra, la quale si incassa una volta tanto per i guadagni forniti dalla guerra e frutterà 3 o 6 miliardi od altra cifra simile, fornire i mezzi di pagare in perpetuo i 4 miliardi di interessi necessari per fare il servizio di un debito di 80 miliardi? Pagare 80 miliardi in una volta o pagare gli interessi in perpetuo in 4 miliardi annui ovvero ancora pagare una annualità di 5 miliardi e mezzo per cinquant’anni sono la stessa precisa quantità, se noi supponiamo un interesse del 5 per cento. E con 3 o 6 miliardi esatti una volta sola non si paga affatto né l’una né l’altra di queste tre quantità uguali.
Sarà anche bene che il mio contradittore non accusi di superficialità il conto con cui io dimostravo che non su 70 miliardi di spese di guerra si può fare assegnamento ai fini dell’imposta di guerra, ma su 30 miliardi e lordi, da cui deducendo le spese per materie greggie, combustibili, impianti da ammortizzarsi, salari, ecc., si arriva, sì e no, a 6 miliardi di profitti netti. Il conto sarà superficiale, come dicono coloro i quali hanno da esporre qualcosa di talmente profondo da riuscire incomprensibile, ma è esatto. Dire, come dice il mio avversario, che se lo stato ha comprato per 10 miliardi di automobili, i fabbricanti hanno comprato alla loro volta carrozzerie, fanali, magneti, gomme, ecc., e i fabbricanti relativi hanno alla loro volta guadagnato è dire cosa vera; ma non implica che le forniture, il giro di affari vero siano di cifra superiore ai 10 miliardi del valore dei prodotti finiti ossia delle vetture automobili. Il valore vero complessivo, che tutto abbraccia è 10 miliardi e non «di molti miliardi di più»; dieci e non un centesimo di più. È un errore notissimo in statistica calcolare due o tre volte il medesimo prodotto sotto le facce del prodotto grezzo, semi-elaborato e finito. Il valore del prodotto finito comprende tutto; e la percentuale di guadagno calcolato su quest’ultimo valore comprende tutti i guadagni precedenti. Non basta il 20% sul prodotto finito? Mettiamo il 30% e saranno 9 miliardi, da cui bisogna dedurre le imposte pagate. Sarà qualcosa, ma non è il «fiume d’oro» con cui poter fare il servizio dei famigerati 80 miliardi.
Questi errori contabili sono le ultime resistenze della ritirata. Sono ben lieto che il mio atto d’accusa abbia indotto «La Stampa» ad accettare, punto per punto, tutte le proposte e le tesi concrete da me avanzate. Accettato il principio che l’imposta sui sovraprofitti di guerra deve abbracciare tutto il periodo della guerra e colpire l’intiero ed effettivo sovraprofitto realizzato durante la guerra. Rendendosi, «non meno di me», conto delle «legittime convenienze dell’industria, la quale non deve restare asfissiata sotto una cieca confisca statale», «La Stampa» riconosce che l’industria «deve poter serbare per le ulteriori utilizzazioni produttive una parte dei suoi profitti di guerra, nella misura, per esempio, della media di utili realizzata nell’ultimo triennio prima del conflitto». Non giova che, nell’accettare la mia tesi, «La Stampa» faccia appello all’esempio di Lloyd George, il quale avrebbe imposto in Inghilterra la soluzione del problema dei sovraprofitti. Parrebbe che Lloyd George abbia già risoluto quel che in Italia si tarda a risolvere. Non ne so nulla. Da quanto mi consta nulla è innovato in Inghilterra nella legislazione vigente per l’imposta sui sovraprofitti. Questa esiste, così come esiste in Italia, con difetti e pregi diversi non ancora corretti. Gli industriali inglesi, dopo aver pagato l’imposta vigente sui sovraprofitti, sono rimasti con residui di guadagno forse più vistosi di quelli dei loro colleghi italiani; né finora è intervenuto alcun disegno di legge a portarne via loro una parte ulteriore. Se verrà, vedremo. Dubito che se un disegno di legge venisse in Italia ad applicare i concetti miei e della «Stampa» potrebbe ottenersene un gettito apprezzabile oltre quello dei 2 miliardi già acquisiti dall’imposta vigente.
Quanto alla riforma Meda essa non e più una «sanguinante ironia», una «atroce derisione», ecc. È semplicemente un disegno di legge che ha del «nuovo» del «riveduto» e del «corretto» di cui il ministro proponente può andar fiero; rappresenta «un sensibile progresso sui soliti rimaneggiamenti fiscali dell’anteguerra». Non è però ancora l’ideale ed è suscettivo di critiche.
Il che si sapeva. Il curioso è che tutte le critiche che oggi «La stampa» rivolge al progetto o son prive di portata o sono quelle stesse da me dianzi esposte.
1) La riforma non è completa. Non dà i 3 miliardi di probabile disavanzo. Verità certissima; ma che non è una critica. Il progetto Meda non riguarda tutto l’ordinamento tributario: non le imposte sui consumi, non quelle sulle successioni e sugli affari, non il trattamento temporaneo dei sovraprofitti di guerra. Né poteva farlo a rischio di riuscire un pasticcio. Un progetto che si occupa delle imposte dirette sui redditi non può occuparsi di altre cose estranee al suo compito. Se il Meda avesse intitolato il suo progetto «Riforma tributaria» senz’altro, la critica sarebbe ragionevole, perché il ministro avrebbe detto una assurdità pratica. Ma il ministro ha detto solo «Riforma generale delle imposte dirette sui redditi», e il suo progetto deve essere giudicato entro i suoi propri limiti. Che cosa ha a che fare una eventuale imposta sul vino – che è l’unica nuova grande imposta sui consumi oggi pensabile in Italia – con le imposte sui redditi? Non sarebbe un imbroglio metterle insieme; ed un volere far cadere l’una per i rischi relativi all’altra? La riforma dei tributi diretti non darà 3 miliardi? È probabile. Ma chi è colui che da un’imposta sola può oggi sperare sul serio di cavare 3 miliardi all’anno? Io, per quanto abbia collaborato alla compilazione di un disegno di legge, da cui il disegno Meda fu, come cortesemente mi ricorda «La Stampa», tratto pressoché invariato, non ho mai osato né oso esporre alcune cifre di presunto rendimento della riforma. Chi può prevedere il corso dei prezzi e quindi dei redditi in avvenire? Chi può prevedere le variazioni della materia imponibile? Chi può prevedere sovratutto se la macchina fiscale procederà secondo le consuetudini dell’anteguerra, quando si andava per approssimazioni, per transazioni e la politica aveva inquinato e paralizzato l’amministrazione? Ovvero se si oserà accertare i redditi con severità, con imparzialità ? Tutto sta lì: nel grado di indipendenza, di cultura, dei funzionari e dei magistrati chiamati ad applicare l’imposta. Questa potrà dare da 500 milioni ad 1, forse a 2, fors’anco a 3 miliardi di più d’ora, a seconda dei coefficienti che ho ricordato. Non sono profeta; e lascio fare ad altri il mestiere delle previsioni. Adoperiamoci tutti a risanar l’ambiente politico ed amministrativo, ad educare i contribuenti, a far avvenire gradatamente il passaggio dalla guerra alla pace; ed il problema si risolverà. Altrimenti nessun progetto anche grandiosissimo varrà ad abbordarlo.
2) La riforma non tocca i titoli di stato. È la vera, la grande obiezione che avevo fatto subito al progetto Meda. Qui il governo deve farsi coraggio. La critica vera non è quella astiosa che condanna appena trova un difetto; ma quella che incoraggia a rimediarlo. La ragione del difetto è nota ed è anche plausibile. Gli uomini di governo hanno paura di scontentare i risparmiatori, a cui essi hanno promesso la esenzione da qualunque imposta presente e futura. È uno scrupolo onesto e comprensibile. Tocca a noi persuadere il governo che i suoi scrupoli sono infondati; che i risparmiatori non pretendono di avere una esenzione personale che non fu mai promessa; che essi si sentiranno anzi più sicuri quando lo stato tasserà tutti, ed anch’essi, con l’imposta personale per tutto il reddito goduto, senza badare alle fonti del reddito. Questa è la critica feconda; e nessuno più di me sarebbe lieto se anche il mio contradittore si mettesse su questa via.
V
Non ripetere il progetto Giolitti del 1893
Notizie recenti farebbero credere che il consiglio dei ministri abbia affidato all’on. Schanzer l’incarico di concretare le linee di una vasta e larga riforma tributaria, la quale avrebbe per caposaldo l’imposta progressiva.
La notizia non ha sapore di novità ; ma appunto perciò desta gravi dubbi e non favorevole impressione. Essa è la vecchia frase la quale è sempre stata usata da tutti i ministeri al loro avvento al potere; ed è frase a cui non può rispondere alcun immediato contenuto serio. Una riforma tributaria dalle linee vaste e larghe non è cosa che si improvvisi, specialmente quando coloro i quali sarebbero chiamati a concretarla non sono uomini segnalati in modo particolare e da tempo per la loro perizia tecnica in argomento. In pochi giorni ed in qualche notte si improvvisa un progetto di imposta progressiva simile a quello, rimasto famoso nei corridoi del ministero delle finanze, che fu messo insieme nel 1893 per ordine dell’on. Giolitti, alla vigilia della sua caduta dal potere. Ma son progetti nati-morti, polvere negli occhi del pubblico, destinati a dar lavoro agli uffici esecutivi ed a concludere finanziariamente poco o nulla. Se si vuole fare della finanza demagogica ed improduttiva, il campo è libero ed aperto. Basta pescare qua e là nella legislazione frettolosa della guerra nei diversi paesi, nei provvedimenti imposti dalla sconfitta e dalle rivoluzioni nei paesi russo-austro-ungaro-germanici qualche imposta sul capitale o sugli incrementi di capitale durante la guerra, o sui redditi straordinari; ed il piano «vasto e largo» è bell’e pronto.
Sia però lecito dire che tutto ciò non è roba seria. Mancando i mezzi di accertamento, difettando ogni elemento sicuro per fare valutazioni rispondenti a verità, quelle riforme correranno la sorte di tutte le riforme effettuate durante la guerra: tassazioni a casaccio, secondo la fortuna o l’abilità individuale degli agenti e dei contribuenti; sperequazioni enormi; rinfocolamento degli odi di classe tra coloro che si presumeranno troppo gravati e quelli che saranno reputati così abili da non pagare il dovuto. Quando si procede a colpi di scena tributari, per far impressione sulle moltitudini, i colpiti sono i piccoli ed i medi e gli inconsapevoli, i quali non seppero correre per tempo ai ripari. Gli avveduti, che seppero od intuirono a tempo il provvedimento, sanno vendere prima le loro attività (titoli, immobili, ecc.), quando il colpo non è ancor venuto e si rifanno dopo a cento doppi dell’onere dell’imposta ricomprando ai prezzi sviliti determinati dal tributo.
Ma così non si fa della finanza adeguata al grave momento presente. Oggi, come prima, come non mai prima, il problema è un problema di pazienza e di organizzazione. Un comunicato ufficioso recente ha vantato come un grande successo il fatto che nel 1918-19 le imposte dirette sui redditi fruttarono 1 miliardo e 488 milioni di lire, con un aumento di 451 milioni sull’esercizio precedente. Quel comunicato sembra un grido di trionfo. Se lo si analizza, esso desta invece le più gravi preoccupazioni. Del gettito totale, ben 810 milioni sono dovuti alla sola imposta sui profitti di guerra e solo 663 alle imposte ordinarie sui terreni, fabbricati e ricchezza mobile, oltre a 15 milioni alle imposte sugli amministratori e gerenti delle società commerciali. Dell’aumento di 451 milioni, ben 367 sono dovuti ai profitti di guerra ed 11,8 ai proventi degli amministratori, residuando appena 73 milioni di aumento dalle imposte ordinarie. Ciò significa che le imposte ordinarie, quelle veramente permanenti, le sole su cui il tesoro possa fare assegnamento per l’avvenire, hanno fornito un aumento insignificante; che per correre dietro ai profitti di guerra, la finanza, la quale è composta di uomini che non possono lavorare 48 ore al giorno, ha dovuto trascurare i redditi normali.
Questo è il difetto fondamentale dei nostri ordinamenti tributari. Come! Durante la guerra, prezzi e redditi sono cresciuti moltissimo e la finanza conosce e tassa solo i redditi antichi! Per essere messe d’accordo con la realtà, le cifre del provento delle imposte ordinarie sul reddito andrebbero almeno duplicate, forse triplicate senza aumentare le aliquote, per solo effetto della rivalutazione dei redditi.
Una riforma tributaria seria, la quale voglia affrontare il problema a fondo, non si può improvvisare. Esige studi accurati e particolareggiati di mesi. Non è esagerato affermare che se i ministri del tesoro e delle finanze vogliono, come sarebbe loro preciso dovere, rendersi conto della portata delle norme elaborate nei loro uffici o da esperti di loro fiducia per raggiungere lo scopo, non basta un anno. Un progetto organico e serio, specie se inspirato a concetti di «vasta e larga» riforma potrebbe essere presentato alla camera solo quando mancherebbe poi ai ministri attuali inevitabilmente il tempo per farlo discutere ed approvare. Dal dilemma non si sfugge: o la annunciata riforma è polvere demagogica negli occhi del pubblico e si apparecchia in un paio di giorni; od è cosa seria e la promessa di riforma non può essere mantenuta.
Un governo onesto, amante del paese, deve fare ogni sforzo per non incappare nel dilemma. Noi non vediamo altra via di uscita se non facendo appello, al disopra degli uomini e delle parti politiche, al principio della continuità dell’opera governativa. Esiste in questo campo un progetto, che non è stato frutto di improvvisazione, che può essere criticato, ma si presta ad ogni possibile miglioramento. È il progetto di riforma delle imposte sui redditi, dell’on. Meda. Quel progetto è una forma, in cui può essere colato poi qualsiasi metallo. Esso pone le basi indispensabili della riforma. Riorganizza i tributi esistenti, ordina l’opera di revisione e di accertamento; sovrimpone alle esistenti, trasformate e rivedute, due imposte sul reddito e sul patrimonio complessivo.
Noi crediamo che gli on. Schanzer e Tedesco farebbero opera patriottica se, senza perdere altro tempo, senza condurre a spasso il buon pubblico sui campi fioriti delle immaginose riforme tributarie, applicassero intanto per decreto reale la riforma Meda. Sei mesi di tempo, di indefesso lavoro non saranno troppi per prepararne l’applicazione. Frattanto i ministri del tempo avrebbero agio di studiare quelle aggiunte sensate e feconde, a cui essi avessero in animo di legare il loro nome. Vorranno istituire una imposta patrimoniale straordinaria? Essi potranno valersi del congegno già apparecchiato nel progetto Meda per la patrimoniale ordinaria, congegno il quale in tanto ha valore in quanto basa sulle valutazioni rinnovate ai fini delle vigenti imposte. Vorranno colpire i patrimoni cresciuti durante la guerra? Necessità vuole che prima si sappia quali sono i patrimoni ed i redditi normali. Altrimenti invece di giustizia si fa il caos ed il disordine, in cui pescheranno i furbi, i grandi manipolatori di affari, la gente abile a salvarsi e ad arricchirsi. Gran decisione, di gravissimo momento, è quella che deve prendere il ministero Nitti. Giova sperare che esso non vorrà sacrificare l’interesse del paese, l’avvenire della finanza italiana ad un basso desiderio di popolarità demagogica.
VI
L’imposta straordinaria sul patrimonio
L’on. Nitti ha esposto un così bel numero di quelle verità, le quali sono state ripetutamente esposte su questo giornale, che è doveroso innanzi tutto tributargli per questo l’elogio più largo. Il dovere di consumare meno e di produrre più intensamente; la necessità di combattere il lusso ad ogni costo e con ogni mezzo; la necessità di rimettersi al lavoro senza orgasmo e senza scoraggiamento, l’urgenza di compiere il più rapidamente possibile il passaggio dallo stato di guerra allo stato di pace, abolendo tutto ciò che la guerra rese necessario e che la pace rende superfluo e perciò stesso dannoso; la assurdità dei metodi rivoluzionari e sopraffattori per raggiungere risultati veramente utili alle masse: tutti questi sono insegnamenti profondamente veri, che è bene siano stati ripetuti da una tribuna così alta, dal capo del governo, nel solenne momento presente.
L’esposizione finanziaria dell’on. Schanzer, sobria ed, a quanto posso giudicare, rispondente a realtà, ha aggiunto alcuni particolari al programma svolto dal capo del governo, i quali mi paiono nelle linee generali anch’essi meritevoli di approvazione. Il debito pubblico salito alla fine di maggio 1919 a 78 miliardi circa, di cui 19 miliardi all’estero, 20,3 miliardi in buoni del tesoro, 10,1 in biglietti di banca e di stato e 27 in varie specie di consolidati e debiti lunghi. Il fabbisogno di bilancio preveduto in 8 miliardi, con un disavanzo previsto per il 1919-20 di 2 miliardi e 750 milioni di lire. A fronteggiarlo si propone: 1) l’applicazione del disegno di riforma tributaria Meda. Proposito, del quale non saprei abbastanza lodare il governo, come quello che dimostra la volontà di posporre la ambizione di far del nuovo al desiderio di fare il vantaggio del paese, continuando, cosa rara in Italia, l’opera dei predecessori. Il «Corriere», il quale aveva consigliato questo procedimento, è ben lieto che il suo consiglio sia stato accolto; 2) l’imposta sul vino, su di che si dovrebbero ripetere le osservazioni ora fatte; 3) l’introduzione di qualche tributo sul lusso e sulle manifestazioni esteriori della ricchezza. A parte i particolari, che si giudicheranno sul testo concreto delle proposte, nessun tributo meglio di questo risponde alla suprema necessità del momento che è di limitare i consumi e di indirizzare la produzione a cose veramente utili ad innalzare il tenor di vita delle moltitudini.
A molte discussioni darà luogo l’annuncio di una imposta straordinaria sui patrimoni. Finora essa fu applicata solo dai paesi vinti ed ha in essi sostanzialmente lo scopo di pagare le indennità di guerra ai vincitori. Siccome, la dio mercé, non siamo in questa situazione, l’imposta può essere concepita soltanto come un mezzo per liquidare in tutto od in parte i debiti di guerra. In Inghilterra e negli Stati uniti, dove il problema fu profondamente discusso, si riconobbe la impossibilità di rimborsare tutto il debito di guerra: e l’opinione finora prevalente è che i danni della imposta straordinaria sul patrimonio per rimborsare una parte dei debiti di guerra siano superiori ai vantaggi, sicché non si parla di attuarla. In Francia l’accenno fatto alla sua introduzione dal ministro Klotz ha incontrato opposizioni vivissime, temendosi dai più di far scadere la Francia al livello di un paese vinto col ricorrere al rimedio estremo di quello che è una confisca dei patrimoni.
Sembra che l’on. Nitti voglia evitare questa taccia perché l’imposta straordinaria da lui annunciata, sebbene intesa a colpire tutti i patrimoni, inciderebbe più sensibilmente solo sui patrimoni formati ed accresciuti per effetto della guerra. Se si fa per ora astrazione da rilievi di principio, il giudizio, sfavorevole o favorevole al nuovo tributo, è condizionato principalmente alle modalità di applicazione, le quali perciò si attendono con molto interesse. Il governo dovrà procedere con molta cautela se vorrà raggiungere l’effetto utile, che è di scemare il debito di guerra, senza produrre effetti dannosi. Forse non è inutile indicare alcune di queste cautele, allo scopo di chiarire in parte i dati del problema, uno dei più complessi ed irti di difficoltà della finanza contemporanea.
Il provento dell’imposta straordinaria deve essere tutto applicato alla riduzione del debito di guerra. È un concetto che con piacere ho veduto accolto dal ministro del tesoro. Neppure un centesimo deve essere distratto per le spese correnti. Sarebbe errore gravissimo, quasi un delitto se si diminuisse il patrimonio privato senza scemare il debito dello stato. Il patrimonio privato, ricordiamolo, è il complesso degli strumenti – terre, case, macchine, scorte, fondi circolanti – che servono per la produzione. Molti immaginano che l’imposta straordinaria possa colpire una ricchezza cosidetta inerte – denaro, depositi bancari, azioni – che non contribuirebbe alla produzione. Bisogna togliersi questa illusione. Il denaro contante, salvo quella parte che è esuberante e converrà ritirare, è necessario per le paghe, per le compre-vendite; i depositi bancari sono impiegati in prestiti al commercio ed all’industria, le azioni sono meri segni rappresentativi di edifici, di macchine, ecc., i titoli di debito pubblico sono una specie di ipoteca sui beni mobili ed immobili esistenti nel paese. Tutte queste ricchezze in tanto esistono in quanto esistono i beni materiali, l’avviamento, l’organizzazione che ne sono il vero contenuto. Il patrimonio privato, in ultima analisi, consiste in cose necessarie ed utilizzate all’abitazione degli uomini (case) od alla produzione (terra, macchine, capitali circolanti). Se lo stato prelevasse una parte di questa ricchezza privata per consumarla nelle spese correnti, farebbe come il prodigo che consuma l’avere suo. In un momento successivo si troverebbe con un capitale circolante minore per fare fruttificare terre ed industrie. La produzione, invece di aumentare, scemerebbe; il che sarebbe un suicidio in un momento in cui invece occorre produrre di più. L’imposta straordinaria sul patrimonio ha invece scopo ragionevole quando lo stato, prelevando, ad esempio, 10 miliardi sui contribuenti, rimborsa 10 miliardi di debito pubblico. In tal modo il capitale del paese resta invariato. I creditori, che ottengono il rimborso, dovranno pure impiegarne l’ammontare a scopi produttivi. La vita del paese potrà continuare a svolgersi, senza un improvviso tracollo. Trattasi di una verità assiomatica, la quale dappertutto, in ogni paese che non voglia correre alla rovina, è posta a fondamento dell’imposta straordinaria sul patrimonio. Il beneficio che in avvenire il paese ricaverà dall’imposta, sarà di pagare meno imposte annue correnti. Per ogni 10 miliardi di imposta straordinaria oggi riscossa, saranno 500 milioni all’anno di meno di imposte ricorrenti.
Bisogna distinguere tra il patrimonio privato preesistente ed indipendente dalla guerra e quello formatosi o cresciuto per effetto della guerra. La commissione del dopo guerra (relatore Alessio), proponeva di non toccare il primo e di tassare solo il secondo, con una imposta di 3 miliardi, destinata a rimborsare subito il debito in biglietti. Molte sono le ragioni che suffragano il concetto di non toccare il patrimonio antico, tassando solo il nuovo. Ad ogni modo, deve almeno farsi la distinzione suggerita dall’on. Nitti: tassazione tenue del capitale antico e tassazione più forte del capitale dovuto alla guerra. Gli arricchiti dalla guerra debbono essere chiamati, nel concetto del governo, ad un sacrificio speciale per scemare l’onere del debito, che altrimenti graverebbe su tutti i contribuenti. Le difficoltà del distinguere non sono tuttavia lievi:
- Noi non conosciamo affatto quale fosse il patrimonio dei privati prima della guerra. Non esiste alcun censimento dei patrimoni privati al 31 dicembre 1913, come quello che si fece in Germania per la imposta straordinaria stabilita allora per la preparazione alla guerra e che oggi permette al governo tedesco di conoscere di quanto i patrimoni siano aumentati durante la guerra. Oramai è impossibile ricostruire i patrimoni privati del 1914, dato che non sapremo mai chi fossero allora i possessori di titoli al portatore, né abbiamo alcuna testimonianza attendibile sul valore dei terreni, delle cose, delle fabbriche in quell’epoca. Impossibile dedurre tale notizia dai catasti dei terreni e dei fabbricati e dai registri della ricchezza mobile, che contengono soltanto dati sbagliati e sbagliati per volontà del legislatore e per pratica amministrativa pacifica. Sarebbe iniquo partire da quelle basi, che non avevano, per volontà di legislatori, nessun rapporto con la realtà. Qui si vede quale errore sia stato, prima del 1914, non aver mai voluto eseguire quella rinnovazione degli accertamenti, su cui tanto avevo su questo giornale insistito, sino alla nausea. Adesso, coloro che mi accusavano di voler ritardare la «grande» riforma tributaria debbono confessare di non avere né gli accertamenti esatti, né la riforma.
Costretti, come siamo, a brancolar nel buio, credo che praticamente noi dovremo considerare come patrimonio antico, preesistente, il patrimonio che sarà accertato al 31 dicembre 1919 in base al progetto Meda – il quale dà norme severe e pratiche per la tassazione ordinaria annua del patrimonio – dedotto ciò che potrà risultare come nuovo in base all’imposta sui sovraprofitti di guerra e ad altre notizie sicure e non controvertibili. Posto che nulla si sa del passato, noi dobbiamo supporre che il presente sia la fotografia del passato ed assumere come patrimonio dovuto alla guerra quella parte che da prove svariate risulterà avere questa causa. Se Tizio possedeva già nel 1914 una casa, un fondo, una fabbrica, quello è patrimonio antico; se l’ha acquistata dopo, si potrebbe ammettere sia patrimonio nuovo, a meno che altre partite della sua attività siano diminuite. Come fare però a provare che Tizio non ha venduto titoli al portatore o realizzato attività – cambiali, fondi commercio – già possedute nel 1914, col ricavo acquistando il fondo? Si potrebbe presumere che si tratti di acquisti fatti con guadagni di guerra solo se l’acquirente è un tale che già è contribuente all’imposta sui sovraprofitti o in altro modo speculò o lucrò per fatto della guerra.
Il vero ostacolo però è dato dai titoli al portatore. In Germania sembra che l’ostacolo non sia grave, perché fin da prima della guerra esisteva l’imposta sul reddito globale e – cosa miracolosa, da non credersi se non si vede e si tocca – i contribuenti denunciavano in generale anche il reddito dei titoli al portatore o, meglio, la finanza era così esperta da scoprirlo. In Italia i titoli al portatore erano intieramente tassati, fin troppo, in confronto coi redditi dei privati, ma presso le società e gli enti emittenti. Forse converrà, per l’ultima volta, tassare l’accertamento di patrimonio verificatosi per i titoli al portatore non presso gli individui, ma presso le società e gli enti emittenti. Qui si può conoscere, fino al centesimo, i redditi, netti da ogni peso e tributo, ottenuti dalle società dal 1914 al 1919 e tassare questi, salvo rivalsa sugli azionisti.
Rimarrà sempre insoluto il problema degli incrementi di patrimonio investiti in titoli di debito pubblico, che sono al portatore ed esenti da qualunque imposta presente e futura. Esentarli sarebbe ingiusto, tassarli difficile. Non basta dire: i vecchi titoli sono la ricchezza antica; i nuovi titoli di guerra sono la nuova. Perché moltissimi vendettero la vecchia rendita 3,50% per comprare il nuovo 5% il quale, per essi, è perciò vecchio patrimonio;
- anche se il valore del vecchio patrimonio è cresciuto, non si può dire che vi sia stato un vero incremento patrimoniale. Tizio possedeva nel 1914 un fondo rustico del valore di lire 100.000. Adesso quel fondo vale 200.000 lire. Siamo di fronte ad un vero incremento? Il fondo è rimasto tale e quale: forse è deteriorato per sospese riparazioni ed interrotti lavori. Vale il doppio, solo perché le lire valgono la metà o meno della metà. Se si tassassero questi aumenti fittizi, puramente monetari, come veri incrementi patrimoniali, noi sostanzialmente esproprieremmo la vecchia proprietà fondiaria, la caricheremmo di un debito enorme, da accendersi per pagare il tributo straordinario, rendendola meno capace di concorrere a quell’aumento produttivo, su cui l’on. Nitti a ragione tanto insiste;
- bisogna distinguere l’aumento di patrimonio ottenuto per fatto di guerra, da quello ottenuto mercé il risparmio e le rinuncie fatte durante la guerra. Questo è un punto delicatissimo, forse quello, la cui trascuranza potrà pesare più duramente sulle sorti avvenire del paese. «Questo non è il tempo di formare o di accrescere le fortune» ha detto l’on. Nitti; riferendosi, evidentemente, ai guadagni ottenuti, spesso senza merito, da coloro che fecero forniture o comprarono e vendettero merci, beni, ecc., durante la guerra. Ma se ci fu un tempo in cui fosse necessario «risparmiare», «rinunciare al consumo» quello fu il tempo di guerra e quello è il tempo d’oggi. Nessun sacrificio economico è così lodevole come quello di chi risparmia. Ma se noi tasseremo l’incremento di patrimonio dovuto al risparmio, come se fosse dovuto a guadagni di guerra, noi faremo cosa iniqua e deleteria. Coloro che risparmiarono, tutti i modesti borghesi, gli impiegati, i proprietari, che comprarono titoli di stato, quando il sottoscrivere ai prestiti nazionali era detto un dovere, sarebbero puniti. Invece sfuggirebbero all’imposta coloro che gozzovigliarono, che irrisero alle necessità dello stato, che calpestarono ogni sentimento di patria spendendo e spandendo, acquistando vesti sfarzose e monili e gioielli per le mogli e le amanti. Se non si vuole arrecare perciò un colpo mortale allo spirito di risparmio, fa d’uopo considerare come patrimonio antico, da tassarsi più mitemente, quell’aumento di patrimonio che ogni cittadino ottenne mercé i risparmi fatti entro l’ambito dei propri mezzi. Si potrebbe ammettere che ogni contribuente potesse risparmiare metà dei propri redditi e considerare come patrimonio antico l’incremento ottenuto con tal risparmio. Viceversa, bisognerebbe tassare con aliquote alte, le massime di tutte, gli incrementi dilapidati. Se si sa che Tizio guadagnò al netto durante la guerra un milione – e ciò risulta dai ruoli dell’imposta sui sovraprofitti – ed egli non può dimostrare di possedere più di 500.000 lire, ciò vuol dire che egli ha troppo dilapidato, anche tenuto conto delle sue ragionevoli spese di famiglia. Sul troppo dilapidato egli sia colpito magari col 50 per cento. L’insistenza con cui l’on. Nitti ha biasimato il lusso ed ha parlato di imposte sul lusso, mi fa sperare che egli non sia alieno dall’adottare un simile concetto;
- bisogna non solo esentare i patrimoni più piccoli, come annunciò l’on. Nitti, ma trattare mitemente i patrimoni medi. Ciò non solo per ragioni di giustizia, ma anche per motivi di pratica applicazione. I proprietari di qualche cosa in Italia sono la maggioranza della popolazione; meglio si dovrebbe dire la grandissima maggioranza. Probabilmente non sono meno di 6-8 milioni i proprietari di terreni, di case, di aziende industriali e commerciali, di titoli. Con le loro famiglie arriveremo ai 25-30 milioni. Fare un censimento di tutti questi patrimoni sarebbe un’impresa colossale a cui, con le nostre abitudini, non basterebbero parecchie generazioni. La spesa consumerebbe il provento dell’imposta.
Che cosa sono oggi i patrimoni piccoli, medi e grossi? Le idee in proposito debbono oggi essere profondamente diverse da quelle di prima della guerra, per effetto della svalutazione monetaria. Vi sono oggi moltissimi terreni, che valgono dalle 5 alle 10 mila lire l’ettaro. Piccoli proprietari di 2-5 ettari hanno perciò patrimoni di 50 mila lire. Medi proprietari di 20-100 ettari sono valutati 100-500 mila lire. La grande proprietà fondiaria oggi a malapena comincia al disopra del milione. Non oso dare regole fisse; espongo considerazioni meritevoli di studio.
Una norma che in ogni paese scrittori e statisti ed ora in Italia il ministro del tesoro hanno riconosciuto doversi seguire in materia di imposta straordinaria sul patrimonio è quella del pagamento a rate. Bisogna ricordare che un’imposta apparentemente tenue sul patrimonio è enorme rispetto al reddito. La media prevista dall’on. Schanzer del 15% equivale al 300% del reddito di un anno. Se un patrimonio di 200.000 lire è colpito col 5%, in realtà il contribuente deve versare tutto il reddito di un anno, spesso più dell’intiero reddito di un anno. Se un patrimonio di 5.000.000 di lire verrà colpito col 30%, il contribuente è costretto al pagamento di almeno 6, forse 8 annate di reddito.
Ora, vi sono contribuenti che possono far subito un prelievo di patrimonio: detentori di denaro contante, di depositi bancari, ecc. Per costoro non è difficile pagare con parte del patrimonio. Anche il possessore di 100.000 lire di titoli di debito pubblico può consegnarne 5 mila allo stato, che senz’altro potrà bruciarli, estinguendo altrettanto suo debito.
Ma gli altri? Come farà il proprietario di una casa, di un fondo rustico, di una fabbrica, di azioni a consegnarne allo stato il 5, il 10, il 20%? Non può darne una fetta, ché lo stato non saprebbe che farsi di questo bric-a-brac di attività svariate, di cui probabilmente gli toccherebbe la parte meno buona. Vendere una parte del patrimonio per pagare l’imposta, quando tutti vendono, produrrebbe una crisi tremenda, con ripercussioni sinistre per la finanza pubblica, che a ragione l’on. Nitti vuole evitare. Non rimane che il pagamento a rate; in 2, 5 o 10 anni a seconda dell’importanza relativa della somma a pagarsi, salvo addebitare gli interessi scalari al 4% (interesse civile) per le rate a scadere e salvo l’obbligo del pagamento immediato quando il proprietario di un immobile lo venda e realizzi il prezzo in contanti.
Potrei seguitare nell’esposizione delle modalità dell’imposta. Essa deve colpire, ad esempio, gli individui singoli e non la famiglia, come del resto propone già il disegno Meda, perché se è vero che i redditi sono goduti in comune, è vero altresì che i patrimoni sono di proprietà dei singoli componenti la famiglia, separatamente considerati. Essa non deve colpire gli enti morali di qualunque specie; e neppure le società, salvoché per i titoli al portatore, per la ragione detta sopra. Ciò perché quando si tassino tutti gli individui, si tassa tutto il patrimonio privato. Tassare individui ed enti equivale a tassare due volte la stessa cosa o a tassare patrimoni che sono già pubblici, e servono già a fini pubblici di istruzione, beneficenza, progresso sociale. Ma di queste ed altre modalità ci sarà tempo di discorrere quando si avrà sott’occhio il testo del disegno di legge.
VII
L’imposta patrimoniale per «catenaccio»?
Una osservazione spesso ripetuta a proposito della imposta patrimoniale è la seguente: «il governo ha avuto torto di lasciarne discorrere tanto a lungo. Bisognava che, come si fa per aumentare il prezzo dei tabacchi o del pane od i dazi doganali o le tasse di registro e bollo, si applicasse un catenaccio alle fortune. Un bel giorno, improvvisamente, il governo avrebbe dovuto decretare un prelievo di un tanto per cento sulle fortune di tutti. In questo modo i contribuenti sarebbero stati presi alla sprovvista; e nessuno avrebbe potuto sfuggire al tributo. Oramai, invece, se ne discorre da mesi. I ricchi hanno potuto prendere le loro precauzioni, hanno potuto nascondere o mandare all’estero i loro denari sicché, quando l’imposta arriverà colla vettura di Negri, lo stato incasserà poco o niente».
Parlano così non solo coloro, i quali si preoccupano delle fughe e degli imboscamenti dei capitali; ma anche coloro i quali vorrebbero che nel giorno stesso il governo aumentasse il prezzo del pane e decimasse le fortune di guerra; e quelli i quali, per aver sentito discorrere di leva del capitale, immaginano che si tratti di una operazione simile a quella della leva degli uomini, da compiersi militarmente in pochi giorni. E poiché il discorso del catenaccio si sente un po’ dappertutto, val la pena di mettere in chiaro come si tratti di una metafora senza senso, di una operazione assurda ed impossibile in materia di imposte sul reddito o sul patrimonio.
Il catenaccio è un provvedimento comprensibile quando l’imposta cade su atti che si compiono di giorno in giorno o su consumi i quali avvengono a frazioni successive. È logico e spiegabile che un bel mattino la «Gazzetta ufficiale» annunci che, a partire da quel giorno i contratti di compra e vendita dovranno registrarsi con la tassa proporzionale del 5,40 invece che del 5,10%, come era prima, o che il prezzo delle sigarette è portato da 8 a 10 centesimi l’una, o che il dazio sul caffè è cresciuto di una sovratassa di 50 lire. Tutto ciò è possibile, perché gli atti ed i consumi già avvenuti sono stati colpiti dalle tasse vecchie e gli atti o consumi futuri saranno colpiti con le tasse nuove. Il catenaccio o l’annuncio improvviso dell’aumento ha per scopo di impedire che i contribuenti compiano atti in anticipazione per pagare una tassa minore o introducano merci o facciano provviste finché il dazio non è ancora cresciuto. La finanza può sull’attimo applicare il catenaccio, tutto riducendosi a far pagare una tariffa invece di un’altra.
Le cose vanno ben diversamente per una imposta sui patrimoni. Con questa si dice in sostanza che i patrimoni esistenti ad una certa data saranno colpiti da una imposta variabile, a seconda dell’ammontare della fortuna, ad esempio, dal 3 al 25% – assumo aliquote uguali all’incirca ai due terzi di quelle che erano stabilite per il prestito forzoso, quelle stesse che il contribuente pagava a fondo perduto, senza ritirare i titoli del prestito – meno per i modesti e più per i grossi patrimoni.
Altro è però annunciare l’imposta, altro è accertare i patrimoni che vi sono soggetti ed esigerla effettivamente. Coloro i quali dicono: «Solo il governo non conosce le fortune dei cittadini. Lasciate fare a noi – noi “scrittori di articoli” – noi “non contribuenti” – noi “membri di un partito invocante la decimazione delle fortune” – e sapremo bene far piovere i miliardi nelle casse dello stato» – costoro hanno idee confusissime e grossolane sul modo come lo stato incassa sul serio miliardi. I metodi spicci di decimazione delle fortune furono spesso tentati. Un comitato di salute pubblica od un consiglio di commissari del popolo si installa in una stanza e chiama ad uno ad uno i supposti ricchi alla resa dei conti. Se il ricco non si decide a pagare la somma richiesta, fuori c’è il plotone di esecuzione che l’attende. Piuttostoché finire i suoi giorni sommariamente, il ricco si decide a versare i chiesti milioni.
Il sistema è forse sbrigativo ma è sicuramente ingiusto e finanziariamente poco produttivo. Con questi sistemi la rivoluzione francese fece bancarotta; e Napoleone poté salvare la Francia, vivendo sul nemico all’estero e ridando tranquillità all’interno con imposte moderate. Poco si sa delle cose finanziarie russe; ma fra quel poco si sa di certo che un’imposta di 10 miliardi di rubli decretata dai bolscevichi sui ricchi fu un assoluto insuccesso. Si incassarono poche migliaia di rubli. La ricchezza è cosa in gran parte d’opinione. Se il sistema della tassazione per pubbliche grida e decisa dai commissari del popolo prevalesse, nessuno si sentirebbe più sicuro: titoli, carta-moneta, valori di stato, tutto scenderebbe a rompicollo e ben presto si ridurrebbe a valore zero. I ricchi non potrebbero più essere tassati, per la buona ragione che la loro ricchezza sarebbe andata in fumo. E chi può dire le ingiustizie odiose che sarebbero perpetrate con tali metodi sommari di tassazione? Gli odi personali, l’invidia, le delazioni anonime sarebbero le principali guide dei tassatori: i deboli, i soli, le persone probe sarebbero malmenate; i furbi, i membri delle cricche e dei partiti, la gente abile a corrompere sfuggirebbe tra le maglie.
Vogliasi o non vogliasi, lo stato può esigere miliardi solo se la produzione si svolge normalmente, se i valori si sostengono, se i contribuenti hanno fiducia nell’avvenire e possono pagare perché lavorano e guadagnano. E ciò accade unicamente quando le imposte sono esatte con equità, secondo regole severe ma precise, da ufficiali esperti ed imparziali, con diritto di ricorso a magistrature bene costituite ed indipendenti. Se il contribuente deve avere le dovute garanzie, il catenaccio è un assurdo.
Suppongasi che l’imposta debba colpire dal 3 al 25% i patrimoni esistenti al 31 dicembre 1919. Prima che l’ammontare dell’imposta sia accertato è assolutamente necessario passare attraverso ad alcune principali formalità:
- Il contribuente deve presentare la denuncia del suo patrimonio. Né si può pretendere che egli all’1 gennaio 1920 sappia quale era il suo patrimonio al 31 dicembre 1919. Forse, il privato che non fa nulla ed ha tutto il suo avere in titoli di stato, obbligazioni od azioni, potrebbe presentare la denuncia. Moltissimi non potrebbero compilarla senza fare prima un inventario delle attività e passività dell’azienda industriale o commerciale, dei crediti professionali, delle scorte agricole vive e morte, ecc. ecc. Il codice di commercio dà alla società tre mesi di tempo per compilare il bilancio. È il minimo che ragionevolmente può concedersi al contribuente per presentare una denuncia veritiera, ove almeno si voglia avere ragione di colpirlo con una multa in caso di dichiarazione incompleta, reticente od erronea. Arriviamo così al 31 marzo 1920.
- Supponiamo che, provvisoriamente, la finanza accetti le denuncie tali quali sono. Siccome i contribuenti si contano a milioni e gli agenti delle imposte sono pochi e completamente assorbiti dai lavori in corso – imposte ordinarie, sovraprofitti di guerra – si fa un’ipotesi molto ottimista, supponendo che, con un personale straordinario, da addestrarsi, e con un lavoro indefesso si riesca a compilare i ruoli provvisori entro altri tre mesi e si possa cominciare ad esigere la prima rata dell’imposta nell’agosto 1920. Più probabilmente, anche se il lavoro sarà indefesso, i ruoli non potranno essere pronti prima di sei mesi e la prima rata andrà in esazione nell’ottobre 1920. Dico la prima rata, poiché è evidente che, a meno di provocare uno sconquasso per la impossibilità materiale di trovare i mezzi di pagamento, l’imposta patrimoniale deve essere fatta pagare a rate: in 4-8 anni, come proponeva il progetto primitivo, in 30 anni, come pare proponga ora il governo, in 30-50 anni, come si è deciso in Germania, la quale pure aveva urgenze maggiori delle nostre.
- Fin qui siamo nel campo della esazione sulla base della denuncia fatta dal contribuente. È evidente che la denuncia deve essere controllata dalla finanza. Se si accogliessero ad occhi chiusi le denuncie dei contribuenti, ben poco l’erario incasserebbe. La finanza deve aver diritto di visitare terre, case, fabbriche, esaminare e studiare libri di commercio. Il tempo occorrente ad esaminare sul serio i libri di una sola ditta industriale di una certa importanza è poco calcolarlo ad un mese. Si moltiplichi questo tempo unitario per il numero delle ditte, si divida per il numero dei possibili funzionari capaci, vecchi e nuovi, si riduca anche il risultato ad un decimo e si otterranno anni. Questa è la verità: una imposta patrimoniale da esigersi per una volta tanto richiede anni per la sua applicazione. È insensato pretendere di poterci riuscire in mesi od in settimane.
- Finito il controllo della finanza, le nuove cifre da questa accertate debbono essere contestate ai contribuenti. Non si può lasciare alla finanza l’arbitrio di fissare le cifre di patrimonio a suo talento. Il contribuente deve potere ricorrere ad una magistratura. Si potrà creare una magistratura speciale, che non si occupi d’altro, che sia presumibilmente composta di competenti; ma una magistratura è necessaria. Anche supponendo che solo 1 su 10, che 1 su 100 contribuenti ricorra, bisognerà istruire diecine di migliaia di processi finanziari. È certo lamentevole che la finanza non sia onnisciente e non sappia leggere a colpo sicuro nei portafogli dei contribuenti, come vi sanno leggere coloro i quali invocano catenacci sui giornali; ma finché la giustizia non sia diventata un vano nome, uopo è dare diritto ai contribuenti ed alla finanza di far valere le loro ragioni dinanzi alla magistratura competente.
Il che vuol dire altri anni, i quali devono passare perché l’imposta possa dirsi definitivamente accertata e riscuotibile. Anche andando colla velocità di un treno direttissimo, non riesco ad immaginare una imposta straordinaria sui patrimoni esistenti al 31 dicembre 1919 la quale sia definitivamente assisa prima della fine del 1925. Il ritardo non nuoce alla finanza, la quale comincia ad esigere sulla base delle denuncie, e per i supplementi può tener conto, con opportune aggiunte, del tempo decorso. Né il ritardo si imputi ad imperfezione di uomini o di ordinamenti; né si citi alcun paese dove si sia proceduto più rapidamente. Forse, si fece più in fretta in quei paesi dove esisteva già una imposta ordinaria sui patrimoni; e dove perciò bastò aggiungere la imposta straordinaria a quella ordinaria esistente. Ma, dappertutto, la prima volta l’impianto costò anni di lavoro. Si pensi che, in Inghilterra, la valutazione dei terreni ordinata in conseguenza del celebre bilancio di Lloyd George, il cosidetto bilancio rivoluzionario, il quale in sostanza distrusse solo il potere della Camera dei lords, sebbene cominciata da forse una decina di anni, non soltanto non è ancora giunta a termine, ma fu l’anno scorso sospesa, sia perché la relativa imposta non fruttava nulla all’erario, – novantanove volte su cento i bilanci rivoluzionari sono infruttiferi! – sia perché l’impresa parve gigantesca ed inattuabile. Se non vogliamo andare incontro ad un insuccesso, come quello, che rimarrà famigerato nella storia finanziaria, di Lloyd George, occorre far le cose seriamente. Quanto più sul serio si faranno gli accertamenti, tanto più occorreranno tempo e fatica. Trasformare i titoli al nome è necessario per tassare con giustizia; ma è anch’essa una operazione lunga e complessa. L’interesse dell’erario e quello della giusta ripartizione del tributo consigliano amendue di tenersi lontani dalle frasi fatte, come il catenaccio o la decimazione, e tenersi stretti alle regole che l’arte finanziaria insegna per bene tassare e che tutte si fondano sulla cooperazione preziosa del fattore «tempo».
VIII
Il riordinamento del sistema tributario e un codice tributario
Il riordinamento del sistema tributario decretato dal ministero alla vigilia della riapertura della nuova camera merita di essere lodato per il principio che lo informa ed in generale anche per le modalità della sua applicazione. Tante volte su queste colonne ho scritto che il sistema vigente in Italia aveva finito per diventare il disordine organizzato, la sperequazione elevata a canone d’arte finanziaria per non essere lieto che finalmente il gabinetto attuale abbia trovato il coraggio di mettere ordine nel caos, semplicità nel complicato e nel farraginoso, di dire chiaramente ai contribuenti che cosa ad essi si chiede e sulla base di quali principii si chiede.
Un vero codice tributario, come questo, non potevasi sperare fosse discusso ed approvato dal parlamento in breve tempo; e le necessità finanziarie dello stato urgevano. Non potevasi tardare più a lungo nell’opera di ricostruzione. Se le nuove imposte e quelle riordinate dovranno cominciare a rendere qualcosa nel 1920, urge non tardare ad organizzare il lavoro preparatorio, non breve e non facile. Anche i tredici mesi i quali ci separano dall’attuazione della riforma delle imposte dirette e dall’applicazione dell’imposta sul reddito dovranno, se si vuole giungere in tempo, essere mesi di lavoro febbrile per l’amministrazione finanziaria italiana. Né potevansi pubblicare per decreto reale solo le due imposte patrimoniali, rinviando al parlamento quella sul reddito ed il riordinamento dei tributi diretti poiché le prime non potranno funzionare efficacemente se non sulla base delle valutazioni e in virtù degli organi di accertamento creati per le seconde. L’imposta normale sui redditi e quella complementare sul reddito complessivo sono il tronco dell’albero tributario; quelle patrimoniali sono i rami i quali traggono vita e vigore dal tronco. Le une non possono vivere senza le altre.
Dinanzi a codici di grande portata il compito del parlamento non può essere quello della elaborazione tecnica, alla quale i parlamenti diventano sempre più disadatti. Suo compito è quello della critica, delle nuove e migliori direttive generali, che il tecnicismo potrà poi tradurre in atto. Oggi, le direttive seguite dal ministero nel suo omnibus finanziario, rispondono al senso di giustizia diffuso nel paese e soddisfano alle esigenze di un buon sistema tributario quale lo si concepisce nelle migliori e più moderne legislazioni. Piace qui dichiarare apertamente che il ministro delle finanze, on. Tedesco, e con lui il ministro del tesoro ed il presidente del consiglio si sono resi con il decreto odierno benemeriti del paese e della finanza italiana.
Il nuovo sistema tributario non si attua d’un tratto. Non si può passare dal vecchio al nuovo d’un colpo, senza rompere la macchina amministrativa e senza lasciare un gran vuoto nelle entrate dello stato. Bisogna evitare ad ogni costo che il vuoto si faccia ed ordinare il passaggio graduale dal vecchio al nuovo in guisa che ai proventi cessati delle imposte vecchie cessate vengano immediatamente a sostituirsi i proventi freschi delle imposte riformate o nuove.
Col sistema del decreto ministeriale il passaggio dal vecchio al nuovo si opererà attraverso le seguenti fasi:
- Istituzione ed immediata esazione di un’imposta sulle fortune di guerra. È la prima fra quelle reclamate dalla pubblica opinione e sarà la prima ad essere attuata. A coloro i quali ottennero guadagni di guerra e che già pagarono una imposta sui sovraprofitti la quale si può in media ragguagliare al 50%, la nuova imposta, detta «sugli aumenti dei patrimoni di guerra» porterà via su quel che resta dal 10 al 60%, più o meno a seconda che maggiore o minore è stato l’aumento netto del patrimonio in confronto a quello posseduto prima della guerra. Chi accrebbe quel patrimonio solo del 5% non pagherà nulla; chi lo aumentò solo del 10% pagherà il 10%, e così via finché colui il quale lo crebbe del 60% o più dovrà pagare il 60% dell’incremento. Poiché costui già aveva pagato in media il 50% per sovraprofitti di guerra, pagare il 60% sul residuo, significa pagare l’80% sul totale. Badisi che l’incremento deve derivare da guadagni di guerra; e badisi che non saranno colpiti solo coloro che già furono contribuenti all’imposta sui sovraprofitti di guerra, ma questi e tutti quegli altri per cui si possa provare con qualunque indizio essersi arricchiti durante e per fatto di guerra.
- Compiuta questa prima opera, decurtati i patrimoni di guerra, rimangono in essere i soli patrimoni normali, netti dall’imposta precedente. Questi sono tassati da un’imposta straordinaria sul patrimonio. È quella di cui tanto si discorse sotto il nome di prestito forzoso. Adesso il concetto di dare, a chi paga il tributo, in compenso un titolo di debito dello stato fruttifero all’1% ed ammortizzabile in 70 anni, è abbandonato. Lo stato non dà nulla e fa pagare un’imposta a fondo perduto. Naturalmente, l’aliquota che andava dal 5 al 40% nel caso del prestito forzoso doveva essere ridotta, trattandosi di pagamento a fondo perduto; e perciò si fa pagare dal 5 al 25%, progressivamente a seconda dell’importanza del patrimonio.
Il prestito forzoso si esigeva in un breve periodo di tempo: da 4 ad 8 anni. Ma la brevità del periodo concesso al pagamento avrebbe costretto molti a vendere terreni, case, titoli per poter pagare; e per non far nascere sconquassi, si era progettato di creare un istituto di credito che anticipasse ai contribuenti le somme necessarie al pagamento del tributo. L’istituto avrebbe dovuto però essere sovvenuto dallo stato. Da dove, salvo che da nuovi biglietti, avrebbe esso potuto trarre i mezzi per le sovvenzioni? E si ricadeva così nell’inconveniente di un’imposta che, progettata per ritirar biglietti esuberanti, cominciava la sua carriera col costringere lo stato a stampar subito nuovi biglietti.
Così fu che finì di prevalere il concetto razionale di scindere le due operazioni: lo stato si procura direttamente, da chi li possiede, i mezzi immediati per ritirar biglietti e buoni del tesoro con un prestito al 5%; ed accolla l’onere del servizio del prestito stesso ai contribuenti alla imposta patrimoniale, ripartita in 30 anni. Il risultato finanziario è lo stesso per lo stato, ma l’onere dei contribuenti alla patrimoniale viene sopportato più agevolmente mediante la distribuzione in 30 anni. Potevano essere 15 o 20 ovvero 35 o 40 gli anni; ed i pro ed i contro sono parecchi e quasi bilanciantisi. Il frazionamento si imponeva; e fu accolto dappertutto dove fu introdotta la imposta patrimoniale: anche in Germania, dove il periodo va dai 30 ai 50 anni. Si può far pagar subito un’imposta sulle fortune di guerra; e così fu ordinato per quella di cui dissi sopra (sotto I); perché si tratta di un’imposta su guadagni recenti, probabilmente ancora in parte disponibili. Non si può far pagar d’un colpo un’imposta sulle fortune assise, investite, antiche, immobilizzate in terreni, case, titoli, ecc.
L’imposta patrimoniale a sua volta traversa due fasi essenziali: la prima dura sei anni, ed è provvisoria. In essa le valutazioni dei titoli e delle aziende sono bensì fatte in modo razionale, sulla base dei prezzi correnti per i titoli e della capitalizzazione del reddito effettivo per le aziende commerciali ed industriali. Ma i terreni e le case sono valutati invece empiricamente: moltiplicando per 325 l’imposta principale erariale per i terreni e per 25 il reddito imponibile per i fabbricati.
Nel frattempo si andranno assestando le altre due imposte; quella normale sui redditi e quella complementare sul reddito. Sulla base di queste, si conosceranno a poco a poco i redditi netti dei terreni e dei fabbricati, sicché alla fine dei sei anni, il valore dei terreni e dei fabbricati potrà più giustamente apprezzarsi capitalizzando al 100 per 5 i rispettivi redditi netti. Entreremo così in regime normale, il quale durerà per gli altri 24 anni del trentennio. Sarebbe certo stato desiderabile fare più in fretta; ma occorre riconoscere che ciò era praticamente impossibile.
- Al I° gennaio 1921 ha inizio la terza fase, la quale però si innesta, come i lettori hanno potuto vedere, sulla precedente. A quella data cadono tutte le imposte esistenti sui redditi: imposta terreni, fabbricati, ricchezza mobile, centesimo di guerra, complementare sui redditi, contributo straordinario di guerra, proventi amministratori, ecc. ecc. Tutto il caleidoscopio delle imposte piccole e grosse vigenti finora viene meno. Cessano anche le imposte comunali di famiglia, sul valor locativo e sui locali abitati. Al posto di tutto ciò si costruisce un sistema semplice di imposta sui redditi:
- alla base, una imposta normale sui redditi, la quale colpisce il reddito oggettivamente nelle sue varie manifestazioni;
- al disopra, una imposta complementare progressiva sul reddito complessivo, la quale colpisce il reddito totale goduto dal contribuente, tenendo conto delle sue passività, oneri e carichi di famiglia.
È, nelle linee generali, il progetto Meda, con alcune varianti, che notevolmente lo migliorano e di cui per brevità ricorderò ora solo la principalissima. Anche qui si distingue un periodo provvisorio da un periodo definitivo. Per i terreni, il periodo provvisorio è il primo quinquennio, durante cui la tassazione si fa in base ai vecchi catasti, con le vecchie altissime aliquote sui redditi fantasticamente diversi ed inferiori al vero. Il periodo definitivo comincia dall’1 gennaio 1926 ed in esso il reddito dei terreni sarà valutato secondo la reale consistenza; ma in compenso sarà tassato in categoria B come reddito d’industria, con tutte le conseguenze, almeno per lo stato, di tale collocazione: esenzione dei redditi minimi fino a 1.200 lire, tassazione al 15 invece che al 18%, detrazione dei debiti. La riforma risponde ai voti degli agricoltori e dovrà ad essi riuscire bene accetta.
Per i fabbricati, il regime provvisorio durerà fino ad un anno dopo la cessazione del regime di vincoli agli affitti; e durante esso non si potranno fare revisioni di redditi. Scaduto l’anno, i redditi saranno periodicamente rivalutati.
Questo, nella sua ossatura generale, il quadro dei tributi diretti che il cittadino sarà chiamato a pagare. Quando sarà attuato nella sua interezza, l’Italia possederà uno dei congegni fiscali più semplici, più giusti, più elastici fra quelli conosciuti. Speriamo che il parlamento migliori, non peggiori questo congegno. Le aliquote, salvo quelle giustamente elevate per le fortune di guerra, sono tollerabili e non paiono tali da provocare troppe frodi. Probabilmente sono capaci di dare il massimo rendimento possibile allo stato.
Ad una condizione. Che il parlamento migliori subito il sistema adottato dal decreto per i titoli al portatore. Qui è il tallone d’Achille dell’intiero sistema. Qui è l’unica critica fondamentale che si muove al decreto. Per accertare il valore capitale ed il reddito dei titoli al portatore compresi nel patrimonio e nel reddito del contribuente, il decreto fa a fidanza sulle denuncie dei contribuenti, sul diritto della finanza di deferire ad essi il giuramento e sulla confisca dei titoli non denunciati.
Su questo giornale furono già spiegate le ragioni per cui il giuramento è un’arma a scarsissima produttività fiscale: terrorizza gli onesti e lascia indifferenti i frodatori. Vero è che il decreto riserva al governo la facoltà di decretare dopo un anno la nominatività dei titoli al portatore, ove si riconosca che le denuncie non siano avvenute in misura bastevole. Ma i frodatori aspetteranno che la minaccia si traduca in atto prima di impressionarsene.
Assai più efficace sarebbe stato lo spediente dell’imposta speciale sugli interessi e dividendi dei titoli al portatore che con piacere vedo introdotto nel sistema, ma di cui avrebbe dovuto farsi un uso ben più energico e largo. Questo tributo sostituisce l’attuale ritenuta del 2% sugli interessi e dividendi dei titoli non di stato, la quale viene elevata al 5% e limitata ai titoli al portatore. Il principio è ottimo, perché crea una disparità di trattamento tra i titoli al portatore – tassati al 5% – e quelli nominativi esenti. Ma il principio doveva essere affermato più energicamente: un’imposta del 5% non è bastevole per spingere i portatori a trasformare i loro titoli in nominativi. Se li tengono al portatore possono guadagnare assai di più col non denunciarli. L’aliquota dovrebbe essere portata al 30% del reddito od almeno per il 1920 al 15 per cento.
Il principio doveva essere applicato in modo più largo. Tutti i titoli, anche quelli di stato, dovevano essere soggetti all’imposta del 15%, se al portatore. Nessuna promessa di esenzione sarebbe stata violata; perché il possessore avrebbe potuto sottrarsi senz’altro al tributo speciale mettendo il suo titolo al nome.
Senza questa necessaria integrazione, il sistema tributario decretato dal governo per ora rimane troppo assiso sulla buona fede dei contribuenti. Manca lo strumento automatico per costringerli, nel proprio interesse, alla denuncia del vero. Rimane negli altri contribuenti, possessori di altre fonti di reddito, l’impressione che i proprietari di titoli al portatore sfuggono al loro debito d’imposta. Il che non deve essere. Il parlamento compierà il suo ufficio degnamente se con energia reclamerà che i postulati della giustizia tributaria siano attuati per tutti: anche per i proprietari di titoli al portatore.
IX
Imposta patrimoniale e prestiti
I provvedimenti tributari e il prestito volontario 5% possono essere discussi sotto molteplici aspetti sicché sarà giocoforza ritornarvi sopra a parecchie riprese. Un giudizio ponderato e critiche serene possono soltanto farsi avendo sotto gli occhi il testo dei decreti e tenendo conto delle gravissime difficoltà tecniche economiche e politiche le quali devono essere superate. Perché le critiche siano serie occorre che esse siano accompagnate da proposte concrete di modificazioni che il parlamento potrebbe apportare alla decretata riforma. Questa è buona e merita il consenso di quanti intendono al risanamento della nostra finanza. Ma è suscettiva di perfezionamento; uno dei quali ho indicato ieri additando la necessità di elevare e allargare l’imposta speciale sugli interessi e dividendi dei titoli al portatore, per arrivare così automaticamente alla loro nominatività. Altri ritocchi è probabile siano necessari per quanto riguarda la valutazione dei terreni e le relative gravezze delle aliquote sui patrimoni piccoli e grandi in relazione alle detrazioni per carico di famiglia.
È opportuno mettere in rilievo una connessione fra la nuova imposta patrimoniale e il prestito 5%, la cui pubblica sottoscrizione si annuncia aperta al 5 gennaio 1920 al prezzo di L. 87,50. Il pubblico sa già che il nuovo prestito, al pari dei vecchi, sarà esente da tutte le imposte presenti e future gravanti sia sugli interessi, che sul capitale del prestito; sa di avere in questa promessa la garanzia migliore contro tutte le imposte, speciali e generali, le quali potrebbero essere immaginate per decurtare il reddito dei titoli vecchi già posseduti e di quelli nuovi che certamente sottoscriverà. Sa che il governo per scrupolo eccessivo di rispetto alla lettera delle date promesse si è astenuto dall’estendere ai titoli di stato l’incrudimento dal 2 al 5% della imposta sui titoli al portatore; ma sa che, anche prevalesse la tesi di coloro i quali, come lo scrivente, sostengono che quella imposta dovrebbe essere portata almeno al 15% ed estesa a tutti i titoli, compresi quelli di stato, essa non sarebbe una violazione della promessa, poiché essa sarebbe un’imposta volontaria pagata per sua particolare ragione di comodo, da chi volesse tenere i titoli nella forma al portatore. Chiunque non volesse pagarla non avrebbe che a fare inscrivere i suoi titoli al nome, come faranno molti dei possessori di azioni, obbligazioni, cartelle fondiarie, ecc., per non pagare l’imposta oggi decretata del 5 per cento. Finora l’imposta sui titoli di stato al portatore non c’è ; ma se anche fosse in avvenire decretata, essa non sarebbe una vera e propria imposta; poiché non è imposta ciò che si può anche, volendo, non pagare.
Il pubblico sa finalmente che, se il reddito ed il capitale dei vecchi come del nuovo prestito sono esenti da qualunque imposta presente e futura, il contribuente non è tuttavia e non può essere esente dall’obbligo di denunciare il reddito e il capitale di tutti i titoli da lui posseduti per il calcolo del suo reddito complessivo e del suo patrimonio totale da assoggettare alle due nuove imposte sul reddito e sul patrimonio. La ragione è chiara, ripetuta, incontrovertibile. Queste due nuove imposte non colpiscono il titolo di stato, l’azione, il fondo rustico, il fabbricato per sé. Colpiscono l’agiatezza complessiva, la ricchezza totale, la capacità di spendere della persona. Si tratta di tenere conto di tutto ciò che l’individuo possiede o può godere per fare cadere su di lui una duplice imposta, l’una calcolata sul reddito e l’altra sul patrimonio. Nel fare questo calcolo non si può trascurare alcun reddito, alcun cespite patrimoniale. Il reddito del titolo di stato è già stato riscosso al netto da qualsiasi tributo ed è già entrato nel patrimonio del contribuente. A questo punto la fonte del reddito non ha più importanza. Importa solo sapere quale è il totale del reddito, il totale del patrimonio per assidervi sopra le due imposte sul reddito e sul patrimonio. Sarebbe ingiustizia somma prendere la parte per il tutto o chiudere gli occhi innanzi all’esistenza di un reddito o di un patrimonio, solo perché esso è composto in una maniera particolare. Tizio ha un patrimonio di 100.000 lire tutto in rendita di stato; Caio ha lo stesso patrimonio tutto investito in beni rustici. Qual giustizia ci sarebbe a esentare Tizio e a tassare solo Caio? Quale razza di imposta patrimoniale sarebbe questa che procedesse in maniera così sbilenca?
Ma né l’imposta sul patrimonio, né quella sul reddito sono tali da spaventare i risparmiatori e da trattenerli dal sottoscrivere al prossimo grande prestito della pace sociale. Quasi tutti i piccoli risparmiatori non pagheranno l’imposta sul reddito, se non quando abbiano un reddito ragguardevole; e quella patrimoniale solo quando il loro patrimonio raggiunga le 20.000 lire. I mezzi capitalisti pagheranno tributi moderati ed i maggiori, se pagheranno di più, sanno anche che, qualunque impiego cercassero ai loro fondi disponibili, sempre dovrebbero pagare; poiché non l’impiego speciale è tassato; ma, ripetesi, il complesso del reddito e del patrimonio.
In secondo luogo, bisogna notare che per un sessennio la valutazione del patrimonio quale era al 31 dicembre 1919 non può essere variata. Quindi chi sottoscriverà dal 5 gennaio al 7 febbraio 1920 al nuovo prestito con redditi maturati dopo il 31 dicembre 1919, non avrà l’obbligo nemmeno di includere i nuovi titoli da lui sottoscritti nella dichiarazione del suo patrimonio esistente al 31 dicembre 1919. Dovrà includerli solo nella dichiarazione che si farà al 31 dicembre 1925. Circostanza questa importantissima, la quale dovrà, se i risparmiatori vi rifletteranno seriamente, incitarli alla sottoscrizione del nuovo prestito. Finalmente vorrei che riflettessero al proprio utile anche coloro i quali, per paura dell’imposta patrimoniale, si sono dedicati all’operazione divertente di tesaurizzare biglietti di stato e di banca. L’operazione aveva non dico una giustificazione ma una spiegazione quando l’imposta patrimoniale era concepita come un tributo da esigersi in poche rate. Allora per non pagare o il 5 o il 10 o il 15 o il 20 o il 26,66% – come si sa, era questa l’aliquota massima del primo progetto, poiché il 40% era puramente facoltativo, ognuno avendo il diritto di non ritirare i titoli del prestito forzoso, pagando solo i due terzi dell’aliquota ossia il 3,33 su 5 e 26,66 su 40 – c’erano alcuni i quali preferivano tenere provvisoriamente i propri averi in biglietti, fino a qualche mese dopo la denuncia, salvo a investirli in seguito. Il calcolo era anche allora sbagliato, perché, avendo la finanza diritto di rivedere le denuncie fino a tutto il 1925, i frodatori avrebbero dovuto tenere i biglietti in serbo e infruttiferi per tanti anni che la perdita degli interessi sarebbe stata notevolmente superiore al risparmio della imposta. Ma il calcolo diventerebbe sbagliatissimo ora che l’imposta patrimoniale non si paga più in una volta sola, ma in trenta anni, ossia è divenuta un’imposta permanente. Ragguagliata ad anno l’imposta va dal 0,167 al 0,833% del capitale. Facciamo una media del 0,50 per cento. Non è poco perché corrisponde a circa il 10% sul reddito che va ad aggiungersi all’aliquota progressiva dall’1 al 25% sul reddito ed a percentuali variabili dal 9 al 40-45% dell’imposta e sovrimposta normale sui redditi. Ma, poco o tanto che sia, il risparmiatore sa di essere esente dall’imposta normale – la più forte di tutte – e sa che paga le sole imposte sul reddito e sul patrimonio in ragione progressiva sulla propria totale agiatezza. Per quanto paghi, mai pagherà quanto potrebbe ricavare impiegando i biglietti che tiene in serbo.
Chi ha 100 lire in biglietti tesaurizzati, ove non sottoscriva, perde ogni anno il frutto del 5,71 per cento. Per quale scopo si assoggetterebbe a una tale perdita? Per risparmiare un’imposta patrimoniale, la quale, ad anno oscilla da 0,167 a 0,833%, e in media può calcolarsi del 0,50 per cento. Anche sottraendo il 0,50 da 5,71 rimane ancora il 5,21 per cento. Ed in molti casi bisogna sottrarre meno, e anche sottraendo ulteriormente l’imposta globale sul reddito, la quale va dall’1,30 al 32,50% compresa la sovrimposta, ma per i redditi fino a 50.000 lire non supera il 5,90% sul reddito, rimane ancora un ottimo margine disponibile; in moltissimi casi più del 5% netto. Rinunciare a godere il 5,71% solo per non pagare due imposte le quali sì e no assorbiranno i 71 centesimi, e quel che monta, per i piccoli e medi risparmiatori saranno uguali a zero, o saranno assai blande, è una operazione la quale non si raccomanda certo all’interesse e al buon senso.
Una delle ragioni, assieme a molte altre, la quale rende preferibile un’imposta patrimoniale pagata in una ragguardevole serie di anni ad una pagata in una sola volta, è precisamente questa: che essa rende ridicola la speculazione del tesaurizzare i biglietti. Ci si perde troppo perché una persona la quale sappia fare i suoi conti non veda subito che conviene invece sottoscrivere al nuovo prestito.
X
Difficoltà di calcolare l’onere delle imposte
Da molte parti, i provvedimenti finanziari sono stati accusati essere troppo blandi. Che cosa è, disse taluno, un aumento dal 2 al 5% dell’imposta sui dividendi ed interessi dei titoli al portatore? Non è ridicola, aggiunsero altri, un’imposta patrimoniale la quale al massimo raggiunge il 0,83%? Parturiunt montes, nascetur ridiculus mus. A tutto questo si riduce lo spirito di sacrificio delle classi borghesi in Italia?
Dinanzi alle quali domande, è doveroso mettere in rilievo che questo delle aliquote non è il punto su cui è giusto ed importante battersi per ottenere miglioramenti ai decreti tributari venuti alla luce. Nell’ossatura generale ed anche nelle aliquote il sistema messo in opera dal gabinetto va bene, è armonico, convenientemente congegnato. Il suo difetto essenziale sta nella valutazione e negli accertamenti, non nelle aliquote. Chiedere che le aliquote siano aumentate significa fare il danno dell’erario, perché le aliquote feroci vogliono dire aumento nella resistenza del contribuente, difficoltà di accertamento ed in ultimo scarsa resa per il tesoro. Significa altresì, finché non siano migliorati i metodi di valutazione, sovratassare i disgraziati, il cui reddito o patrimonio è precisamente valutabile e lasciar correre per tutti gli altri per cui la valutazione non può farsi. Il clamore sulle aliquote è un diversivo, buono per il grosso pubblico e sostanzialmente antidemocratico.
È ingiusto affermare che le aliquote siano basse. Dire ad esempio che l’aumento dell’imposta sui dividendi ed interessi dal 2 al 5% è evanescente, è dire cosa senza senso. Voglio anch’io che questa imposta sia portata al 15% per il 1920 e poi fino al 30% per il 1921. Questa è una imposta, la quale, se raggiunge il suo fine, è destinata a non essere pagata; perché tutti trasformeranno i loro titoli al nome e pagheranno le imposte patrimoniali e sul reddito, che giustamente su di essi debbono incidere.
Non occupiamoci dunque di questo balzello, la cui funzione è specialissima. Così pure sta a sé l’imposta sugli aumenti di patrimoni derivanti dalla guerra. Questa è una decurtazione preliminare che viene fatta subire ai patrimoni, prima che essi diventino soggetti alle imposte vere e proprie. La decurtazione va dal 10 al 60 per cento. Dire che ciò sia poco o tanto, dipende da impressioni individuali soggettive. Prima di esprimere un’opinione al riguardo, sarebbe bene ricordare:
- che il nuovo onere dal 10 al 60% è stato preceduto da una falcidia, che in media si può calcolare al 50%, sotto il nome di imposta sui sovraprofitti di guerra. Ciò che si tassa col 60% è quel che resta dopo pagato il 50 per cento. Nel complesso andiamo fino all’80%;
- che l’onere medesimo sarà seguito, su quel che rimarrà in mano al contribuente, dalle imposte ordinarie o straordinarie gravanti sui redditi e sui patrimoni e che vedremo subito a quanto ammontano;
- che le aliquote dal 10 al 60% colpiscono i nuovi patrimoni in funzione del dippiù che si possiede ora in confronto a ciò che si aveva all’1 agosto 1914. Se Tizio aveva 100.000 lire ed ha fatto un guadagno di guerra di 10.000 lire, netto da imposte precedenti sui sovraprofitti ed imponibile, su queste 10.000 egli dovrà pagare il 10%; se guadagnò inoltre altre 10.000 lire, su queste pagherà il 20% e così via fino ai guadagni eccedenti le 50.000 lire su cui pagherà il 60 per cento. A me pare questo un sistema ragionevole; perché chi ha lucrato per fatto di guerra in 5 anni il 50% del suo capitale originario all’1 agosto 1914 in fin dei conti ha guadagnato il 10% all’anno. Non mi pare che ciò sia una circostanza tale da doverlo far perseguitare come una belva feroce. Non è probabile che il 10% netto all’anno l’avrebbe costui guadagnato anche se non ci fosse stata la guerra? Si mettano una mano sulla coscienza tanti professionisti, agricoltori, operai che gridano contro i guadagni di guerra, non hanno, molti di essi, ottenuti sovraguadagni ben superiori al 10% all’anno di ciò che possedevano all’1 agosto 1914? Ora, per gli speculatori di guerra, tutto ciò che supera il 50% in totale, ossia il 10% ad anno, sarà colpito col 60%, anche se non lo posseggono più, anche se l’hanno già speso in spese eccedenti quelle ordinarie. Non sarà una cosa allegra per molti dover pagare il 60% anche sullo speso: ma sarà una multa meritata alla loro cattiva condotta civica. Non pochi dovranno pagare il 100% su ciò che resta.
E passo alle imposte propriamente dette. La gran disgrazia di esse, per quanto riguarda l’impressione che esse fanno sul pubblico, è il loro frazionamento. L’ideale sarebbe stata una imposta sola, con una aliquota sola. Si sarebbe conosciuto il vero gravame dei contribuenti e si sarebbe veduto subito a quali altezze rispettabili giunga. Disgraziatamente, per molte ragioni che non mi è dato esporre in poche parole, ciò è impossibile. Le imposte devono essere parecchie. Col nuovo sistema saranno tre fondamentali.
- L’imposta normale sui redditi, sostitutiva delle attuali imposte sui terreni, fabbricati e ricchezza mobile, centesimo di guerra ecc. ecc. Le sue aliquote sono le seguenti comprese le eccedenze, le quali di fatto per lo più sono eccedute, dei comuni e delle provincie. Per i terreni e per i fabbricati, per non complicare l’esposizione ho assunto una media. In realtà, per i redditi più elevati si va ancora più in su:
Redditi di | Imposta di stato | Sovrimposte locali | Totali | |
A1 | Titoli, mutui, azioni ecc. | 18,36 | 4,59 | 22,95
|
A2 | Fabbricati | 21,42 | 24 | 45,42
|
A3 | Terreni | 12,77 | 32 | 44,77
|
B | Industrie e commerci | 15,30 | 4,50 | 19,80
|
C | Professioni e lavoro | 12,24 | 3,60 | 15,84
|
D | Impieghi pubblici | 9,18 | – | 9,18 |
Dovrei fare qualche riserva sulle aliquote indicate per taluni casi; ma ci passo sopra, per non confondere la testa ai lettori. Le sovrimposte sono più alte per i fabbricati e per i terreni, che non per gli altri redditi; ma bisogna notare che le sovrimposte sugli altri redditi sono una novità, si può dire di quest’anno e si sa che le novità cominciano a poco a poco. Inoltre bisogna notare che le imposte sugli altri cespiti tagliano più sul vivo che non quelle sui terreni e sui fabbricati, le quali in parte sono trasferite sugli inquilini ed in parte ammortizzate sul prezzo d’acquisto, mentre quelle sulle industrie, sul commercio e sul lavoro colpiscono la produzione viva d’ogni giorno. Si aggiunga che i redditi dei terreni sono valutati molto bassi. In media, e senza pretese di esattezza, che sarebbero assurde in questa materia, direi che gli stipendi dei pubblici funzionari pagano il 9%, i guadagni e salari dei professionisti e lavoratori privati il 16%, ed i redditi di capitale, di terreni, di case, di industrie dal 20 al 25 %.
- Su questa prima imposta si innesta l’imposta patrimoniale. Questa è progressiva e va dal 5 al 25% sul capitale in trent’anni, ossia va dal 0,167% all’anno per i patrimoni di 20.000 lire al 0,833% all’anno per i patrimoni di 100 milioni. È probabile che nessuno in realtà speri che dopo i 30 anni l’imposta, detta straordinaria, sul patrimonio sarà abolita. Si troverà allora, quando essa frutterà almeno 1 miliardo all’anno, il modo di farla continuare. In breve essa è una imposta perpetua come tutte le altre. E come tutte le altre, essa, sebbene si chiami sul patrimonio, è pagata col reddito. È un’altra imposta che va a gravare il reddito annuo: ed è facile fare il conto che pagare ogni anno il 0,167% del capitale equivale a pagare il 3,34 del reddito; e pagare il 0,833 del capitale è uguale a pagare il 16,66 del reddito.
- Alle due imposte precedenti si sovrappone finalmente la complementare sul reddito; anch’essa progressiva dall’1% per i redditi imponibili di lire 1.500 o al 25% per i redditi imponibili di 2.500.000 lire: aliquote che diventano rispettivamente dell’1,30% per il minimo e del 32,50% per il massimo, tenendo conto della sovrimposta comunale. Bisogna notare che il reddito imponibile è minore del vero, dovendosi tener calcolo di detrazioni per carichi di famiglia e per natura di reddito.
Una somma delle tre imposte è difficile a farsi, partendo esse da basi diverse e riferendosi a soggetti differenti. Con grande approssimazione, si può affermare che per i soggetti colpiti noi andiamo progressivamente crescendo da un minimo del 9% ad un massimo pratico del 60 per cento. Ciò ogni anno e sul reddito. Chi si diverte a scrivere sui giornali ed a blaterare per i crocicchi che le imposte pagate dagli altri non sono mai abbastanza forti troverà che queste aliquote del 9% per i mediocri contribuenti (i minimi sono esenti) e del 60% per i grossissimi sono basse. A me pare di non aver perso la testa quando affermo che queste aliquote sono le massime che praticamente si possano applicare. Esse sono anzi così alte che tutta la difficoltà sta nell’applicarle. Se esse divenissero ancor più alte, sarebbero micidiali per la produzione del risparmio, provocherebbero i capitali nuovi alla fuga verso l’estero ed impedirebbero l’immigrazione dei capitali dall’estero. Ossia condurrebbero il paese all’immiserimento e distruggerebbero il proprio fine, che è quello di procacciare entrate al fisco.
A conti fatti ed all’ingrosso – la precisione assoluta si potrebbe avere solo quando si conoscessero i casi singoli – un capo famiglia con moglie e 3 figli da lui dipendenti pagherà:
- se impiegato di stato, provincie, comuni, opere pie ed altri enti pubblici con 10.000 lire di stipendio ed accessori 900 lire di imposta normale (che paga già ) e 75 di complementare sul reddito. Niente di patrimoniale. Totale 975 lire.
- se industriale, con 50.000 lire di reddito e 500.000 di capitale investito nell’azienda: 10.000 lire di normale, 1.500 di patrimoniale e 1.500 di complementare sul reddito. Totale 13.500 lire.
- se proprietario di azioni o mutui per 1.000.000 di lire, con un reddito di 60.000 lire: 13.800 di normale, 3.500 di patrimoniale e 1.000 di complementare sul reddito. Totale 17.000 lire.
- se proprietario di terreni, case, azioni per un capitale di 10 milioni di lire ed un reddito di 600.000 lire all’anno: 150.000 di normale, 54.000 di patrimoniale e 53.000 di complementare sul reddito. Totale 257.000 lire.
- se proprietario, ad impieghi misti di un patrimonio massimo di 100 milioni con un reddito di 6 milioni di lire all’anno: circa 1.500.000 di normale, 833.000 di patrimoniale, 1.000.000 di complementare sul reddito. Totale 3.423.000 lire. Sempre, s’intende, ogni anno.
Si vede che il peso della imposta patrimoniale e della complementare – che sono le due imposte nuove – cresce col crescere del patrimonio e del reddito, in confronto alla normale, che è l’imposta vecchia già esistente. Il peso delle nuove imposte è tutto spostato verso l’alto. Il che è precisamente quanto tutti chiedono. Se le imposte che ho delineato si potessero far pagare sul serio, si otterrebbero notevoli risultati. Il vero punto della discussione è qui. Non sulle aliquote. Per queste è assai disputabile se potrebbero essere costruite meglio. Almeno se ognuno, il quale ha voglia di criticare, cerchi di far astrazione da se stesso ed eviti di far cominciare la giustizia da chi sta immediatamente al disopra di se stesso.
L’importante, l’essenziale, l’unico punto degno di discussione per coloro che non vogliono procacciarsi popolarità a buon mercato con grida da trivio si riferisce alla serietà degli accertamenti e delle valutazioni. Su questo punto soltanto val la pena di indugiare.
XI
Complicate e sperequate le imposte sui redditi
Ho detto altra volta che il tallone d’Achille della nuova imposta patrimoniale era la tenuità e la parzialità dell’imposta del 5% sugli interessi e dividendi, insufficiente a spingere i portatori a far mettere al nome i loro titoli. Non è quello il solo difetto; ed è utile perciò indicare nelle somme linee quali siano le modificazioni più importanti che è necessario apportare all’ordinamento decretato perché esso funzioni efficacemente. Tutto il resto è chiacchiera vana o pretesto per guastare un ordinamento buono, giusto, che mette l’Italia in un posto eminente tra i paesi che modernamente hanno riformato il loro sistema tributario.
Un’imposta patrimoniale in tanto funziona bene in quanto ci siano i mezzi per accertare la materia imponibile. Si possono aver congegnati i metodi più perfetti di ripartizione dell’imposta; ma tutto è inutile se non si conosce la materia imponibile. Bisogna prima accertare la ricchezza, ossia scoprirla, individuarla al nome del possessore e poi valutarla, ossia darvi un prezzo capitale. Sono due operazioni ugualmente necessarie, ma distinte.
Orbene, i metodi scelti peccano sotto questo rispetto per due tra i principalissimi cespiti della ricchezza esistente in Italia. I cespiti importanti sono in sostanza quattro: 1) titoli di stato e privati; 2) terreni; 3) fabbricati; 4) aziende commerciali ed industriali, che non siano già rappresentate da titoli azionari od obbligazionari.
Per i fabbricati e per le aziende il metodo scelto è buono e non saprei praticamente come migliorarlo. Per i fabbricati, finché dura l’attuale regime dei vincoli agli affitti, si moltiplica per 25 il reddito imponibile accertato ai fini dell’imposta fabbricati. Se un fabbricato rende 20.000 lire lorde e dedotto il quarto per le spese, lire 15.000 nette, quel fabbricato è valutato in lire 15.000 x 25 ossia in lire 375.000. Si suppone cioè che il capitale edilizio renda il 4% netto. L’ipotesi può essere più o meno vicina al vero, può dar luogo a qualche ingiustizia. Ma, nelle contingenze attuali, in cui i fitti sono vincolati, francamente credo non vi fosse nulla di meglio da fare. Quando i fitti saranno ridivenuti liberi e passato il primo sessennio – periodo fisso per tutti i contribuenti, dopo di cui si procede ad una rivalutazione del patrimonio – si rivaluteranno i fitti, si calcolerà il vero reddito netto e questo si moltiplicherà per 20, supponendo cioè che i capitali edilizi fruttino il 5 per cento. Il che sarà vicinissimo al vero quando vi sia libertà di contrattazione.
Per le aziende commerciali ed industriali gerite da individui singoli o da società in accomandita semplice, in nome collettivo o di fatto il sistema seguito mi pare altresì buono. Per calcolare il valore dell’azienda, da ripartirsi poi tra i soci, si ha riguardo: 1) al capitale investito nell’azienda e denunciato dal contribuente medesimo ai fini dell’imposta sui sovraprofitti di guerra. È vero che allora il contribuente aveva interesse a denunciare un grosso capitale investito per pagar di meno di imposta sui sovraprofitti; ma nessun rimprovero si può fare alla finanza se accetta la confessione fatta da chi deve pagare; 2) al reddito ordinario accertato nel triennio anteriore al 1920 ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, capitalizzando questo reddito ad una ragione variante dal 10 al 30%, a seconda
dell’importanza relativa del capitale e del lavoro nella produzione del reddito. Sia un’azienda che rende 300.000 lire all’anno. Se in essa il capitale ha molta importanza – ci sono edifici, macchine, impianti – il capitale potrà anche essere valutato al massimo 3.000.000 di lire. Se invece il capitale ha poca importanza – negozio o simili – e il reddito è prodotto prevalentemente dal lavoro, l’azienda potrà al minimo essere valutata 1.000.000 di lire. Il criterio è empirico; altri potrà immaginarne uno migliore. Ma è difficile immaginarne uno più elastico, il quale meglio si adatti alla infinita varietà dei casi pratici.
Il metodo tenuto è invece vizioso per i terreni e per i titoli. Ma per motivi diversi, anzi opposti, volendoli schematizzare, si potrebbe dir questo:
Accertamento | Valutazione | |
Titoli | Certo | Bassa |
Terreni | Incertissimo | Esatta |
Per i terreni l’accertamento è sicuro. Il fisco saprà con precisione a chi spettano i terreni, potrà frazionarli al nome di ogni singolo possessore. Da questo punto di vista non vi è nulla da desiderare. È bassa invece la valutazione per i primi sei anni. Entro certi limiti, il difetto è irreparabile e non dipende dalla buona volontà di alcun ministro porvi riparo. Il termine di sei anni è appena appena sufficiente per procedere a quella rivalutazione del reddito dei terreni, che è ordinata contemporaneamente ai fini della imposta patrimoniale sul reddito e di quella normale. Se l’amministrazione ci si mette sul serio, fra sei anni conosceremo il reddito netto dei terreni; e potremo, moltiplicandolo per 20, avere una valutazione, tollerabilmente approssimata, dei valori terrieri. Prima non sarebbe possibile.
Ma anche prima, anche subito sarebbe stato possibile di usare un qualche metodo empirico che non riducesse la valutazione dei terreni troppo al disotto del vero. L’articolo 10 invero dispone che per i primi 6 anni si moltiplichi l’imposta erariale principale del 1916 per 325. Il risultato dell’operazione è il valore presunto del terreno. La cifra 325 pare grossa; ma, a causa del disordine dei nostri catasti, dà risultati troppo bassi. Nel 1916 il gettito dell’imposta erariale principale in Italia batteva sui 90 milioni all’anno. Moltiplicando per 325 abbiamo qualcosa meno di 30 miliardi per l’intero valore della proprietà terriera italiana. Il che è assurdo. I terreni in Italia valgono parecchio di più. A questa stregua i fabbricati saranno sovratassati, perché moltiplicando circa 1 miliardo di reddito edilizio imponibile per 25 si ottengono 25 miliardi. È ragionevole ammettere che se le case in Italia valgono 25 miliardi, i terreni debbano valere solo 30 miliardi?
Quindi, la prima e facilissima variante da apportare al decreto-legge è di aumentare il coefficiente fisso di 325 portandolo, io direi, a 500. Col coefficiente 500, i terreni sarebbero valutati dai 45 ai 50 miliardi, il che non stonerebbe troppo in confronto ai 25 miliardi dei fabbricati.
È vero che gli uni e gli altri valgono di più di 50 e 25 miliardi rispettivamente, come si vedrà alla fine del sessennio; ma, per cominciare, le valutazioni apparirebbero comparabili. Al difetto in meno, si provvederà alla fine del sessennio, perché, assai opportunamente, l’articolo 10 del decreto dispone che se si osserverà uno scarto, tra le valutazioni empiriche e provvisorie del primo sessennio e quelle definitive, di almeno un quarto, si farà luogo a supplementi od a rimborsi d’imposta. Appunto perciò importa che, fin d’ora, le valutazioni non siano troppo basse per non dar luogo a troppi supplementi alla fine del sessennio e per non spingere i proprietari a tenersi con ogni sforzo stretti ad una valutazione definitiva la quale non si allontani dal coefficiente 325.
Il difetto inverso presenta la tassazione dei titoli. Per questi la valutazione è esatta, esattissima, semplice. Si assumono per i titoli di stato, i prezzi medi di borsa del primo semestre del 1919, per le azioni ed altri titoli privati, la media dei prezzi di compenso del semestre aprile-settembre 1919. Come al solito, e contrariamente all’opinione comune, neppure un centesimo sfuggirà all’imposta, per quanto tocca la valutazione dei titoli. Proprietari di terreni, di fabbricati, di aziende riusciranno ora e poi a far stimare più bassi del vero i loro cespiti. Ai soli proprietari di titoli – compresi nei titoli, anche quelli di mutuo, su cui però occorrerebbe un discorso a parte – non sarà possibile nascondere nulla del valore dei loro titoli. Essi sono contrattati ogni giorno, pubblicamente. Tutti i giornali pubblicano i prezzi giornalieri.
Il difetto, per i titoli, sta nell’accertamento. Se il fisco riesce a ghermirli, nulla più sfugge. Il difficile è accertarne l’esistenza al nome del contribuente. La cosa è rimessa alla buona fede di chi deve fare la denuncia, al timore di essere chiamato a prestare giuramento dalla finanza; ed alla paura che, come minaccia l’articolo 43, possa il governo dopo un anno decretare la conversione di tutti i titoli al nominativo. Tutte queste paure, l’ho già detto, pesano poco. Purtroppo, si invoca troppo il giuramento da gente d’ogni risma per aver fiducia nella sua efficacia. Val di più certamente il giuramento deferito in casi singoli dalla finanza, con carattere di speciale solennità, che il giuramento universale imposto a tutti, che il pubblico italiano ben presto volgerebbe in burletta e per cui i tribunali non applicherebbero sanzioni. In ogni caso però , come strumento fiscale capace di gittar milioni – e se non serve a questo, ma solo ad imbastir processi, non serve a nulla -, il giuramento parmi di efficacia dubbia. Esso spaventerà i timidi e gli onesti e lascerà indisturbati i renitenti.
Fra un anno converrà venire per forza alla nominatività. Dato ciò, non sarebbe stato opportuno sperimentare l’efficacia dell’imposta sufficiente sui soli titoli al portatore e su tutti i titoli al portatore? Il 5% non basta, perché molti preferiranno pagare il 5% piuttostoché la più elevata imposta patrimoniale e quella complementare sul reddito. Oggi, hanno convenienza a convertire i loro titoli al nome solo coloro i quali posseggono un patrimonio non superiore a 20.000 lire ed un reddito imponibile non superiore a 5.000 lire; oltre, s’intende, i contribuenti onesti i quali denuncerebbero i loro titoli anche se fossero al portatore. Bisogna portare quest’imposta-multa, questa imposta che sarebbe desiderabile nessuno pagasse, al 15% per il 1920 ed al 30% per gli anni successivi; ed estenderla a tutti i titoli, anche a quelli di stato. Se così si facesse, quasi tutti si affretterebbero a convertire i loro titoli al nome per non pagare il tributo alto e speciale ai titoli al portatore; e lo stato incasserebbe con sicurezza somme cospicue a titolo di imposta patrimoniale e sul reddito, secondo giustizia.
Le due proposte fatte in questo articolo, di elevare da 325 a 500 il coefficiente di valutazione dei terreni e di crescere al 15% per il 1920 ed al 30% poi l’imposta sugli interessi e dividendi di tutti i titoli al portatore sono proposte semplici. Esse non richiedono alcuna variazione sostanziale nella struttura dei decreti tributari. Questa è razionale e pratica. Non c’è bisogno di mutarvi nulla, salvo due cifre e pochissime parole. Ma le due piccole variazioni basterebbero ad assicurare allo stato qualche centinaio di milioni di lire di più all’anno. Non faccio colpa ai ministri di non essere andati sino in fondo; perché il coraggio che essi hanno avuto nel decretare una riforma tributaria così complessa, grandiosa, urtante tanti interessi è degno di ogni maggiore lode. Sono però sicuro che anche essi saranno lieti che il parlamento, come è dover suo, compia l’opera che essi hanno quasi condotto a termine.
XII
Le sperequazioni e le durezze della patrimoniale straordinaria
Gli estensori del testo legislativo per l’istituzione dell’imposta patrimoniale avrebbero meritato di essere lapidati, se non avessero, accanto all’esenzione dei patrimoni non superiori alle 20.000 lire, sancito altresì detrazioni per carichi di famiglia. Tutti i giornali infatti avevano riferito che dal patrimonio netto dovessero, prima di procedere all’applicazione dell’imposta, detrarsi lire 5.000 per i contribuenti maschi di età superiore ai 50 anni, o femmine di età superiore ai 40 anni, lire 5.000 per il coniuge del contribuente non effettivamente e legalmente separato, lire 5.000 per ciascuno dei discendenti ed ascendenti effettivamente a carico del contribuente, lire 10.000 per ogni invalido di guerra ed altrettanto per la vedova e per ciascuno dei genitori e degli orfani di morti in guerra o per fatto di guerra.
Con mia grande stupefazione, l’articolo concernente queste detrazioni è scomparso intieramente nel testo del decreto quale si legge nella «Gazzetta ufficiale».
Chi merita di essere lapidato per questa scomparsa, che sarà certamente la fonte delle critiche più vivaci e più giustificate mosse contro l’imposta patrimoniale? Chi sarà ritenuto responsabile dell’abbassamento a 325 del coefficiente di valutazione dei terreni e dell’abbandono dell’imposta del 15% su tutti gli interessi e dividendi dei titoli al portatore creata allo scopo di forzarli alla nominatività ? Ecco un calcolo comparativo della presumibile materia imponibile che si può scoprire con o senza quei due avvedimenti:
A
500 pei terreni e con l’imposta al 15% su tutti i titoli al portatore
| B
325 pei terreni e con l’imposta al 5% su tutti i titoli al portatore
| ||
Terreni | Miliardi | 50 | 32 |
Fabbricati | » | 25 | 25 |
Aziende | » | 5 | 5 |
Titoli nominativi | » | 5 | 5 |
Titoli al portatore | » | 45 | ? |
Diversi | » | 5 135 | 5 72+ X (?) |
A detrarre | |||
Esenzione dei patrimoni di 20 mila lire | 20 | 20 | |
Detrazioni per carichi di famiglia | 30
| –
| |
Non imponibile | 85 | 52+ X (?) |
Le cifre sono quanto mai incerte ed approssimative. Non raffigurano la vera ricchezza italiana; ma quanto probabilmente si potrà accertare nel primo sessennio, con i metodi consentiti dal decreto-legge. Alla fine del primo sessennio, le cose andranno assai meglio e la materia imponibile aumenterà.
Pur riconoscendo che era impossibile per ora trovare un diverso terzo sistema, è evidente che il sistema A era di gran lunga preferibile al sistema B. Col sistema A si scoprivano 135 miliardi probabili di materia imponibile, non si commettevano ingiustizie a favore dei titoli al portatore, e per conseguenza non si era costretti ad abbassare troppo la valutazione dei terreni e si potevano concedere le 5 e le 10.000 lire dette innanzi per carichi di famiglia.
Ai moltissimi, i quali osservavano che il limite delle 20.000 lire era troppo basso, che 5 e 10.000 lire erano troppo poco e che col frutto di esse non si poteva vivere, era doveroso rispondere che, anche così ridotte, quelle esenzioni assorbivano 50 su 135 miliardi di materia imponibile accertabile; che un leggero aumento avrebbe assorbito somme enormi; che l’Italia non è un paese di milionari, ma di ricchezza diffusa; che se i modesti si rifiutano a pagare imposte, l’erario, anche con aliquote alte, non incassa nulla; e che le imposte non si istituiscono per scrivere bei testi di legge, ma per incassare milioni. È sperabile che dinanzi a queste argomentazioni, le modeste fortune si sarebbero acquetate ed avrebbero consentito di buon grado al sacrificio per esse doveroso.
Ma la soluzione a cui si è giunti (B) non è equa né tollerabile. Il governo, dopo aver ridotto la valutazione dei terreni ad un massimo di 32 miliardi e ad un punto interrogativo quella dei titoli al portatore, si è arretrato dinanzi al totale miserrimo ottenuto: appena 72 miliardi, più un’x incerta per i titoli al portatore. Ed ha creduto di riparare al danno per il fisco determinato da un’ingiustizia, con un’altra ingiustizia, ossia con la soppressione delle detrazioni per carichi di famiglia. Il totale netto imponibile invece di 22 + x, risulta così ancora di 52 + x; a prezzo però di una atrocità senza nome, quale è il diniego delle detrazioni. Famiglie numerose e coniugi egoisti, scapoli che lasciano nell’abbandono i genitori, e figli che rinunciano al matrimonio per poter dare i mezzi di vita alla madre, vecchi e giovani, uomini e donne, vedove ed orfani di guerra, mutilati, tutti sono trattati alla stessa stregua. Tutti pagano appena il patrimonio supera le 20.000 lire.
L’iniquità non può durare. Deve essere rimediata. Comprendo le dolorose necessità finanziarie alle quali hanno ubbidito i ministri del tesoro e delle finanze nel resecare, contro al loro desiderio, l’articolo delle detrazioni. Le comprendo; ma dico che il rimedio non era lì. Per riparare ad un’ingiustizia non bisogna commetterne un’altra. Bisogna invece riparare alla prima. Urge ripristinare le detrazioni, aumentando contemporaneamente il coefficiente per i terreni da 325 a 500 e dal 5 al 15% l’imposta sugli interessi e dividendi estesa a tutti i titoli al portatore.
Tanto più urge, in quanto questo è l’unico modo di riparare, per ora, ad uno dei difetti capitali dell’imposta patrimoniale. Essa forzatamente incide con violenza su una delle classi più utili, più produttive, più meritorie della società, che sono i possessori di modesti patrimoni. Che cosa sia un modesto patrimonio, è difficile dirlo. Un tempo giungeva sino alle 100.000 lire; adesso, con la svalutazione della moneta va molto più in su. L’imposta patrimoniale su questa classe di persone incide assai più severamente che su altre classi le quali si trovano in una situazione economica forse migliore.
Qual differenza vi è tra il professionista, il quale lavorando tutta la vita, logorandosi il cervello, rinunciando ad ogni divertimento, risparmiando tutto il risparmiabile ha messo insieme 100.000 lire per la propria vecchiaia, per la vedova ed i figli, e il funzionario che nulla risparmia ma va in pensione con 8.000 lire all’anno e con un diritto di riversibilità, che oggi è della metà, a favore della vedova? Il primo vive su 5.000 lire di reddito, il secondo con 8.000 lire. Probabilmente il primo ha condotto una vita più agitata, più incerta, più malsicura. Egli paga l’imposta patrimoniale, laddove il funzionario non paga nulla. Ho ricevuto lettere angosciose di vedove con bambini, di commercianti ritirati con un piccolo peculio, di tutori di minorenni, di interdetti, i quali ad una voce dicono: «È stato un delitto che i nostri mariti, che i nostri genitori, che noi stessi abbiamo lavorato e risparmiato e che abbiamo investito il nostro risparmio in titoli, o in mutui o in una casa od un fondo? Se noi od i nostri autori avessero invece impiegato i loro risparmi in una assicurazione sulla vita da scadere, o in un vitalizio in corso, nulla pagheremmo di patrimoniale. Poiché compimmo opera più duratura, più utile alla società – e dicendo questo, dicono una verità sacrosanta – poiché pensammo alle generazioni venture, noi dobbiamo pagare. Altri più egoista, che ha messo il suo in vitalizio, o che non ha voluto aver figli, nulla paga». V’ha chi aggiunge: «Noi che abbiamo redditi modesti di 3, di 4, di 5 mila lire all’anno, redditi che sarebbero rifiutati con disprezzo da qualsiasi operaio di fabbrica, che su quel reddito con stenti inenarrabili viviamo in 3, 4, 5 persone vecchie o in tenera età, incapaci a lavorare, siamo obbligati a pagare, solo perché ci sudammo a frusta a frusta il nostro capitale e rinunciammo in giovinezza a ber vino od a qualsiasi spesa inutile. Chi ha salari o stipendi doppi o tripli dei nostri, nulla paga e per giunta ci minaccia l’espropriazione a breve scadenza di quanto possediamo». Il problema è più ampio e profondo di quanto forse ritengono coloro che si limitano a querele intorno alla ripartizione delle imposte. È il problema delle classi medie, queste api mellifere della società, per cui pare sia ridivenuto vero il sic vos non vobis mellificate apes. Se esse riusciranno ad organizzarsi, ed a persuadere le grandi masse proprietarie e cointeressate contadine della coincidenza degli interessi comuni e se l’alfiere di questa organizzazione sarà il partito liberale, esse salveranno se stesse ed insieme la società attuale; e la giustizia tributaria sarà salva anche in loro confronto. Frattanto però , è dovere del governo non esasperarle con confronti odiosi. Il nuovo ordinamento tributario tutela le ragioni degli operai e degli impiegati; ed è bene che giustizia sia fatta in loro confronto. Non tutela le ragioni della media gente che ha scelta la via del lavoro individuale, del risparmio, del sacrificio a pro delle generazioni venture. Il meno che si possa fare è di ristabilire le detrazioni per carichi di famiglia inopinatamente tolte. Ma, per far ciò, occorre valutare più esattamente i terreni e costruire una migliore imposta sui titoli al portatore.
[1] Con il titolo Il progetto Meda e la riforma tributaria. Prime osservazioni [ndr].
[2] Con il titolo Il significato della riforma tributaria [ndr].
[3] Con il titolo La riforma tributaria e i suoi critici [ndr].
[4] Con il titolo Le critiche al progetto Meda [ndr].
[5] Con il titolo Polvere negli occhi o riforma seria? [ndr].
[6] Con il titolo Il programma finanziario del governo e l’imposta straordinaria sul patrimonio [ndr].
[7] Con il titolo La riforma tributaria [ndr].
[8] Con il titolo Il danno della tesaurizzazione dei biglietti [ndr].
[9] Con il titolo Il peso delle nuove e delle vecchie imposte [ndr].
[10] Con il titolo I due essenziali difetti dell’imposta patrimoniale [ndr].
[11] Con il titolo Debolezze e durezze nell’imposta patrimoniale [ndr].