Ritornerà stabile la lira?
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/12/1946
Ritornerà stabile la lira?
«Corriere della Sera», 1 dicembre 1946
Fra le tante domande rivolte dai sottoscrittori al Prestito della ricostruzione ve n’ha una la quale non ha carattere tecnico. Non si chiede se il saggio dell’interesse sia adeguato, se il prezzo di emissione non sia troppo alto e corra pericolo di non mantenersi in avvenire, se le esenzioni tributarie siano troppe o troppo poche, se i premi offerti al luogo di quelli prima concessi ai buoni del Tesoro poliennali siano allettanti. Tutti questi punti furono attentamente considerati e pesati al momento dello studio del piano del Prestito: ed è, ritengo, opinione giustamente prevalente che, nel loro insieme, le condizioni offerte siano siffatte da rendere il nuovo titolo appetibile ai possessori di fondi liquidi. Ma vi è una domanda la quale viene ansiosamente posta ed è di gran lunga più rilevante di tutte:
«Sfuggiremo noi – chiedono molti – alla sorte di tutti i nostri predecessori, i quali sottoscrissero in passato ai prestiti pubblici? Conserveremo, oltreché l’ammontare in lire, del che nessuno dubita, la capacità d’acquisto delle somme che oggi siamo chiamati ad affidare allo Stato? L’esperienza del passato non è incoraggiante. Nel 1914, il debito pubblico italiano si aggirava sui 15 miliardi di lire, con un carico annuo di interessi di 500 milioni di lire. Alla metà del 1946 il debito era salito a 1085 miliardi ed il carico poteva calcolarsi in 35 miliardi di lire. Siccome però la capacità d’acquisto della lira oggi può al massimo, nella ipotesi più ottimistica, essere considerata uguale all’uno per cento della capacità d’acquisto della lira 1914, così il debito pubblico odierno è nominalmente di 1085 miliardi di lire 1946 ma in sostanza è uguale a 10 miliardi ed 850 milioni in lire del 1914; ed il suo carico nominale di 35 miliardi di lire 1946 si converte, ragguagliato a lire 1914, in un carico di soli 350 milioni di lire. Dunque, nonostante i risparmiatori italiani abbiano dato al nostro Stato dal 1914 ad oggi ben 1070 miliardi di lire in aggiunta ai 15 allora esistenti a debito dell’erario pubblico, l’onere degli interessi è diminuito da 500 a 350 milioni di lire, ambe le cifre ragguagliate alla medesima potenza d’acquisto del 1914. Perciò, ancora, noi portatori di titoli di Stato abbiamo dato molto in capitale e riceviamo in interessi meno di prima. Se le cose dovessero continuare così in avvenire, vale la pena di sottoscrivere? Non varrebbe meglio acquistare qualunque cosa anche la più strampalata: mobili inutili, croste di quadri, cornici senza quadri, stoffe nuove od antiche, macchine per cucire, mattoni, botti? Qualcosa ci resterà fra le mani, che è sempre meglio di nulla».
Questa la domanda ansiosa, la quale viene rivolta dai risparmiatori a uomini di Governo e di banca: e poiché è domanda grave e seria, confortata da cifre inoppugnabili, non giova ignorarla o tergiversare nella risposta. Far come lo struzzo il quale, per non vedere il pericolo, ficca la testa nella sabbia, non giova mai e sovrattutto nuoce nelle cose di finanza e di moneta. Riconosciamo, prima di ogni altra cosa, che l’interesse dello Stato coincide pienamente con quello dei risparmiatori. È interesse di ambedue mantenere fede ai patti, sicché i capitali siano rimborsati e gli interessi siano pagati nella identica moneta nella quale i versamenti furono fatti, identica non solo nominalmente, ma anche per capacità di acquisto. Il debito pubblico italiano è cresciuto tra il 1914 ed il 1946 da 15 a 1085 miliardi; se la lira fosse rimasta immutata in potenza d’acquisto, ciò avrebbe significato tante cose, che qui sarebbe troppo lungo elencare, ma avrebbe significato almeno una cosa: il debito odierno statale non sarebbe, no, di 1085 miliardi, ma di un ammontare infinitamente minore. Basti pensare, fra l’altro, ai 343 miliardi anticipati in biglietti dalla Banca d’Italia al Tesoro, che sono parte dei 1085 miliardi e che, non essendosi dovuto, nella ipotesi di stabilità monetaria, ricorrere alle anticipazioni, non esisterebbero.
Tutto sommato, a gran stento riesco ad immaginare, in quella ipotesi, un debito pubblico giunto ai 50 miliardi. E, quel che più conta, il saggio dell’interesse pagato dallo Stato sarebbe notevolmente più basso. Vi sarebbe, sempre in quella ipotesi di fede serbata ai patti, una qualche ragione per ritenere che la curva del saggio di interesse, la quale anche in Italia era scesa, innanzi al 1914, al livello del 3,50%, avrebbe cessato di scendere? Se in Inghilterra, oggi, nonostante le nazionalizzazioni e nonostante il Governo laborista (sinonimo di quelli che sul continente si direbbero Governi socialisti i quali abbiano però abbiano piani precisi di specifiche nazionalizzazioni, rinuncino a quelle di esse che la discussione e la esperienza dimostrino incongrue, indennizzino in moneta buona e al prezzo corrente i proprietari espropriati e si sforzino di tenere lontani partiti e influenze politiche dalle aziende nazionalizzate in forma autonoma) il saggio dell’interesse lordo dei titoli di Stato è del 2,50%, il che vuol dire, a seconda dell’altezza del reddito dei possessori, un interesse netto da imposta variabile dal 2,50% al 0,50%; se negli Stati Uniti il costo del debito pubblico sta sul 2%; se nella Svizzera rimane sotto il 3%, vi è qualche buona ragione di ritenere che, in regime di moneta stabile, il saggio di interesse anche in Italia sarebbe andato normalmente oltre il 2% ? Gli economisti hanno repugnanza invincibile per le profezie: ma non è una profezia affermare che, se la potenza d’acquisto della lira si stabilizzasse permanentemente (s’intende entro i limiti nei quali si può parlare di stabilizzazione in un mondo mobile e tecnicamente progressivo), insieme con tante altre cose, muterebbe anche il saggio di interesse. Con tutta probabilità, ben presto in quel mondo il saggio del 3,50 e poi quello del 3 e poi anche del 2% diventerebbero ricordi mitici ed i risparmiatori dovrebbero contentarsi di saggi di reddito di capitale puro poco discosti dall’1%. Non solo dovrebbero contentarsene: ma sarebbero ben lieti di ricevere solo l’1% : ché l’1% pagato in moneta stabile è ben più, di gran lunga più, del 5 o del 6 o del 10% pagato in moneta instabile e calante. Faccia i suoi conti chiunque possieda dal 1914 titoli di Stato e vegga se a lui non sarebbe convenuto rinunciare ai quattro quinti dell’interesse allora goduto pur di assicurarsi il pagamento dell’interesse in moneta avente una stabile potenza di acquisto. Quel che è interesse dei risparmiatori – moneta stabile e bassi interessi – è anche interesse dello Stato. È errore inescusabile degli Stati moderni, i cui compiti crescono di giorno in giorno, i quali hanno bisogno di procacciarsi a prestito somme grandiose non solo oggi eccezionalmente per le opere di ricostruzione, ma domani permanentemente per ferrovie, strade, ponti, porti, scuole, ospedali e per tutte le svariate opere di civiltà le quali sono fuori della sfera privata, è errore inescusabile degli Stati moderni di partire in guerra contro i cosiddetti capitalisti, ossia contro i fornitori di risparmio nuovo allo Stato assetato di capitali. Il dilemma è chiaro: o lo Stato richiede capitali ai risparmiatori, ma ogni giorno li allarma con imposte, con svalutazioni, con proibizioni di entrata e di uscita dai confini nazionali ed i risparmi non si offriranno nella misura sufficiente ai bisogni pubblici, ed il Tesoro dovrà ricorrere al torchio dei biglietti e sui capitali ottenuti a prestito pagherà il 5 o il 6 e forse più per cento, gran parte dei quali alti saggi sarà compenso di rischio senza costrutto alcuno per i risparmiatori: ovvero lo Stato dà sicurezza di reddito netto e sicurezza di stabilità monetaria, ed al luogo di minacciare e vessare e proibire dice ai risparmiatori: tenetevi i vostri quattrini se non me li volete dare, esportateli, nascondeteli sotto terra, fatene quel che vi salta in mente: ed i risparmiatori andranno a gara a fabbricar risparmio e ad offrirlo allo Stato al 3, al 2 e all’1%. Tra le due maniere di socializzare il risparmio la maniera di gran lunga più economica, quella che meglio contribuisce all’avanzamento della attrezzatura tecnica, alla prosperità economica ed all’accrescimento relativo del reddito dei lavoratori intellettuali e manuali, compresi in questi gli imprenditori, in confronto a quello del ceto dei risparmiatori puri (capitalisti) non è la via dell’incutere paura, del controllare, del limitare, del tassare, ma quella dei ponti d’oro: sorrisi e sicurezza. Il risparmiatore è per natura sua invincibile e quasi per definizione animale timido: fugge e si nasconde se rincorso e preso a sassate, prolifica se accarezzato a seconda del pelo. La riduzione del saggio dell’interesse all’1% è una, si intende non la sola, delle maniere più semplici di risolvere le questioni sociali e togliere ragion d’essere alle invidie ed ai contrasti di classe. L’avverarsi della condizione di un saggio dell’interesse ridotto all’1% consentirebbe di spingere la produzione ed il tenor di vita della popolazione a limiti che oggi parrebbe follia sperare.
Gli economisti hanno un modo curioso di rispondere alle domande: il risparmiatore medio chiede: sfuggirò io, in questa occasione del Prestito della ricostruzione, al fato dei miei predecessori travolti dalla svalutazione? Ed io ho risposto cercando di dimostrare che dare stabilità di potenza d’acquisto alla lira conviene ai risparmiatori, conviene allo Stato, conviene al benessere delle moltitudini, promuove il progresso economico e la pace sociale ed è il mezzo più economico e rapido di favorire lo spirito di intrapresa e di lavoro in confronto al capitale puro. Come ottenere che si faccia quel che conviene a tutti? La risposta non è più di spettanza dell’economista. Il risparmiatore, il quale oggi sottoscrive per fondate ragioni tecniche e finanziarie largamente spiegate nella pubblica stampa, non ha finito la sua opera quando ha dato allo Stato i mezzi per provvedere alla ricostruzione del Paese senza emettere biglietti nuovi e senza dare esca alla svalutazione.
Egli è anche un cittadino: e come tale ha diritto e dovere di partecipare alla cosa pubblica. La stabilità monetaria non è un frutto spontaneo della natura e neppure della semplice volontà di ministri e di uomini di banca. Ogni cosa buona è frutto di fatiche dure e quotidiane. È passato, se pur ci fu mai, il tempo in cui il risparmiatore poteva fare investimenti tranquilli di tutto riposo. Vigilate e vi sarà aperto il regno dei cieli. Vigilate, occupatevi della cosa pubblica, difendete apertamente e tenacemente, contro i promotori di disavanzo nei bilanci pubblici, contro i fautori del disordine economico, contro i progettisti fantasiosi, contro i fabbricanti di piani squinternati, il vostro interesse alla stabilità monetaria, che è anche interesse dello Stato e della collettività: e l’età d’oro di una lira stabile ritornerà su questa terra.