La lotta contro il caro viveri
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 12/06/1919
La lotta contro il caro viveri
«Corriere della Sera», 12[1] e 18 giugno[2]; 3[3], 6[4], 8[5], 12 e 16[6] luglio 1919
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 258-293
I
Rimedi diretti e rimedi indiretti
L’opinione pubblica italiana è inquieta per la permanenza degli alti prezzi che si sperava dovessero scemare con la fine della guerra ed invece in non pochi casi, dopo un breve momento di sosta, sono divenuti più aspri. Di qui agitazioni operaie, malcontento di impiegati, domande di aumenti di paga e di stipendi, le quali essendo state per lo più accettate, sono cagione o pretesto a nuovi aumenti di prezzo da parte dei produttori e da essi si ripercuotono come una valanga di neve sugli intermediari, grossisti e rivenditori al minuto, ed infine sui consumatori. È un circolo vizioso, che si svolge come una spirale ascendente e da cui non si sa come uscire.
Poiché tuttavia sembra impossibile di non poter trovare la via di uscita, i giornali, gli uomini politici, il pubblico dicono: mettiamo un punto fermo ad uno degli anelli della catena ed il circolo vizioso sarà interrotto. Si interrompa l’ascesa dei prezzi e gli impiegati e gli operai non avranno più ragione di agitarsi e di chiedere nuovi aumenti di salario; né i produttori avranno perciò nuovi motivi di rialzare i prezzi.
Questa impressione diffusa nel pubblico culmina nella richiesta di un nuovo ministro degli approvvigionamenti il quale dovrebbe prendere in mano il poderoso problema e risolverlo. Un uomo abile e risoluto potrebbe frenare, dicesi, la speculazione, tenere i prezzi a segno, impedire i bagarinaggi. Lo si nomini subito e si affidino a lui poteri e mezzi sufficienti per assolvere il compito.
Noi non affermiamo che le speranze del pubblico nell’azione di un dittatore «ai viveri» siano compiutamente illusorie. Se la sua azione sarà avveduta, se non pretenderà di risolvere il problema di tenere a segno tutti i prezzi, se si limiterà ad esercitare un compito calmante, qualche cosa egli potrà ottenere.
Sembra, ad esempio, certo che il governo stenti a mettere sul mercato approvvigionamenti che sono a sua disposizione o li metta a prezzi tali da lasciargli un forte margine di utile. In questo campo qualcosa il dittatore «ai viveri» può fare. Se lo stato – cosa che noi non sappiamo ma non è impossibile – ha davvero mezzo di procacciarsi all’estero forti provviste di derrate alimentari – principalmente conserve di carni, di pesci, di frutta, carni salate e grassi – ben farà ad intervenire prontamente ed a metterle in vendita a prezzi che coprano esattamente il costo e nulla più.
Non vediamo in questa politica già formidabilmente complessa e tale da assorbire del tutto l’attività febbrile di parecchi uomini esperti, energici e capaci, quali non è facile trovare nel mondo politico, un pericolo per le finanze, o un danno per lo scopo che si vuol raggiungere. Una certa organizzazione di vendita attraverso ai consorzi, alle cooperative, al privato smercio, esiste già e lo stato può utilizzarla. Le vendite a prezzi di costo, alti ma più bassi di quelli correnti, di grassi, di carni salate, di conserve, agirebbero sui prezzi delle altre derrate alimentari e potrebbero essere un calmiere, l’unico pratico, discretamente efficace.
Occorre però che il dittatore ai viveri non presuma di far troppo e che l’opinione pubblica non si attenda troppo da lui. Se così fosse, il disinganno non potrebbe non esser acerbo. Se egli, per accondiscendere all’umore dei giornali e dei comizi, volesse andare innanzi a colpi di calmiere, se pretendesse di requisire nelle campagne la frutta, le verdure, i latticini, le uova, gli oli, se volesse nuovamente organizzare la vendita a cura dello stato degli alimenti in generale, l’unica conclusione possibile sarebbe l’inasprirsi del disordine, uno scompiglio crescente e un rialzo peggiore dei prezzi, congiunto con la mancanza delle merci. Abbiamo fatto in proposito durante la guerra tante esperienze che ogni persona sennata deve dire al governo: «Fate poco, fate soltanto quello che siete sicuri di poter far bene, non incominciate alcuna cosa se non siate sicuri di condurla a buon termine, non promettete nulla che non siate sicuri di mantenere». Se il governo sarà modesto nelle sue aspirazioni, se l’opinione pubblica saprà chiedere poco all’azione diretta dello stato, sarà forse possibile ottenere quel poco; ed esso gioverà a sollevare le sorti delle famiglie più bisognose.
A ristabilire l’equilibrio, a far cessare la corsa dei guadagni e dei prezzi, giovano sovratutto i mezzi indiretti, i quali cerchino di far venir meno le cause che hanno prodotto l’aumento dei prezzi. È inutile attaccarsi ai sintomi per curar una malattia; fa d’uopo togliere di mezzo od attenuare le cause del male. Ora, quali furono le cause del rialzo dei prezzi? In primo luogo, la diminuzione della quantità di merci e derrate messe a disposizione del consumo. Non si distolgono dai lavori della pace milioni di lavoratori, non si indirizzano navi e ferrovie ai trasporti bellici, non si consumano le riserve accumulate dal commercio senza che la merce scarseggi. L’opinione pubblica pensa talvolta che esistano favolose riserve di merci, tenute nascoste dalla speculazione. Bisogna svegliarci da questa illusione. Cinque anni di guerra non sono passati invano a tal proposito.
Le riserve di viveri e di alimenti esistenti, non avevano mai, neppure in tempo di pace, raggiunto il fabbisogno di un anno. Probabilmente erano ben lontane dal bastare alla necessità di un semestre. Oggi, nel mondo intiero, quello civilizzato unito da rapporti commerciali, le riserve, consumate dalle esigenze della guerra, sono bassissime, ed appena bastano a qualche mese. Se si pensa alle distanze e alle difficoltà dei trasporti, si può veramente dire che il mondo vive alla giornata; e qualunque disordine, qualunque arresto minaccia di far mancare il necessario per l’indomani.
La situazione col tempo migliorerà; bisogna far ritornare gli uomini ai campi, smobilitare il più rapidamente possibile, favorire la ripresa della produzione. Bisogna che si riducano i trasporti militari e che ferrovie e navi siano restituite alla loro naturale funzione. Occorre ridare libertà ai commerci. Val di più, per facilitare gli approvvigionamenti, l’azione libera di qualche dozzina di negozianti mossi dal desiderio di lucro, che l’azione governativa di qualunque numeroso ministero, anche se questo avesse alla sua testa un famosissimo fra i maggiori dittatori ai viveri venuti fuori nel mondo durante la guerra. Bisogna lasciare importare ed esportare senza impacci, affinché ognuno possa far venire materie prime dall’estero, quando creda di poter trarne guadagno. L’abbondanza delle merci è sempre favorevole al buon mercato. I divieti di importazione possono sussistere, senza danno, solo per cose inutili, di lusso; e quelli di esportazione per talune derrate alimentari, di produzione nazionale e veramente necessarie alla nutrizione del popolo.
Bisogna che gli industriali abbiano fiducia nell’avvenire, non si sentano minacciati a ogni momento da agitazioni e da violenze. Solo così la produzione potrà ritornare al suo antico livello ed il commercio potrà recarla dai luoghi di produzione ai luoghi di consumo.
La seconda grande causa di rialzo nei prezzi è stata questa: contro ad una massa minore di merce sta ora una quantità maggiore di mezzi di compera in mano del consumatore. Cominciarono prima ad aumentare i guadagni dei produttori e degli intermediari; subito dopo gli operai delle fabbriche, specie di guerra, portarono via ai primi una parte dei guadagni coi successivi aumenti di paghe. Oggi, gli operai di nuovo e gli impiegati ottengono aumenti di salari e di stipendi. Ciò vuol dire che chi aveva cinque ha dieci, chi aveva dieci ha venti lire; chi godeva di uno stipendio di 100 l’ha ora di 150, di 200, di 300, a seconda dei casi. Durante la guerra, i guadagni aumentarono anche perché molti lavoravano ore straordinarie, e in famiglie dove uno solo lavorava, potevano ottenere lavoro donne e ragazzi in modo da aumentare notevolmente il reddito familiare. Adesso questo secondo fattore è scemato di importanza, per la cessazione delle industrie di guerra; e siccome l’orario del lavoro spesso è scemato – altra causa di minor produzione di merci, prima origine dell’aumento dei prezzi – i salari giornalieri spesso non sono saliti in proporzione delle paghe orarie. Tutto sommato, sta che la grande massa dei consumatori ha a sua disposizione una massa maggiore di lire di prima. Più lire e meno merci: il risultato fatale inevitabile è l’aumento dei prezzi. Se si vuole che i prezzi scemino, occorre che la produzione delle merci aumenti e che scemi il numero delle lire rivolte a domanda di merce.
Perciò noi diciamo a coloro che possono: l’ora della rinuncia non è passata. Anzi, forse, il dovere del risparmio è più vivo oggi di quanto non fosse prima. Durante la guerra il senso del pericolo nazionale, la necessità di difendere il paese contro l’assalto nemico, ha spinto i cittadini a imprestare tutto il disponibile allo stato. Oggi è il dovere della conservazione sociale, il pensiero delle conseguenze dei propri atti che deve spingere il cittadino, appena lo possa, ad astenersi dal consumo. Ognuno di noi deve dirsi: posso fare a meno di bere questo bicchiere di vino e sostituirlo con l’acqua fresca? Posso tenermi alquanto più parco nel mangiare senza nocumento della mia capacità di lavoro? Posso far durare un mese di più le scarpe o una stagione di più il cappello e l’abito? Posso rinunciare a una gita in automobile? Se io posso fare tutto questo, devo farlo. Poiché il non farlo significa entrare in concorrenza con altri meno fortunati di me per l’acquisto di una parte della quantità limitata di merce esistente in paese. Significa contribuire al rialzo dei prezzi. Le mie compere inutili o fatte alla leggera significano un incoraggiamento ai negozianti a tener duro sui prezzi; poiché essi pensano: «Qualcuno comprerà ai prezzi che noi chiediamo».
Noi abbiamo rivolto il discorso a quelli che possono. Ma si pensi che ognuno può entro i limiti larghi o ristretti delle proprie condizioni economiche. Non v’è rinuncia, anche modestissima, anche d’una corsa sul tram, anche d’una sigaretta, anche d’un soldo, che non giovi. Ma il risparmio volontario non basta. Vi sono molti, troppi, in tutte le classi sociali, che sono sordi alla voce del dovere. Noi, che parliamo sovratutto alle classi medie e alte, diciamo: bisogna cominciare noi a dare il buon esempio della rinuncia: prima, col risparmio volontario e poi con l’altro grande mezzo che i governi hanno per indurre gli uomini al risparmio: ossia con le imposte. Bisogna pagare più imposte di prima.
II
I piani di Maggiorino Ferraris
Avevo appena finita la lettura sulle bozze di stampa della «Nuova antologia» di un articolo del sen. Maggiorino Ferraris: Il problema dell’ora presente – Quattro anni di lotta contro il caro-viveri! che da Roma veniva trasmessa la notizia della probabile nomina dell’autore dello scritto a ministro o dittatore ai viveri.
L’on. M. Ferraris è uomo zelantissimo del pubblico bene, studioso, fin da prima della guerra, dei problemi dell’alimentazione popolare, autore di piani per la lotta contro il caro-viveri. Ma debbo confessare che la lettura del suo articolo ha cresciuto le preoccupazioni che ognuno il quale pensi al proprio paese deve sentire nel momento presente e le ha trasformate in un vero senso di terrore.
Nella prima pagina dell’articolo il sen. Ferraris ricorda, compiacendosene, di avere, appena scoppiato il conflitto europeo, il 16 agosto 1914, invocato un’azione di stato, unica, al centro, direttiva e fortemente coordinata a tutti gli 8.200 comuni del regno, con una commissione centrale degli approvvigionamenti, 69 commissioni provinciali presso le intendenze di finanza ed 8.200 commissioni comunali presso i singoli municipi del regno. Compito di questa organizzazione sarebbe stato:
- compilare di giorno in giorno l’elenco degli articoli di approvvigionamento di cui si teme deficienza (grani, carbone, petrolio, zucchero, caffè, benzina, ecc.) e fissarne il prezzo per le diverse regioni in base ai corsi anteriori alla guerra, ragionevolmente ed equamente aumentati;
- obbligare tutti i detentori (escluse le piccole partite) a dichiarare all’ufficio comunale la quantità esatta degli articoli di approvvigionamento da essi posseduta, con diritto di controllo da parte degli agenti della finanza e della pubblica forza e severa punizione per i contravventori;
- procedere all’accertamento delle quantità esistenti, informare regolarmente i commercianti delle quantità disponibili e dei prezzi loro, ed occorrendo requisire, ai prezzi stabiliti, quanto occorra ai bisogni civili e militari;
- stabilire i prezzi al minuto, giovandosi all’uopo della vendita a prezzi fissi presso gli spacci di sale e tabacco;
- organizzare, sia mediante i consoli, sia con agenti speciali, l’acquisto all’estero delle partite disponibili, assumendo lo stato il rischio dei trasporti;
- nel caso di grave incetta, introdurre partite limitate, con esenzione del dazio, a scopo di rovinare gli speculatori.
Dopo cinque anni, l’on. Ferraris ritorna sulle sue proposte e ritiene doveroso attuarle ancora oggi. Egli non crede alla convenienza ed alla possibilità per lo stato di agire soltanto su alcune merci principali, di gran consumo.
Non si può ricondurre il problema della lotta contro il caro-viveri ad un semplice acquisto da parte dello stato di forti masse di alcuni generi per gettarli sul mercato, magari a perdita. Anche ciò può giovare, ma non basta. Sarebbe una soluzione puramente meccanica, forse costosa e di effetto non duraturo.
Il Ferraris vuole un’azione vasta, profonda dello stato.
Da un lato occorre affrettare l’opera della ricostruzione, come trasporti, lavoro, bilancio, circolazione, cambi, ecc.; dall’altro giova iniziare e condurre a fondo una lotta specifica su ciascun oggetto importante di uso e consumo: viveri, vestimenti e case.
Essa deve informarsi ai principii più volte da lui enunciati e che si possono così riassumere:
- nessuna «mezza misura»: organizzazione ed azione a fondo;
- controllo di quasi tutti gli articoli di uso comune e generale;
- controllo dei prezzi all’origine e sul costo di produzione;
- riduzione degli indebiti profitti;
- corrispondenza tra la misura dei salari ed il costo della vita;
- avviamento graduale ma costante verso la ripresa della libertà dei commerci.
In tutte le farmacie d’Italia, nei caffè, nelle portinerie, nei trams, negli uffici si ragiona così. Le parole stampate sulla «Nuova antologia» sono purtroppo il riassunto fedele di ciò che milioni di uomini pensano e dicono. «Che cosa fa il governo? Perché non interviene a frenare la speculazione ed il caro-viveri? Perché non stabilisce prezzi giusti? Perché non manda in galera gli accaparratori ed i profittatori? Perché non istituisce esso negozi ed uffici dove si venda al prezzo di costo?» Quando si pensa al consenso che le proposte e le promesse del sen. Ferraris trovano nel pubblico vengono i sudori freddi e si pensa: a che pro affannarsi a scrivere, a dimostrare, a ricordare, se ad ogni passo, quando ancora non è potuto spegnersi il ricordo delle dolorose esperienze passate, rinascono tenacissime le medesime illusioni e conducono ai medesimi errori, ai medesimi disastri?
L’esperienza lunga e svariatissima fatta durante la guerra ha dimostrato che l’azione del governo:
- è stata disordinata e tumultuaria;
- ha creato commissariati e uffici dove si sono imboscati a migliaia giovani che avrebbero dovuto combattere al fronte;
- ha fatto scomparire l’olio, il formaggio, le scarpe, ecc. ecc.; ogni cosa, di cui il governo ha voluto impacciarsi;
- ha fatto marcire e lascia tuttavia marcire quantità di derrate alimentari spaventevoli nei porti, nelle stazioni ferroviarie e nei magazzini governativi;
- ha frenato l’aumento di certi prezzi; ma ha dato una gran spinta al crescere dei prezzi delle altre merci e dei prezzi clandestini.
Ognuno di noi, ogni italiano racconta casi inverosimili di incompetenza dei funzionari preposti ai viveri, agli approvvigionamenti, ai vestiti, alle scarpe. Ognuno sa gli esempi di errori commessi e di danni ignorantemente arrecati all’erario pubblico da tutta questa burocrazia non interessata e non responsabile e che ha avuto per anni in mano la vita del paese.
Eppure, moltissimi, quasi tutti, invece di concludere, come la logica più elementare insegnerebbe, che l’esperienza ha dimostrato l’incapacità dello stato in questa materia, che occorre mandare a spasso i padreterni, ridare completa libertà ai commerci, concludono, come fa il sen. Ferraris: «La colpa di tutto è che non si è fatto bene, che non si è fatto abbastanza. Occorre che lo stato faccia meglio e di più. Organizzi la lotta a fondo: istituisca una rete compiuta di uffici: 1 al centro, 69 nelle provincie, 8.200 nei comuni. Occorre controllare tutto; esigere dichiarazioni di tutto, seguire tutte le merci dall’origine sino al consumo; fissare i salari, i profitti, i costi, i prezzi, punire i contravventori, ecc. ecc.».
Tutto questo conduce al caos, al disastro, alla rovina definitiva delle pubbliche e private finanze. Nessuno dice ora, nessuno ha mai detto né prima, né durante la guerra che lo stato non debba far nulla. Ma quando si vorrà comprendere una buona volta questa verità elementare, la sola suffragata sul serio dall’esempio della guerra: che lo stato non deve far tutto; ma deve solo fare quelle poche cose che esso è in grado di condurre a buon fine? Quelle che la pratica ha dimostrato che esso è in grado di fare?
Limitando, per necessità di spazio e di argomento, il discorso ai viveri, ben può darsi, come questo giornale ha fatto rilevare, che lo stato possegga importanti stocks di viveri e possa fare all’estero acquisti, a prezzi convenienti, di conserve di carne, di pesce, di grassi, di conserve. Se così stanno le cose – e solo persone praticissime possono saperlo – lo stato farà bene a fare quegli acquisti ed a vendere le derrate comperate a prezzo di costo. Occorrerà eviti l’errore di vendere ciò che possiede d’un colpo a pochi consorziati, che, a quanto si afferma da taluno, convertirono a proprio profitto le provviste governative. Si giovi dei consorzi, delle cooperative, del privato commercio, senza creare nuove macchine statali complicate, esigendo che la merce giunga, al prezzo fissato, al consumatore. Venda non d’un colpo, ché i consumi non si fanno una volta al mese od all’anno, ma di giorno in giorno, in guisa che il freno sia continuo. Sovratutto smobiliti, rimandi i lavoratori al lavoro; non ecciti i porti a serrate pericolose; ripari i carri ferroviari; faciliti i trasporti; lasci entrare ed uscire la merce dallo stato; non disturbi l’industria con vessazioni sui cambi; cessi di emettere nuovi biglietti; inciti al risparmio con una campagna persistente a favore dei buoni del tesoro; istituisca le imposte necessarie a fronteggiare il disavanzo.
Insomma, lo stato torni subito a fare il mestiere suo, che non è quello di farsi provveditore di viveri. Quella che il sen. Ferraris, con costanza degna di miglior causa, espone da anni sulla «Nuova antologia», è una pessima teoria, la quale non può non dare, se applicata, frutti di amarissimo tosco.
Non lui, l’on. Ferraris, certamente è l’uomo adatto a reggere l’immane pondo che egli vorrebbe far assumere al dittatore ai viveri od «organizzatore a fondo della lotta contro il caro-viveri». Nessun uomo al mondo sarebbe capace di assolvere l’immane compito. Immaginare che un tal uomo esista è atto di fanciullesca fede nell’avvento del messia rigeneratore in terra dei mali dell’umanità. Affermare che si può intraprendere una missione siffatta è dar prova di avere chiuso, volontariamente, gli occhi dinanzi alla realtà, alla esperienza storica di tutti i tempi e paesi. Supporre che un messia introvabile possa essere coadiuvato da uomini esperti, disinteressati, onniveggenti, onnipresenti in tutte le provincie ed in tutti i comuni italiani è dar prova di ingenuità imperdonabile. Immaginare di poter stabilire il «costo di produzione» di tutti gli articoli di uso comune e generale è non volere sapere ciò che tutti sanno, che non esiste un costo di produzione, ma infiniti costi di produzione, variabili da produttore a produttore, di momento in momento. Fissare i prezzi in ragione di un inesistente costo è un provocare malcontenti, occultamenti, resistenze, incagli alla produzione.
Con i vostri metodi, on. Ferraris, non si frena l’ascesa dei prezzi, ma la si inacerbisce; non si stimola la produzione, ma la si rallenta; non si fanno uscir fuori le merci, ma le si fanno nascondere. Ad attuare il vostro programma sarebbe necessario che ogni produttore, che ogni famiglia fossero controllati. Invece di smobilitare e di rinviare al lavoro gran parte dei due milioni di soldati sotto le armi, sarebbe necessario distogliere dal lavoro altri milioni di uomini per convertirli in controllori del loro prossimo, dei guadagni, delle spese, del tenor di vita dei controllati. E chi controllerà i controllori?
Il programma di azione del sen. Ferraris contro il caro-viveri è ineseguibile. Se potesse essere eseguito sarebbe nefasto. Speriamo che esso non sia attuato. Ad evitare la nuova sciagura per il paese non possiamo fare a fidanza sull’on. Ferraris. Egli appartiene, oramai invincibilmente, alla confraternita dei progettisti, degli entusiasti. Egli è anzi il più illustre progettista d’Italia. La sua fervida immaginazione si compiace nell’inventare piani di salvazione dell’Italia da tutti i malanni che gravano sul mondo. Che cosa non ha riformato egli sulla carta? Riforma agraria, riforma economica, riforma alimentare, ecc. Tutto a base di 1 commissario centrale, 69 commissioni provinciali ed 8.200 commissioni comunali. È impossibile sperare, col ragionamento e con la enumerazione dei fatti, di convertire un entusiasta ed un progettista.
La responsabilità di impedire che quest’ultima sciagura immane – l’attuazione del programma alimentare Ferraris – si abbatta sul nostro paese è tutta del ministro del tesoro.
Lasci lo Stringher che la gente urli contro di lui; e tenga duro. Se egli ha ceduto all’on. Ciuffelli, il quale voleva libertà nei cambi, ha fatto bene; perché la larva ancora residua dell’Istituto dei cambi era perniciosa. Ma egli non deve dare neppure un centesimo per consentire l’attuazione di un piano fantastico come quello che si legge delineato nell’articolo della «Nuova antologia». Cedere, vorrebbe dire buttare denari dalla finestra, crescere la circolazione già gonfiata oltre misura, inasprire i prezzi, provocare nuovi spostamenti di fortuna e creare nuovi vasti, forse indomabili, malcontenti.
Pensi il ministro del tesoro alla sua grave responsabilità verso il paese, verso l’avvenire e non si lasci commuovere dalle grida artificiose di comizi esasperati e di giornali soffianti nel fuoco. Egli deve dare denari solo per attuare programmi concreti di azione, per scopi singoli, per l’acquisto di merci determinate, di cui sia chiara la convenienza e per cui già si posseggano gli strumenti adatti di vendita. Dar di più sarebbe un delitto di lesa patria, di cui egli solo, il ministro del tesoro, sarebbe responsabile. Perché egli solo ha, tra i ministri che devono decidere, la esperienza e la dottrina necessarie per vedere la inanità ed il pericolo delle politiche alimentari immaginose intorno a cui oggi si fa tanto clamore.
III
Controllo e libertà di commercio
Finalmente, la tesi secondo cui la migliore arma di lotta contro il caro-viveri è la libertà del commercio, è il licenziamento dei commissari sovrastanti ed inframmettitori di Roma, è la abolizione dei vincoli all’importazione ed all’esportazione, dei divieti di traffico interregionale, questa tesi dettata dal buon senso si avvia a trionfare. Ieri, a Milano, in un’intervista con questo giornale, il comm. Gallone dimostrava che, dopo un momentaneo rialzo, la libertà ridonata al burro aveva dato una grande spinta alla produzione e tendeva a far ribassare, tenuto conto del maggior costo del latte, i prezzi al disotto del livello antico. Subito dopo, notizie da Bruxelles narrarono come nel Belgio occupato dal nemico, devastato, privo di risorse, le industrie rifiorissero ed il costo della vita fosse notevolmente scemato, perché i belgi avevano avuto il buon senso di riaprire subito i loro confini, senza vincoli e senza limiti e senza paure di andare in rovina per il rialzo dei cambi, a tutte le importazioni estere ed avevano di nuovo permesso che rapidamente, spontaneamente si riformassero i mercati liberi di una volta. A Milano, in una numerosa adunanza alla prefettura, convocata dapprima partendo quasi dalla premessa che molto si potesse fare agendo contro i depositi occulti, contro gli accaparratori, contro i commercianti disonesti, finì per affermarsi prevalente l’idea che sovratutto occorrono la libertà di commercio, lo spezzamento dei vincoli, la fine degli accaparramenti di stato, il ritorno a condizioni normali di trasporto.
Le condizioni italiane sembrano davvero patologicamente diverse da quelle non solo del Belgio, ma anche di altri paesi, i quali dovrebbero trovarsi in condizioni peggiori delle nostre. Negli alberghi della montagna italiana, è ben difficile trovare pensioni a meno di 30 lire al giorno; e spesso, nei cosidetti alberghi di prim’ordine si va molto più in su. In Svizzera, notizie attendibili dicono possibile trovare pensioni da 5 a 15 franchi a seconda della altitudine e delle caratteristiche degli alberghi. Anche tenendo conto del maggior valore del franco svizzero, i prezzi sono circa la metà di quelli italiani. Il fatto più caratteristico che ho potuto rilevare nelle numerose lettere ricevute in occasione di un mio articolo sulla questione della valuta nelle provincie redente è questo: che il livello dei prezzi in corone al di là della linea d’armistizio è spesso più basso del livello dei prezzi in lire nel regno e nelle provincie redente. «Un pranzo – dice uno di questi corrispondenti – che in uno dei primi alberghi di Innsbruck costa 15 corone, a Milano vale per lo meno 25 lire. Non parliamo poi dei prezzi del legname, della ghisa, ecc., i quali sono al disotto della metà di quelli del regno». Altri soggiunge: «Mentre a Trento una stanza in un modesto alberghetto la si paga 10 e più lire al giorno, un pasto in trattoria 10 e più lire, ad Innsbruck una stanza in ottimi alberghi costa 4 corone, i pasti in trattoria 6-7 corone. Una considerevole differenza nei prezzi la si constata persino nell’Alto Adige, dove i prezzi sono meno della metà di quelli in vigore nel Trentino e nel regno».
La spiegazione di questo fatto misterioso per cui la corona deprezzatissima, la corona la quale vale nei mercati neutri circa un quarto della lira, ha invece in non pochi casi una potenza d’acquisto maggiore della lira, è un po’ complicata a trovare.
Vi è in Italia un fattore che non si può dire particolare al nostro paese, ma che da noi ha una importanza dominante: il commercio non funziona. Le ruote del traffico sono arrugginite, cigolano ed ogni tanto si arrestano. In questo ambiente di disorganizzazione, i commercianti, grossi e minuti, si sono, alla pari di altre classi di cittadini, montata la testa e considerano spregevole qualunque guadagno che non giunga al 100, al 200 per cento del prezzo d’acquisto, a sua volta cresciuto, della merce. Il pubblico si inferocisce contro lo strozzinaggio dei rivenditori ed invoca calmieri, processi esemplari, galera, intervento di stato per guarire gli afflitti dalla malattia dei subiti guadagni. Con ciò aggrava il male; perché i processi, gli interventi statali disorganizzano ancor più il commercio, impediscono a nuovi concorrenti di entrare in un ramo di lavoro dove si corrono i rischi dei colpi di testa popolari e governativi; ed in tal modo si accentua il monopolio dei commercianti esistenti, i quali possono così rialzare ancor più i prezzi.
L’intervento governativo esacerba il male per un altro verso: la paura di perdere dei funzionari di stato. Essi che hanno accaparrato carni congelate a certi prezzi, le vogliono vendere in guisa da non perdere: a 6 lire. Epperciò impongono alla carne fresca calmieri di 7 od 8 lire, affinché questa, ribassando, non annulli la domanda della carne congelata che lo stato ha da vendere. Perciò assistiamo al grottesco fenomeno odierno: che, a causa della prolungata siccità, i contadini sono costretti a vendere le bestie, a cui non sanno cosa dar da mangiare, sicché i prezzi per quintale del bestiame vivo sono precipitati da 40-50 lire a 25. Inoltre, l’Argentina fa offerte di carne congelata a prezzi tali che il commercio potrebbe acquistarla e venderla con profitto a 3,50-4 lire al chilogrammo al minuto. Nossignore: il governo, che ha le sue provviste da vendere, tiene i prezzi su a 6 lire per la congelata ed a 7-8-9 per la carne fresca.
Notizie ancor più strabilianti si leggono sui giornali commerciali rispetto al frumento ed ai cereali in genere. I padreterni di Roma, che sono sempre stati persuasi durante la guerra, di aver salvato l’Italia dalla fame, si sono ora cacciati in testa che, se essi non stipulano convenzioni precise con l’Inghilterra e gli Stati uniti, l’Italia rimarrà priva di grano, di carbone, di ferro, di lana, di cotone, ecc. ecc. Epperciò impediscono – negando cambi, disturbando contratti di noleggio, vietando importazioni – ai commercianti privati di comprare dove ad essi meglio aggrada. Accade così che l’Italia governo compra cereali negli Stati uniti a prezzi d’imperio esagerati, mentre nell’Argentina il granoturco è talmente deprezzato da venire usato come combustibile. Il governo seguita ad indebitarsi per grosse somme, per la paura che il commercio privato non sappia cavarsela a pagare le importazioni a prezzi minori.
È ora di farla finita con tutte queste superstizioni medievali. Ministri, direttori generali, commissari, prefetti comprino una edizione economica – ce ne sono ancora! – dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni e la leggano nei momenti d’ozio, la tengano sullo scrittoio, la collochino di sera vicino al capezzale, per le ore di insonnia. È uno dei migliori trattati di economia politica che siano mai stati scritti. Meditino le parole piene di verità e di buon senso del grande ambrosiano, e si decidano a levarsi fuori dei piedi per quanto si riferisce al commercio privato. Faccia il governo il suo mestiere ed i cittadini faranno il loro.
Il mestiere del governo è di ristabilire la libertà di comprare e vendere, di consentire a chi vuole di avere cambi da chi glieli vuol vendere senza nessun controllo governativo; di togliersi di mente l’ubbia stravagante di essere lui solo capace a comprare facendo debiti paurosi e di negare al commercio la capacità, che viceversa ha sempre posseduto, di impegnarsi a comprare solo quando sa come pagare. Il governo deve far correre i treni sulle ferrovie, impedire le manomissioni, i furti, i ritardi, indennizzare a pronta cassa gli speditori danneggiati, curare che il servizio dei porti di Genova, Savona, Livorno, Napoli proceda pronto e spedito e poco costoso. Invece di dar pranzi a commissari americani per persuaderli con brindisi che nel porto di Genova tutto procede nel migliore dei modi possibili, il ministro dei trasporti vada a Trieste e si informi de visu delle ragioni per cui a Trieste le persone pensanti, amorose dell’avvenire del loro porto, nulla hanno temuto tanto quanto l’introduzione a Trieste dei metodi di lavoro e dei sistemi di disorganizzazione governativi vigenti nei porti italiani e su nulla hanno insistito tanto come sulla conservazione dei loro metodi di governo locale e indipendente del porto.
Quando il governo avrà spalancato le vie del commercio internazionale, riorganizzato i porti e ridotto i costi delle operazioni di scarico e carico, quando i trasporti saranno di nuovo rapidi, non si può dubitare che anche il commercio tornerà a funzionare. Il miglior modo, l’unico modo efficace di guarire i rivenditori dalla malattia mentale epidemica di caricare del 100 o 200% i prezzi d’origine, è di permettere a tutti di guadagnare assai comprando altrove la merce e vendendola al ribasso. Quando la gente accorta si persuaderà essere possibile e conveniente comprare in Argentina la carne congelata a 2,50 e venderla a 3,50 in Italia; quando vedrà che in questa maniera è possibile portar via la clientela a chi si ostina a tenere i prezzi a 6 e 7 ed 8 lire, non vi ha dubbio che i prezzi, senza calmieri, senza processi, senza comizi, senza adunanze in prefettura – oh! immortali capitoli XII e seguenti di Alessandro Manzoni, perché siete letti e poi dimenticati solo dai ragazzi del ginnasio? – capitomboleranno e la vita tornerà a buon mercato. Non al buon mercato di prima della guerra, perché in tutto il mondo il livello dei prezzi è permanentemente salito. Ma chi non si augurerebbe di poter fare i propri acquisti a prezzi soltanto doppi di prima?
IV
I tumulti popolari e il dovere del governo
L’incendio che si è acceso a Forlì si va allargando or qua or là in varie parti d’Italia. Tumulti sui mercati, banchi di verdura e cesti rovesciati, botteghe prese d’assalto e in breve ora vuotate di ogni ben di Dio, folle che si dividono provviste e se le portano a casa, folle che «requisiscono» e con forme arieggianti a legalità trasportano alla camera del lavoro la roba requisita; commercianti che, presi dalla paura di perdere tutto, si affrettano a ridurre del cinquanta per cento i prezzi oltre a mettere la merce a disposizione della camera del lavoro e dei comitati di agitazione; prefetti e sindaci che tornano a pubblicare calmieri; governo che annuncia provvedimenti; ecco, in breve riassunto, il quadro degli avvenimenti che si vanno verificando in varie parti d’Italia.
Essi devono far riflettere e devono spingere ad agire quanti sono cittadini riflessivi e uomini pubblici consapevoli della loro grande responsabilità. Va da sé che i tumulti e le invasioni di botteghe e i rovesciamenti di banchi di verdura non possono risolvere il problema del caro-viveri. Distruggere e sperperare la poca roba che c’è non può far nascere l’abbondanza e non può far scemare i prezzi, che sono saliti per la scarsità della merce relativamente all’abbondanza dei mezzi per acquistarla. Tutt’al più i tumulti e le «requisizioni private» possono far scappare i contadini i quali venivano in città a portare uova e pollame e frutta e verdura per comperare scarpe, abiti, condimenti, ecc. Il sistema, inaugurato a Imola, di girare per le campagne in automobile per requisire pollame e derrate agrarie, può riuscire in un primo giorno di sorpresa; ma alla lunga si spunta contro l’abilità dei contadini a far scomparire ogni traccia delle cose da essi possedute. La continuazione dei saccheggi e delle requisizioni non può non produrre in Italia il medesimo risultato che già si ebbe in Russia e in Ungheria: la scomparsa delle derrate alimentari dai mercati cittadini, il rifiuto di vendere da parte dei contadini e l’affamamento delle masse operaie, e sovratutto medio-borghesi, della città. Peggio. Se il sistema attecchisse, sarebbe minacciata la produzione. È vero che gli alberi producono da sé le ciliege e le galline fanno le uova anche in tempi di caro-viveri; ma il costo delle ciliege è sovratutto dato dalla fatica della raccolta e il contadino preferisce lasciare il frutto a marcire sull’albero se il prezzo non gli permette di acquistare tanta roba necessaria per lui, che franchi le spese della raccolta; e le galline fanno per il becco, come dice un proverbio sapiente; né conviene fornir loro il cibo se le uova non hanno un prezzo remuneratore. Se si faranno mettere sul mercato le uova che i negozianti vanno accumulando, correremo il rischio di ripetere l’esperienza recente della passata guerra, quando tanto si gridò contro gli accaparratori di uova non riflettendo che le galline non hanno per abitudine di fare le uova d’inverno; sicché è assolutamente necessario fare gli ammassi d’estate, se non si vuole che d’inverno le uova valgano due lire l’una.
Dunque non c’è nulla da fare contro il caro-viveri? Sarebbe ingiustificato rispondere di no. Già fu detto pochi giorni fa come al governo spettasse il dovere di spalancare le porte della importazione, di riattivare i trasporti, di far funzionare i porti, di non tenere esso con una politica miope alti i prezzi delle derrate di cui esso ha forti riserve. Qualcosa si è ottenuto: il prezzo delle carni congelate è stato ridotto a 5,50 e, dicesi, senza perdita per l’erario. Non basta. Dicono persone esperte che le carni congelate si possono, senza perdita, importare a 3 lire e vendere a 3,50 e 4 lire. Consenta il governo che, se ciò è possibile, sia fatto dai privati a loro rischio. Si avrà il vantaggio di non rimanere con forti rimanenze di carni congelate invendute per la preferenza dei consumatori per le carni fresche che la siccità costringe a vendere a 6 e 7 lire. Faccia lo stesso per i cereali, di cui pare ci sia grande abbondanza in Argentina, e per lo zucchero, che dicesi si possa avere a 70 centesimi di meno ove sia possibile comprarlo all’estero.
La roba non potrà venire né in un giorno né in un mese; ma l’annuncio della prossima venuta, la semplice notizia della possibile importazione basterà ad esercitare un calmiere benefico sui prezzi.
Giova però riconoscere che questi provvedimenti non riguardano le derrate su cui si è di questi giorni maggiormente sfogata l’ira popolare: uova, pollame, verdura fresca, frutta fresca. Tutto ciò non viene dall’estero, ma è di produzione paesana. Tutto ciò, di solito, non è per la maggior parte fornito dal gran commercio, né con l’importazione da lontane provincie, ma è per lo più oggetto di forniture locali con carri e carrette da parte del contado più vicino a ogni grande o piccola città. Senza voler dimenticare le forniture di agrumi della Sicilia, di legumi che vengono anche da lontano, è bene ricordare che le uova e il pollame e la verdura fresca e la frutta di stagione sono provveduti ai cittadini dagli agricoltori viventi entro un raggio più o meno esteso attorno alla città consumatrice. Il rapporto e quindi il contrasto fondamentale è tra il contadino produttore e il cittadino consumatore. Tuttavia, se il contrasto si riducesse a questo, non sarebbe irreparabile né darebbe luogo a reazioni troppo violente da parte delle masse cittadine. Il contadino non si fa scrupoli a vendere le uova a una lira l’una, se ci riesce; si limita a brontolare quando le deve cedere, come accadeva oramai, a 40 centesimi; ma preferirebbe di ammazzare la gallina se il prezzo cadesse a 20 centesimi e restassero alti i prezzi dei cereali con cui alimentare la gallina e quelli delle merci da lui acquistate col ricavo della vendita delle uova. C’è insomma un largo margine di trattative col contadino.
Disgraziatamente, tra il contadino e il consumatore si sono intrufolati troppi intermediari. La roba passa attraverso parecchie mani di raccoglitori, di grossisti, di rivenditori, prima di giungere sul desco del consumatore. Noi non abbiamo alcun partito preso contro gli intermediari, contro i negozianti, utilissimi quando adempiono a una funzione necessaria e quando per compierla si limitano a chiedere una rimunerazione adeguata alla loro iniziativa, ai rischi corsi, al lavoro prestato. È impressione però diffusissima, quasi generale, probabilmente esatta, che i costi della intermediazione siano divenuti eccessivi, che troppa gente si sia messa a fare il comodo mestiere dell’intermediario e dell’esercente; che troppi uomini invece di lavorare e produrre trovino comodo di vivere guadagnando provvigioni e differenze col far girare le merci da una mano all’altra. Il comodo del pubblico è una gran bella cosa, ma il numero delle botteghe e delle rivendite è divenuto eccessivo. La colpa è un po’ del pubblico che vuole il fornitore sull’uscio di casa e favorisce la moltiplicazione degli intermediari. Ma una certa responsabilità l’hanno anche coloro i quali trovano elegante vivere stando dietro a un banco, invece che lavorare nelle officine o rivoltare la terra. L’hanno i produttori che concedono crediti facili, le banche e le banchette che favoriscono il sorgere di innumerevoli esercizi e negozi. Con una vendita limitata le spese generali sono molte e gravano sui prezzi, i quali salgono, poco giovando la concorrenza di negozi più in grande, che non possono espandersi, ribassando i prezzi, per lo sparpagliamento della clientela.
Pare che il governo intenda provvedere al caro-viveri istituendo consorzi a cui parteciperebbero produttori e consumatori. È difficile farsi un’idea del progetto quando non se ne conoscono i particolari precisi di applicazione. Auguriamoci che non si tratti dei soliti meccanismi governativi a cui sono preposti uomini non aventi alcuna dimestichezza col commercio. Non basta saper consumare, o saper produrre cavoli e albicocche, fagioli e ciliege, per saperle vendere, conservare, presentare. I consorzi possono essere un malanno nuovo aggiunto agli antichi quando siano una ruota di più nel meccanismo intermediario. Bisogna sveltire questo meccanismo, renderne piano e rapido il funzionamento. Ecco il compito principale delle autorità.
Il governo deve far correre i treni sulle rotaie, deve far funzionare i porti. Deve anche far funzionare i mercati dove si vendono uova, pollame, verdura, frutta. Più che il governo, devono di questa faccenda occuparsi i municipi. Il mercato non deve essere considerato solo come un luogo, coperto o no, dove un certo numero di venditori ha un posto fisso e la facoltà di vendere, e dove si aggirano guardie di città per impedire le risse e per elevare contravvenzioni contro la verdura guasta. Il mercato è qualche cosa di più. È un luogo pubblico dove il diritto di vendere è prezioso e quindi può essere regolato dal municipio a seconda di norme che esso deve far osservare.
Quali sono queste norme da osservarsi per fare in modo che il mercato sia il luogo dove si incontrano produttori e consumatori, attraverso il numero minimo di intermediari? Bisogna rispettare la libertà di chi contratta: è la condizione essenziale affinché le derrate si producano e arrivino abbondanti dalle campagne. Bisogna fare a meno di calmieri irrazionali che mettono in fuga i contadini ed esacerbano la carestia. Ma non c’è nessun male che il municipio nei mercati suoi imponga disciplina per la vendita. Non c’è nessun male, anzi, c’è molto bene, se l’assessore all’annona invigili di persona e faccia vigilare meglio da esperti municipali che le contrattazioni avvengano da rivenditore a consumatore espellendo i bagarini, impedendo il moltiplicarsi delle ruote inutili. È un lavoro questo che riesce solo se eseguito con costanza, con abilità, con pertinacia. Non bisogna stancarsi, non bisogna interrompere mai l’opera incominciata. I bagarini, gli intermediari inutili, piantino la loro sede altrove. Nei mercati pubblici norme severe e severamente eseguite devono attrarre il pubblico, assicurandolo che esso si trova di fronte a negozianti genuini, seri, che comprano direttamente dai produttori, che si contentano di una modica percentuale, che guadagnano col largo smercio.
Creare mercati di questo genere non è impresa impossibile. Occorrono energia, buona volontà e perseveranza. Osiamo dire che l’opera dell’autorità dovrebbe essere aiutata sovratutto dalla classe intermediaria medesima, la quale deve persuadersi che essa può prosperare durevolmente solo se è capace di organizzarsi in guisa da rendere servizio ai consumatori al minimo costo possibile.
V
Disciplina degli approvvigionamenti
Le difficoltà in mezzo a cui si deve svolgere l’opera del governo, le richieste che d’ogni parte si rivolgono al sottosegretario agli approvvigionamenti ed ai consumi, on. Murialdi, meritano di essere giustamente apprezzate nel dare un giudizio del programma di azione che il governo ha annunciato, sia nell’intervista, concessa al «Corriere della Sera», come nel suo comunicato odierno, di voler svolgere contro il caro-viveri. Anche dissentendo in tutto od in parte dal programma governativo, fa d’uopo riconoscere che l’opera di chi in questi momenti si trova al governo non è agevole né può essere tale da procacciare successo pronto e lodi sicure.
Comincio col compiacermi che talune idee fondamentali e semplici siano riuscite a farsi esporre da uomini di governo, mentre qualche tempo fa sembravano eresie. Il governo è favorevole «in principio» alla libertà dei traffici. Ammette che lì si trova il vero rimedio. Non l’accetta «in pratica» per ragioni politiche e transitorie. È poco; ma è già un bel progresso, da quando in bollettini ufficiali si schernivano i ricordi di Alessandro Manzoni e si dichiarava che gli ammonimenti degli economisti erano prediche antiquate, non rispondenti ai tempi nuovi. Oggi si ha almeno la soddisfazione di sentirsi dar ragione per l’avvenire, quando le cose saranno quiete. Non siamo più passatisti, sebbene si rinvii l’ossequio alla scienza ad un avvenire lontano.
Anche il governo vede chiaramente:
- che i tumulti non hanno per virtù di far crescere uno spigo di grano e di far deporre un solo uovo in più; mentre invece distruggono anticipatamente partite di merci che domani faranno difetto;
- che nessun miracolo è possibile in materia di approvvigionamenti; e che la gradualità, la lenta evoluzione verso il meglio sono ferree necessità a cui non è possibile sottrarsi;
- che è pericoloso e privo di buon senso chiedere al tesoro sacrifici di centinaia di milioni, di miliardi di lire all’anno per far ribassare i prezzi. Chi è il tesoro se non i contribuenti? Come si pagano i bassi prezzi se non con le alte imposte? Non è contradittorio pretendere i prezzi sotto costo e non voler le imposte necessarie a colmare la perdita? L’on. Murialdi si è finalmente deciso a confessare che il tesoro italiano perde ogni mese 200 milioni, ogni anno 2 miliardi e 400 milioni di lire per mantenere il pane ad un prezzo inferiore al costo, per farlo pagare 80 centesimi circa invece di 1,20. La spesa è terrificante; ed è impossibile seguitar su tal via. Tutti gli stati che hanno abbracciato questo partito, stanno per abbandonarlo. Anche l’Italia dovrà abbandonarlo, se non si vuole che lo stato corra al fallimento e che i contribuenti, che tutti i contribuenti siano schiacciati sotto imposte impossibili a sostenersi.
Per aver detto queste semplici verità: che le distruzioni non creano l’abbondanza – che il ritorno a condizioni normali non può in nessun modo essere improvviso – e che le merci non possono essere vendute sotto costo, il governo merita lode. Forse la parte più solida del suo programma si esaurisce in questi insegnamenti, non nuovi, ma sempre utilissimi. Chi è persuaso che le azioni degli uomini sono mosse dalle idee e dai sentimenti, non può disconoscere l’efficacia di una parola autorevole e sennata a spingere gli uomini sulla via della saggezza.
Certamente non fu savia la condotta di coloro che tumultuariamente imposero riduzioni così forti nei prezzi da costringere i venditori a perdere ed a non più rifornirsi. Il governo ha l’aria di dire: questo è un fatto. Un fatto dannoso, che io non lascerò più ripetere, che reprimerò, mantenendo energicamente l’ordine turbato. Ma è un fatto da cui io, governo, non posso fare astrazione. È un fatto che mi costringe ad imporre calmieri, equi e ragionevoli, allo scopo di restituire i prezzi al loro livello naturale, minore di quello esistente pochi giorni fa, maggiore di quello sotto costo imperante oggi. Auguriamoci che le cose stiano effettivamente così: e che la politica dei calmieri sia in effetto un mezzo di governo, con cui si cerca di ristabilire l’equilibrio, così da evitare il massimo tra i mali: la mancanza delle derrate sui mercati cittadini, mancanza che sarebbe fomentatrice di carestia, di fame e di torbidi peggiori degli attuali. Vedremo ben presto se davvero il governo avrà saputo adoperare bene l’arte sua, che è arte di ottenere un risultato benefico, adoperando talvolta strumenti disadatti ed imperfetti.
Quella che non ci affida è la politica sostanziale del governo. Attraverso a molte belle parole per la libertà del commercio, si viene in sostanza a dire che questa non si può ammettere, che anzi bisogna fare un ritorno momentaneo alla regolamentazione, alla gestione, all’intervento di stato perché:
- il tonnellaggio è scarso, e le poche navi lasciate libere cadrebbero nelle mani di privati monopolisti;
- le ferrovie funzionano male;
- è difficile procurarsi la valuta per pagare gli acquisti all’estero;
- l’organizzazione commerciale esistente è stata distrutta dalla guerra ed a mala pena si va ora ricostituendo;
- il temperamento italiano è impaziente e vuole quelle che si dicono «realizzazioni» immediate.
Se queste sono, come in gran parte è vero, le cause del male, perché non adoprarsi a farle scomparire? Perché non cercare di agevolare in ogni modo il noleggio di navi? Perché non fare ogni sforzo per far funzionare ferrovie e porti? Perché non permettere ai privati di procacciarsi crediti, ovunque lo possano, all’estero? È assurdo pensare che il governo debba da solo continuare a far debiti all’estero. Inghilterra e Stati uniti stanno chiudendo i loro conti con noi. Fa d’uopo tornare a trattare da privato a privato. È assai meno pericoloso per l’avvenire; più sano ed atto ad inspirare fiducia all’estero.
Può darsi che appena ora il commercio privato andasse riorganizzandosi. Che bel modo però di sveltirlo è questo che lo strozza nuovamente e lo sottopone a nuovi vincoli, quando appena si è svincolato dagli antichi! Può darsi che il temperamento italiano sia pronto ed impaziente. Forseché però i padreterni di Roma hanno dimostrato di avere tale capacità di immediate realizzazioni da fronteggiare con successo le impazienze di quel tale temperamento?
In realtà, ci muoviamo pur sempre sulle vecchie rotaie dell’economia di guerra: consorzi di approvvigionamento, contingentamenti, commissioni di ripartizione, accertamenti di costi, associazioni di fabbricanti, giunte ministeriali, subcomitati di industriali e di organizzazioni di consumatori. Sono i vecchi istituti, che hanno dato così mala prova di sé durante la guerra, decorati con nuovi nomi. Per evitare i paventati monopoli, si costituiscono frattanto veri monopoli, col nome di consorzi, a cui partecipano i fabbricanti in titolo, le cooperative ed i commercianti a cui verrà largito il diploma del dignus intrari. È questa, della organizzazione, della disciplina, una vecchia idea dell’on. Nitti, manifestata fin da parecchio tempo prima della guerra, resa canone di governo dal Giuffrida, il quale durante la guerra volle essere il vero e l’unico regolatore della economia italiana. È un’idea spiccatamente tedesca, del tedeschismo cattivo stile, che condusse quel paese alla rovina. La guerra dimostrò quanto valgano lo spirito di iniziativa, le energie libere; ma, imperterriti, in Italia ed all’estero, gli adoratori della organizzazione colgono ogni pretesto per inculcare ai popoli il verbo della necessità di unirsi, di consorziarsi, di disciplinare se stessi ed il paese. Qualunque pretesto è buono per coloro che hanno il temperamento del padreterno per bandire il vangelo dell’unione, del consorzio, della federazione, della cooperazione. Il che vuol dire che l’industria, che il commercio sono sottoposti ad un ristretto numero di industriali e di capi di cooperative meglio romanizzati, meglio capaci di mettersi d’accordo con i faccendieri onnipotenti dei ministeri.
Questa è una politica che non può non destare le più gravi preoccupazioni. Si è detto a perdifiato che occorre dar aria e luce; che occorre togliere la bardatura di guerra. Viceversa, al primo allarme, si ricrea una organizzazione più mastodontica di quella che a stento andava scomparendo tra gli improperi di tutti ed i cui risultati non potranno non essere diversi da quelli di prima.
Ammetto volontieri che i saccheggi ed i calmieri per ordine di popolo siano un fatto da cui non si può astrarre. Ammetto che l’ordine pubblico non si possa ristabilire se non commettendo qualche consaputo errore. Ma questi siano ridotti al minimo possibile. Ma il governo si decida finalmente a seguire l’unica via pratica che è quella di fare il mestier suo, di fare le sole cose che può far bene, lasciando fare le altre a coloro che hanno competenza ed abilità in materia. L’energia che il governo vuole adoperare a stampigliar scarpe e tessuti, ad impedire che i casari producano burro e formaggio invece che vendere il latte, a costituire consorzi, giunte, commissioni, e simili imbrogli, perché non l’adopera a far sì che il porto di Genova funzioni come l’olio, a non lasciar mancare il carbone alle ferrovie, a non lasciar requisire le navi di Trieste per viaggi agli antipodi? Perché tutto questo affannarsi attorno al burro, al formaggio, all’olio, ai merluzzi ed ai pesci salati quando l’occasione agli odierni tumulti furono le verdure, la frutta, le uova ed altre derrate agricole prodotte e vendute al minuto? Forseché queste derrate che ora, nei mesi caldi d’estate, sono le più appetite dalla popolazione, assai più della roba salata, non si prestano bene a giunte, a consorzi, ad organizzazioni facenti capo a Roma? Qui par davvero che ci sia un chiodo fisso nella testa di qualcuno. Il popolo chiede verdura e frutta; e l’uomo che ha il chiodo fisso della organizzazione risponde: vi daremo i consorzi e le giunte della lana, del cotone e del cuoio con sede a Roma, presso il ministero dell’industria.
VI
La necessità delle scorte
«La roba c’è; ma la nascondono gli incettatori e perciò aumenti di prezzo»: ecco una affermazione che si sente ripetere comunemente a spiegazione degli alti prezzi. La spiegazione spiega pochissimo e può trascinare ad errori irreparabili.
La vista di botteghe ricolme di ogni ben di Dio, la constatazione di grosse partite di merci depositate in qualche magazzino possono facilmente indurre in errore. Se quelle grosse cifre si ripartono tra gli abitanti di una città, si vede subito che esse si risolvono in quozienti piccolissimi, quasi evanescenti per ogni abitante. Le riserve compiono una funzione essenziale nell’alimentazione e nell’approvvigionamento di un paese. Se non ci fossero riserve, saremmo ad ogni tratto in pericolo di fame. Anche in tempi normali, in cui i trasporti funzionano perfettamente, occorre che ci siano ammassi disponibili di merci, perché mentre la produzione avviene a periodi irregolari, il consumo è continuo. Prendasi il frumento, prendasi il vino. La mietitura e la vendemmia si fanno in luglio ed in ottobre, una volta sola all’anno. È necessario che ci siano granai e cantine pieni e che questi si vuotino solo a poco a poco, se si vuole che i consumatori possano mangiare e bere per tutto l’anno. L’esistenza di ammassi anche colossali di grano o di cantine ben fornite non vuol dire che ci sia abbondanza. Può anzi essere perfettamente compatibile con una grande scarsità. Per quanti giorni debbono ancora servire quegli ammassi? Per quanti uomini? Può darsi che, fatta la divisione, il quoziente risulti scarso ed occorra fare molta economia se si vuole arrivare sino alla fine dell’anno, sino al nuovo raccolto.
Quegli ammassi non possono rimanere tutti presso il produttore. Spesso, sarebbero troppo lontani dal consumatore. Il frumento occorre sia a poco a poco versato ai mugnai e di qui ai negozianti di farina e ai fornai. A mano a mano che questi ultimi vuotano da una parte i loro magazzini colla vendita del pane, occorre che entri altrettanta farina dall’altra parte. Il fornaio non può essere sicuro di servire bene, correntemente la clientela, se non ha una scorta di farina per almeno due o tre giorni, meglio per una settimana, a sua disposizione. A loro volta i magazzini di rifornimento, i negozianti di farine della città debbono avere una scorta bastevole per una settimana, per quindici giorni. Altrimenti, se i mulini si arrestassero, se ci fossero difficoltà nei trasporti, come essi potrebbero rifornire i fornai? I mulini debbono avere scorte ancor più grosse: sia perché i contadini e i proprietari spesso vogliono vendere il loro raccolto prima dell’inverno, sia perché , potendo diventare, per nevi o piogge, le strade di campagna impraticabili, i mulini dovrebbero interrompere il lavoro se non avessero bastevoli scorte disponibili.
Così è per le farine e così per il vino, per l’olio, per i formaggi, per qualunque merce non deperibile. Per i formaggi è noto come le scorte dovrebbero talvolta uguagliare il raccolto di parecchi anni. Certe qualità di formaggio diventano buone solo dopo un anno o due. Quindi è evidente che dovrebbero sempre conservarsi scorte imponenti; e queste non vorrebbero affatto dire che ci sia straordinaria abbondanza, potendosi immettere nel consumo solo la parte più vecchia delle scorte.
Talvolta, le scorte sono impossibili, come per le derrate deperibili: verdura e frutta. In tal caso occorre che i trasporti dagli orti e dai frutteti della campagna funzionino in modo rapidissimo; fa d’uopo che ogni mattina migliaia e migliaia di carri e carretti partano dalla campagna e si rechino in città, ciascuno al suo posto stabilito, ciascuno dal negoziante con cui è in rapporti di affari, se si vuole che l’alimentazione della città proceda spedita. Il meccanismo del commercio delle derrate alimentari non si improvvisa. Fu creato attraverso anni e decenni di esperienze accumulate, di rapporti ininterrotti di affari. Si è formata una categoria di persone pratiche del mestiere, le quali sanno a quanto debbano giungere gli ammassi dei grossisti, dei fabbricanti, dei dettaglianti, come essi si debbano svuotare, come si possano colmare quelli deficienti, a chi si debba ricorrere per rifornirsi. Costoro intuiscono le prospettive di abbondanza e di scarsità e vuotano o riforniscono per tempo in corrispondenza i depositi. Tutti sono mossi dal desiderio del guadagno, è vero, ma intanto agiscono assai più efficacemente e più rapidamente di quanto abbia fatto il governo durante la guerra con i suoi censimenti, lenti e sbagliati, con le sue requisizioni, con i suoi ammassi in locali disadatti, con la sua roba andata a male.
Ad ogni modo, è bene ripetere che la frase: «la roba c’è» non ha alcun valore per concluderne che c’è abbondanza. Le scorte, anche se a prima vista paiono amplissime, possono essere appena in grado di salvare il paese dalla fame. Affrettarne il consumo, disperderne prima del tempo anche una piccola parte può essere un delitto che si sconterà domani con la carestia vera, irreparabile.
La domanda essenziale a cui bisogna rispondere è questa: le scorte sono oggi così larghe che si possa ritornare alla larghezza di consumi che si aveva prima della guerra?
Mancano i dati per poter rispondere alla domanda. Il governo, il quale ha una organizzazione statistica, dovrebbe decidersi a pubblicare i dati che sono a sua disposizione: arrivi giornalieri nei porti, giacenze, inoltri ferroviari, giacenze nei magazzini generali delle città. Gioverebbero assai per illuminare l’opinione pubblica.
Fu comunicato or ora che il governo possedeva scorte di tessuti di cotone per 15 milioni di metri e di scarpe per 700 mila paia. Le cifre parvero a taluno enormi e si gridò : perché il governo teneva nascosto tutto questo po’ po’ di roba? Ma, se si analizzano le cifre, si vede subito che trattasi di scorte modestissime. A 35 milioni di abitanti, i 15 milioni di metri di stoffa danno 43 centimetri a testa; e le 700 mila paia corrispondono ad un cinquantesimo di paio di scarpe per abitante. Nulla che possa legittimare un consumo men che prudente e parsimonioso.
Qualche altro indizio, in mancanza di dati precisi, consiglia la medesima prudenza. L’on. Murialdi ha affermato che si corre pericolo di non aver latte nel prossimo ottobre perché i casari hanno maggiore convenienza a produrre burro e formaggio. Ciononostante, non si nota davvero nell’abbondanza né del burro né del formaggio. La verità è che le vacche da latte sono diminuite di numero, per la distruzione che se ne è fatta senza criterio durante i primi anni di guerra; e la presente siccità ha aggravato singolarmente la situazione. Oggi, non avendo erba a sufficienza, si ammazzano vitelli troppo giovani e, per mancanza di latte, non si ingrassano a dovere. Per il momento, la carne non fa difetto e può essere venduta a prezzi tollerabili. I nuovi prezzi di calmiere, anche ribassati, non sono disformi dai prezzi della carne viva. Ma tra qualche tempo, fra un anno, se la siccità non si ripeterà nella primavera del 1920, è probabile che la carne viva giunga di nuovo a prezzi fantastici. Le scorte di bestiame sono assai ridotte e per ricostituirle saranno necessari parecchi anni. Taluni pratici dicono persino cinque o sei. Fino a quel momento, il consumo della carne dovrà rimanere ridotto, sul piede di guerra, se vorremo ricostituire il nostro capitale bestiame.
Qualche dato approssimativo sulla entità delle scorte mondiali si può desumere dalle statistiche dei cereali pubblicate dall’Istituto internazionale di agricoltura a Roma. Risulta dall’ultimo bollettino di giugno che al 10 maggio 1919 esisteva nel Canada una scorta di 10,8 e negli Stati uniti di 12,1 milioni di quintali di frumento, oltre ad 1,5 milioni di quintali di granoturco in ambedue i paesi presi insieme. Sembrano cifre rilevanti, espresse così in milioni di quintali. Ma a quale fabbisogno debbono far fronte? Innanzi tutto al consumo interno del nord America; che, grosso modo, potremmo supporre compensato dalle importazioni che l’Europa potrà ottenere dall’India, Argentina ed Australia. Anche supponendo tuttavia che tutti quei 23 milioni circa di quintali di frumento siano disponibili per l’Europa, bisogna riflettere che nei quattro mesi dal maggio all’agosto – e prima della fine d’agosto è difficile che il nuovo raccolto giunga ai consumatori sotto forma di pane e di paste alimentari – l’Inghilterra usa importare da 14 a 25 milioni di quintali, la Francia da 5 a 7, l’Italia da 6 a 7, la Spagna da 0,3 a 1,2, la Svezia circa mezzo milione, la Svizzera da 0,4 a 1,5 milioni di quintali. Ed ora, tolto il blocco, Germania e paesi ex austriaci faranno anche sentire la loro domanda. Le scorte non sono dunque eccezionalmente abbondanti. Tutt’altro. Occorre fare in modo da razionarne il consumo con grande avvedutezza e con grande spirito di sacrificio, se non si vuole ridursi negli ultimi mesi a razioni di fame.
VII
Il giusto prezzo
Un recente decreto ha risuscitato una vecchia idea che nel medio evo era diffusissima, esposta nei libri dei sapienti ecclesiastici, inculcata da papi e bandita da principi, ma poi venne in discredito per merito o colpa degli economisti, i quali la posero in ridicolo in modo che parve non dovesse risuscitare mai più: l’idea del giusto prezzo. Oggi quella idea o quella parola risorge a vita legislativa e la vediamo introdotta nel testo di un decreto.
Naturalmente, la introduce senza definirla, perché il compilatore del decreto ben sa che, se avesse dovuto definire l’idea del giusto prezzo, avrebbe incontrato difficoltà insuperabili. Perciò preferisce lavarsene le mani e lasciare il compito dell’applicazione a prefetti, sindaci, commissioni che, almeno, avranno quasi sempre il beneficio di ignorare le discussioni fattesi in passato sull’argomento e se faranno molte sciocchezze, le faranno nella più perfetta e candidissima buona fede.
Già i prezzi «giusti» sanciti negli innumerevoli calmieri pullulati improvvisamente di questi giorni in Italia stanno producendo i loro soliti inevitabili effetti. Ogni sindaco ha una sua propria idea di quello che sia il «giusto» prezzo delle uova: qua 2, là 3, altrove 4 lire la dozzina. E di nuovo si verifica il medesimo inevitabile fatto che s’era visto durante la guerra: che le uova tendono ad andare dove il prezzo è a 4 o forse a non andare in nessun posto, se i contadini non ritengono quel prezzo remunerativo. Per non far rimanere le città senza uova, si decretano requisizioni nei depositi esistenti, consumando le riserve per l’inverno; si stabiliscono divieti di esportazione da città a città, da provincia a provincia; si ricrea quella bardatura di guerra, che tanto fastidio aveva dato e tanti inconvenienti aveva prodotto, sicché s’era tirato un gran respiro quando appena avevamo cominciato a liberarcene.
In verità la storia non è davvero maestra della vita, se gli uomini si scordano dei suoi ammaestramenti a distanza appena di due anni, di tre anni! Chi non rabbrividiva al ricordo delle code che appena ora andavano scomparendo? Ora le code torneranno e più lunghe, più irritanti, più fastidiose di prima. Effetto inevitabile dell’idea del giusto prezzo, tanto difficile a definirsi, che nessuno vorrà interpretarla nello stesso modo del vicino.
Se si cerca di dare a quell’idea un contenuto, si possono avere parecchie soluzioni fondamentalmente diverse. Per molti, il «giusto» prezzo è quello che il consumatore «può» pagare, dati i suoi mezzi, senza essere ridotto a privazioni eccessive. Ma, così interpretata, l’idea è assurda; perché i mezzi dei consumatori sono diversissimi, e quello che l’uno può agevolmente pagare diventa un prezzo insopportabile per un altro. L’impiegato a 300 lire al mese, che deve mandare agli studi i figli, come può pagare il prezzo che agevolmente paga l’operaio con 20 lire al giorno e con il figlio che già lavora e porta denari in casa? Il professionista, con 20.000 lire all’anno come può pagare i prezzi che sono comodissimi all’arricchito di guerra? Considereremo come «giusto» il prezzo che può pagare il più povero dei consumatori, il lavoratore con 5 lire al giorno, supponendo che di queste arabe-fenici ce ne siano ancora od il pensionato o la vedova con piccolo reddito di 100 lire al mese come, purtroppo, ce ne sono moltissimi? Vorremo cioè prezzi giusti per la piccola borghesia, questa oramai ultima tra le classi sociali, la quale ha dato tanti figli alla patria e non trova neppure la forza di attirare su di sé l’attenzione dei governi, ipnotizzati da quel proletariato industriale che dalla guerra non subì certo alcun danno economico? Andremo incontro, così facendo, a due inconvenienti: il primo, che quei prezzi giusti per la piccola borghesia saranno troppo bassi per gli operai e bassissimi per gli industriali, i commercianti, i professionisti agiati; il secondo, che per lo più quei prezzi saranno inferiori al costo di produzione e faranno sì che i produttori non avranno più convenienza prima a vendere e poi a produrre. Quei prezzi organizzeranno la carestia, che è un malanno assai peggiore degli alti prezzi.
Altri riterrà che «giusto» prezzo sia quello che compensa le oneste fatiche del produttore, abolendo i profitti degli speculatori e dei commercianti; quel prezzo che dà al contadino un compenso equo per l’allevamento delle galline, la raccolta delle uova ed il trasporto al mercato, senza alcuna aggiunta, neppure del fitto della terra al proprietario fondiario. Anche questa interpretazione praticamente è assurda. Non vi sono due costi di produrre la medesima merce i quali sieno uguali l’uno all’altro. In un caso la terra è fertile, nell’altro è sterile; l’una è bene esposta, a mezzogiorno, l’altra, a mezzanotte, non vede quasi mai il sole; l’una è bassa, soggetta ad umidità, alla ruggine, all’allettamento dei cereali, l’altra è asciutta e ventosa; l’una patisce la siccità e l’altra gode di una regolare irrigazione. Peggio, se si guarda agli elementi personali della produzione. Vi è il contadino o la contadina intelligente, laboriosa, atta ad utilizzare tutti i sotto prodotti ed i residui, la quale ha tornaconto, anche oggi, a vendere le uova a 3 lire. La vicina sua tuttodì si lamenta di non riuscire a rifornire la tavola di sale, olio, condimenti – si sa che in campagna la vendita delle uova e dei prodotti della bassa corte deve servire a provvedere alle minori spese della tavola ed alle minute spese della massaia – anche se vende le uova a 5 lire. Le sue galline vengono su male, i pulcini muoiono, le uova sono deposte in luoghi inaccessibili, sono poche, non si trovano, la gallina se le mangia dopo averle fatte ecc. ecc. Quale sarà il prezzo giusto per il produttore? Saranno le 10 lire al metro che bastano a dare un profitto all’industriale abile, che sa organizzare bene la intrapresa, che compra bene la lana e colloca meglio i tessuti, che paga convenientemente gli operai e sa tenerseli affezionati o saranno le 20 lire le quali non sono neppure sufficienti a salvare dalla rovina il suo concorrente, incapace, presuntuoso, litigioso, i cui operai lavorano male perché non bene guidati, che sbaglia comprando la lana quando è al massimo e sbaglia vendendo quando è costretto a far fronte ad una scadenza imminente di cambiale? Se il prezzo giusto è di 10, non sarà ancora eccessivo, postoché esso lascia un “profitto” all’industriale intelligente? Se glielo toglieremo, che vantaggio avrà ancora costui ad essere intelligente, invece che stupido?
Sia che il «giusto» prezzo si voglia stabilire sulla base dei bisogni dei consumatori o su quella dei costi del produttore, esso dunque porta al caos, alla confusione delle lingue ed è affatto inapplicabile.
Per molti, l’idea del giusto prezzo si connette con la consuetudine. Gli uomini sono abitudinari; non amano le variazioni improvvise. Erano abituati a pagare le uova in media, tra la state ed il verno, 2 lire la dozzina e si inquietano vedendo le uova andare su e giù. Costoro avrebbero anche, probabilmente, considerato ingiusto pagarle solo 50 centesimi; e reputano ingiustissimo pagarle oggi 5 o 6 o 7 lire. Circostanza interessante, gli economisti partecipano a questa aspirazione degli uomini. Anch’essi ritengono desiderabile che i prezzi in generale – non i singoli prezzi, che è cosa impossibile – subiscano poche variazioni. Essi aggiungono però – ma il popolo ed i prefetti ed i sindaci quasi sempre se ne dimenticano – che per ottenere il desiderabile risultato sarebbe necessario possedere una moneta la quale avesse una potenza d’acquisto costante. Da tempo gli economisti vanno alla cerca di questa moneta; né si può dire che i loro studi siano rimasti infruttuosi, sebbene per ora immaturi all’applicazione.
Oggi, però, non esiste in Italia, né altrove, una moneta avente una capacità di acquisto costante. Quando gli uomini parlano di 2 lire come di un prezzo «giusto» per la dozzina d’uova, intendono riferirsi alla unità monetaria lira, quale s’usava un tempo e con la quale sempre s’era usato comprare le dozzine d’uova. Ma la lira d’oggi è una cosa ben diversa dalla lira di prima della guerra. Da una interessante relazione dell’on. Alessio alla Giunta generale del bilancio ricavasi che le lire, ossia i pezzi di carta circolanti con questo nome, erano 3 miliardi e 593 milioni al 31 dicembre 1914 ed erano salite a 12 miliardi e 274 milioni al 31 dicembre 1918. Probabilmente ora abbiamo superato i 13 miliardi. Come è possibile che la lira, di cui ci sono ora 13 miliardi di unità, sia la stessa cosa della lira di cui ce n’erano solo 3 miliardi e 593 milioni di unità? Essa è una cosa tutt’affatto diversa. Essa è deprezzata, precisamente come lo sarebbero tutte le merci di cui si producesse una quantità strabocchevolmente più grande di prima. Non è evidente perciò che l’idea che il prezzo «giusto» delle uova sia di 2 lire la dozzina, è un’idea ragionevole finché le unità di moneta con cui le uova si cambiano rimangono suppergiù di 3 miliardi e 593 milioni – centinaia di milioni più o meno non monta -; ma diventa un’idea priva di senso quando, non essendo cresciute nel frattempo né galline né uova, le unità di moneta quasi si quadruplicano, diventando 13 miliardi? La lira, sia di carta o d’oro, non ha nessun valore fisso, immutabile. Come tutte le altre merci, vale più o meno a seconda che essa è meno o più abbondante. L’arte di governo sta nel farne variare lentamente e con accortezza la massa circolante. Questo vogliono, questo sempre predicarono – al deserto – gli economisti. Invece le lire sono divenute moltissime; e col loro moltiplicarsi tutte le idee degli uomini intorno al «giusto» prezzo delle cose devono forzatamente cambiare.
Poiché tuttavia una definizione del «giusto» prezzo delle cose bisognerà pure che prefetti e sindaci e tribunali la diano, non foss’altro per mandare in carcere coloro che avranno violato il decreto che impone l’osservanza di un giusto prezzo, senza dire che cosa esso sia, mi azzarderò a dare anch’io una definizione. «Giusto» prezzo potrebbe dirsi quel prezzo dato il quale la quantità prodotta e portata sul mercato di una merce è uguale alla quantità che a quello stesso prezzo è domandata. Se a 4 lire la dozzina, si portano ogni giorno sul mercato di Milano 25.000 dozzine d’uova e se a 4 lire tutte quelle 25.000 dozzine sono acquistate, 4 lire sono il prezzo «giusto» delle uova. Infatti, a quel prezzo, le uova si comprano e si vendono tutte, senza litigi, senza code, senza lasciare troppi compratori e venditori male soddisfatti. Se il sindaco fissasse il prezzo delle uova a 3 lire, i produttori ne porterebbero sul mercato solo 15.000 dozzine, perché ad una parte di essi non conviene produrre uova a quel prezzo, al quale essi perdono. Viceversa, se a 4 lire si acquistavano 25.000 dozzine, ora che il prezzo è di 3 lire se ne domanderanno 30 o 35.000 dozzine. Essendo tanto minore la offerta (15.000) della domanda (30.000), ed essendo il calmiere a 3 lire, nasceranno baruffe tra i compratori, ognuno volendo arrivare il primo. Di qui le code, il malcontento dei rimasti a mani vuote, gli accaparramenti dei primi fortunati, le tessere, il razionamento, ecc. ecc. Se invece il prezzo fosse fissato a 5 lire, probabilmente i contadini alleverebbero più galline da uova, essendo il prezzo tanto remunerativo e finirebbero alla lunga per portare sul mercato 30.000 dozzine. Ma a 5 lire, la domanda, che era di 25.000 dozzine a 4 lire, diventa solo più di 20.000. Ci sono più uova offerte, di quelle domandate. Ecco che il calmiere non serve più a nulla; ed i magistrati dovrebbero mandare in galera i produttori perché vendono al disotto del giusto prezzo.
Quello di 4 lire o quel qualsiasi altro prezzo – 2 o 3 o 5 o 6 a seconda dei casi – che renda di fatto la quantità offerta uguale alla quantità domandata è dunque il solo “giusto” prezzo che non sia privo di senso comune.
Riusciranno i sindaci ed i prefetti ed i commissari ed i tribunali a scoprire e fissare precisamente questo giusto prezzo? Non lo so; ma ne dubito molto, non potendo fare a meno di ricordare le loro recenti prodezze in argomento. Per lo più, essi tenteranno di rimanere al disotto di questo, che è il solo «giusto» prezzo. Essi si illuderanno di fare, con ciò , il vantaggio dei consumatori. Pura illusione; perché il risparmio che i consumatori faranno pagando le uova 1 lira meno del giusto prezzo la dozzina, lo dovranno perdere:
- sotto forma di imposte necessarie a mantenere in piedi la macchina degli uffici tessere, razionamento, requisizioni, vigilanza di polizia necessaria per distribuire 15.000 dozzine a 3 lire tra consumatori che, a quel prezzo, avrebbero voglia di comperarne 30.000. Tutto si paga, anche gli uffici di annona;
- sotto forma di attesa nelle code dei consumatori facenti ressa per non rimanere privi d’uova o di altri generi. Il ricco manderà la domestica a far la coda, o stipendierà una persona apposita per sbrigare questa faccenda dei pugni e delle male parole, del freddo, del vento e della pioggia dinanzi alle botteghe dei rivenditori di commestibili. Che differenza c’è tra pagare 1 lira di più le uova ovvero stipendiare una persona che le procuri ad 1 lira di meno? Nelle famiglie di modesta fortuna, sarà la madre di famiglia o la ragazza che dovrà perdere tutta la mattinata, alzarsi di buon ora, buscarsi malattie per potere ottenere il necessario per il desco familiare. Tutti questi disagi, tutta questa perdita di tempo, tutti questi rischi di malattia non compensano, ed al di là, il risparmio nel prezzo d’acquisto?
Sia lecito azzardare la facile profezia che prefetti, sindaci e magistrati non indovineranno mai il vero «giusto» prezzo e che dagli inevitabili spropositi discenderanno guai infiniti, del genere di quelli che si è tentato di scrivere or ora.
[1] Con il titolo Quel che si può e si deve fare in materia di caro viveri [ndr].
[2] Con il titolo La lotta contro il caro viveri. Un programma pericoloso [ndr].
[3] Con il titolo Il caro viveri ed il ritorno alla libertà dei commerci [ndr].
[4] Con il titolo Contro il caro viveri. I tumulti popolari e il dovere del governo [ndr].
[5] Con il titolo Ammonimenti savi e chiodi fissi in testa [ndr].
[6] Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 151-156 [ndr].