Il problema dell’ozio
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1932
Il problema dell’ozio
«La Cultura», gennaio-marzo 1932, pp. 36-47
In estratto: Roma, Società editrice «La Cultura», 1932
Tre, dicesi, sono gli inglesi più odiati dai loro compaesani: Davide Lloyd George, Bernard Shaw e John Maynard Keynes. Naturalmente, sono odiati dalle persone rispettabili, le quali frequentano i clubs distinti, appartengono al medio ceto elevato, leggono i quotidiani ed i settimanali gravi e non amano essere disturbati nelle convinzioni ereditate dagli avi. Quei tre sono stati e sono gran disturbatori di credenze false, di opinioni ricevute, di costumi tradizionali. Non si può non leggere e non andare a sentire Bernard Shaw che lancia il paradosso avvelenato contro la famiglia, la chiesa, e le istituzioni rese sacre dal tempo; ma lo si odia con violenza e con rancore. Anche Lloyd George è un gran seccatore. Si inimicò tutta la nobiltà grande e mezzana e tutti gli aspiranti ad essere ricevuti a corte o nel castello del signore o del baronetto locale, quando portò via di fatto quasi ogni potere politico alla camera dei signori; e fece questa grossa rivoluzione politica allo scopo di far approvare una legge d’imposta sulla terra, che non fu poi mai applicata, perché l’applicazione costava troppo e che rifatta approvare, sotto specie alquanto diverse, da Mr. (ora Lord) Snowden, di nuovo è stata, per lo stesso motivo, abbandonata al momento di applicarla. Quando, al tempo delle ultime elezioni generali, si trasse indietro dall’abbracciamento generale e rimase a capo di un partito composto, oltrecchè di lui, del figlio, della figlia e di un altro famigliare, di nuovo la gente timorata di Dio pensò: il diavolo fatto gallese vuole allearsi con i socialisti e condurre l’impero alla perdizione!
Siano maledetti lui e tutta la sua razza!
Perché anche Keynes goda il privilegio dell’odio dei benpensanti è forse un pò difficile dire. Un po’ egli deve essere venuto sulle corna degli scrittori di articoli di varietà, di novelle e di romanzi, perché i suoi libri, non, s’intende, l’Indian Currency and Finance, A treatise on probability ed A treatise on money, ma gli altri, quelli che una volta si chiamavano pamphlets, grossi opuscoli d’occasione: The Economic Consequences of the Peace, A revision of the Treaty, A tract on Monetary Reform e l’ultimo intitolato Essays in persuasion[1] quasi ad indicare la loro efficacia a persuadere del contrario, sono scritti bene e si vendono più di molte novelle e di molti romanzi. Devono, con discrezione e benignamente, parlarne a denti stretti quei colleghi economisti, le cui lettere ai giornali non suscitano grande eco, perché scritte in linguaggio difficile ed anche i competenti occorre piglino la penna in mano e ne rifacciano i ragionamenti per conto loro, mentre le lettere e gli articoli di Keynes van giù lisci come l’olio ed anche quando racconta fandonie le dice con tanta vivezza di linguaggio che paiono oro colato.
Sovratutto, Keynes ha la brutta abitudine di pestare i piedi al prossimo. Quando tutti si impietosivano sulle sorti della industria del cotone, egli andò a Manchester e spiattellò agli industriali che il torto era tutto loro, che i loro impianti erano antiquati, la loro organizzazione ridicola, le banche, di cui erano clienti, avrebbero perso i loro denari se non li costringevano a mettere testa a partito ecc. ecc. Fossero verità od esagerazioni, levavan la pelle e lasciavano il brucio per un pezzo. Quando banchieri e uomini della City di Londra si rallegravano nel 1925 per il ritorno all’oro e la riconquista del primato monetario mondiale, Keynes guastò la festa affermando che il ritorno all’oro era una stupidità dalla quale sarebbe venuta ogni specie di guai. Né romanzieri o cotonieri o banchieri potevano metterlo a tacere accusandolo, come si fa per gli economisti, di essere un teorico; perché invece tutti sanno che egli è un ottimo pratico, amministratore delegato di società di assicurazione e «bursar» ossia tesoriere del suo collegio, il King’s College di Cambridge, i cui fellows sono invidiati dai soci degli altri collegi della città universitaria perché, con accorti impieghi, Keynes è riuscito ad aumentare i dividendi del patrimonio collegiale.
Per rendersi definitivamente simpatico al medio ceto, Keynes enuncia le tesi più urtanti. Non parlo della stravaganza di essersi messo a predicare un dazio del dieci per cento su tutte le importazioni – ché anzi questa, essendo conformistica, gli aveva riconciliato il cuore dell’universale – perché ne fece presto ammenda, ritirando la proposta quando si avvide che essa stava per essere attuata nonostante il crollo della sterlina. La stravaganza imperdonabile è di essersi messo a fare il bolscevico in un momento, in cui non solo i comunisti perdono, per l’infimo numero dei voti ottenuti, tutte le cauzioni depositate per avere il diritto di presentare candidature alla camera dei comuni; ma i laburisti sono decimati, la disoccupazione imperversa e non si sa, nonostante la strepitosa vittoria dei conservatori, come si farà ad uscire dalla crisi. Keynes aspetta questo bel momento, in cui in tutti è l’ansia di non trovar lavoro e pare venuta la fine del mondo od almeno del mondo cosidetto capitalistico, per venir fuori con un inno al bolscevismo.
Non che, per lui, il comunismo o bolscevismo sia una invenzione interessante dal punto di vista economico. Ohibò! Dal miserabile punto di vista del fabbricar ricchezze o beni economici, il comunismo non ha davvero nulla da insegnare al vecchio occidente capitalistico. In punto di organizzazione dell’industria, progressi agricoli, impianti idroelettrici, strade, navigazione interna, urbanistica, ecc. ecc., i comunisti russi sono dei piccoli scimmiotti, che hanno ripetuto il gesto di Pietro il Grande: alla scuola dell’occidente europeo e degli Stati Uniti hanno imparato e tuttodì imparano quel che essi imitano nel loro paese. Non v’è alcun argomento il quale possa far dubitare che l’organizzazione economica a tipo individualistico non sia capace di fare altrettanto e meglio dell’organizzazione a tipo comunistico. La quale ottiene quel qualunque suo risultato a costo d’una siffatta compressione della libertà individuale, e di siffatte crudelissime e selvagge repressioni, infernale frutto della contaminazione di fatalismo russo e di messianismo ebraico, caratteristica, a parere del Keynes, del bolscevismo, da escludere che a persona sensata venga per un momento in capo di assoggettarvisi.
A questo punto, quando il libero britanno del ceto medio, sentendosi rimescolare in seno i fieri ricordi dei quaccheri, dei non conformisti, dei ribelli agli Stuardi ed alla camera stellata, sta per gettare le braccia al collo di Keynes, ecco l’indiavolato scrittore scandalizzarlo seguitando: se il comunismo bolscevico non val nulla come esperienza economica, se esso non offre nessuna soluzione interessante al problema economico, essa ha però una importanza straordinaria perché nega apertamente, entusiasticamente, con la fede appassionata di una religione che esista il problema economico. Il bolscevismo vuole persuadere gli uomini a non dare importanza al problema economico della vita, vuole sradicare dall’animo degli uomini i sentimenti di amore al denaro, alla ricchezza, l’istinto del risparmio, della accumulazione, della eredità. Il bolscevismo vuole, sì, attuare il suo ideale di vita colla forza; ed in ciò sta il suo vizio. Ma il vizio di metodo non prova che sia vizioso l’ideale.
Il comunismo pone invero come ideale il fatto di domani. Presto invero il problema economico non esisterà più. Durante la nostra generazione, continuando i progressi tecnici secondo il metro odierno, lo sforzo necessario per procacciare agli uomini i prodotti della terra, delle miniere e dell’industria sarà ridotto ad un quarto dell’odierno. Come nell’ultimo secolo la massa dei beni posti a disposizione di ogni uomo è stata moltiplicata per quattro, così entro un secolo si moltiplicherà almeno per otto. Il modo di vivere degli uomini sarà fra un secolo otto volte almeno più facile, più bello, più copioso d’oggi. Pochissima fatica, di tre ore al giorno al più, farà d’uopo per ottenere il risultato stupendo. Per migliaia d’anni gli uomini sono stati quasi esclusivamente occupati nel duro lavoro di procacciarsi da vivere. Il problema dell’avvenire sarà quello del come occupare il proprio tempo in assenza della necessità di lavorare per vivere. Che cosa faranno gli uomini della loro giornata quando non dovranno più ubbidire al comandamento: Tu lavorerai col sudore della tua fronte?
Ecco il vero problema dell’avvenire. La crisi odierna di disoccupazione è un pallido preannuncio della crisi futura. Ogni progresso tecnico produce disoccupazione tecnica. Gli uomini non possono essere tutti occupati per molte ore al giorno a lavorare per produrre beni economici perché il faticare per produrre sta diventando ogni giorno più inutile. La macchina lavora da sola, liberando gli uomini dalla schiavitù del lavoro. La crisi vera è una crisi morale. Come persuadere gli uomini che il loro ideale di vita è privo di contenuto? Il ceto medio, vissuto fin qui nella onesta convinzione che il risparmio, la frugalità, l’accumulazione per sé e i figli sia una virtù, individuale e sociale, fin qui lodata ed accarezzata da politici, da ecclesiastici, da economisti come il sostegno dell’edificio sociale, il baluardo della città umana contro il vizio; abituato da secoli a reputare se stesso come lo specchio morale in cui le dissolute classi alte e le imprevidenti classi proletarie dovevano affissarsi, in che cosa troverà, se improvvisamente il problema economico svanisce, la ragione della propria esistenza? Peggio di Bernard Shaw, il quale lo scandalizza e lo irrita con il sarcasmo corrosivo, John Maynard Keynes lo mortifica togliendogli la ragione di vivere. L’amore del denaro – Keynes dice invero del denaro per il denaro, in contrasto a quello del denaro per uno scopo, ma la differenza è evanescente – sarà dunque considerata una malattia disgustosa, una inclinazione semicriminale, semipatologica da affidarsi alle cure di un medico specialista? Scompariranno le società di assicurazione sulla vita, le mutue innumerevoli che sono creazione stupenda dello spirito di previdenza del ceto medio, ora fatta propria, con successo meraviglioso, dai ceti operai? Shocking! dice l’inglese rispettabile che la domenica, accanto al caminetto legge The New Statesman and Nation, il settimanale in cui si leggono stampate le eresie, le quali scalzano alla radice la ragion di vita del mondo come egli lo conosce. Non esisterà più dunque l’onesto lavoro ed il meritato suo guiderdone? Non vi sarà dunque più differenza fra il giorno santo della domenica consacrato al riposo ed i giorni dedicati alla più santa fatica? Che il week end sia stato anticipato dalla domenica al sabato ed usurpi un po’ del venerdì sera e del lunedì mattina, passi.
Ciò fa parte dei privilegi conquistati attraverso a lotte secolari dal lavoratore britanno. Ma che gli uomini debbono ridursi tutti al livello dei frequentatori di transatlantici e di grandi alberghi nelle stazioni climatiche, occupatissimi nel non far nulla e nel cercare affannosamente il modo di far passar il tempo, no e poi no. Il lavoro inutile? Non dice il proverbio che l’ozio è il padre di tutti i vizi?
Poiché la tesi è immorale, antipatica, distruggitrice di ogni sano ideale di vita, sia innanzi tutto scomunicato il suo autore, bruciato vivo come eretico e le ceneri sparse al vento. Il che eseguito, si può cominciare a discutere la tesi.
Essa non verte al comunismo e alla possibilità che la religione comunistica conquisti il mondo. Il comunismo è cosa troppo materiale, troppo economica perché possa aver speranza di duraturo trionfo non che sugli altri, nel suo stesso paese. Quando i russi avranno costruito i più grandiosi impianti idroelettrici, le tessiture più moderne, tratto il carbone e il petrolio dalle viscere della terra nel modo meno costoso, quando avranno spinta a massimi mai visti la produzione dei loro terreni – e diamo per accaduto quello che è lontanissimo dall’essere fatto – i russi si chiederanno: a che tutto ciò? Per quale scopo noi fatichiamo poco o molto, otto o due ore al giorno, nel produrre ricchezze? Solo per poter molto consumare? No. Solo per ammirare l’organizzazione tecnica la quale ci offre tanto risultato? No. Solo per cantar le lodi dell’organizzazione collettiva la quale ci trasforma in una ruota ubbidiente dell’ingranaggio produttivo? No. Beni di consumo, strumenti tecnici, organizzazione statale coercitiva valgono solo se consentono agli uomini di elevarsi, di perfezionarsi, di aspirare ad un ideale, di volere un fine. Ma l’uomo non si eleva, non si perfeziona, non ha ideali, non vuole raggiungere fini per dettato altrui. Elevazione, perfezionamento, volontà di ideali, consecuzione di fini sono proprii dell’uomo che pensa, riflette, e si decide. L’educazione è intima e libera o non è. Il bolscevismo tutto intento a conseguire fini materiali, costretto a coercire gli uomini al lavoro per il benessere materiale, non può educare, non può elevare l’uomo. Non è escluso che anche oggi i comunisti educhino ed abbiano ideali e più li abbiano domani, vinta la prima battaglia economica; ma li hanno e più li avranno in quanto svestano la loro propria indole, cessino di imporre la loro volontà colla forza e si facciano promotori di educazione vera, che è quanto dire di libertà dello spirito. Ossia, i comunisti rientreranno nell’ambito della civiltà contemporanea solo quando avranno rinunciato a sé stessi ed al luogo della bestiale religione economica, la quale consente l`impiego della forza, porranno la religione dello spirito, la quale vuole che l’uomo liberamente ponga a sé stesso il problema della vita.
La domanda che il Keynes pone agli attoniti suoi compatrioti è: che cosa liberamente farete della vostra vita quando non dovrete più lavorare per vivere, quando la macchina vi avrà liberati dalla schiavitù della fatica od avrà ridotto questa a così poca cosa da non dovere più occupare la vostra mente?
Il tragico della domanda sta in ciò che essa risponde troppo bene al segreto desiderio del medio inglese perché essa, con la sua brutale franchezza, non riesca ad irritarlo. Non si va a dire alla vivente generazione: per ora e per cento anni avvenire tu ed i tuoi figli dovrete faticare a produrre, ad accumulare, ad inventare affinché i tuoi nipoti possano godere di lunghi ozi e porsi il problema del come occuparli. Educati tuttavia fin d’ora a tenere in minor conto quelle virtù di lavoro e di risparmio che furono la condizione del progresso compiuto in passato. Educati a pregiare la scienza, l’arte, la natura, l’elevazione fisica, intellettuale e morale più del denaro e della noiosa fatica quotidiana. Per poco tempo ancora la fatica sarà il tuo retaggio; e l’accumulo di denaro la condizione necessaria dell’indipendenza economica. Bisogna gradatamente abituarsi all’idea di un tempo in cui il lavoro da compiere per essere indipendenti sarà così scarso che il problema da risolvere sarà di distribuirlo per modo che tutti abbiano qualcosa da fare e non diventi troppo grande il numero dei fuchi oziosi viventi alle spalle delle poche api laboriose le quali volontariamente si assumeranno tutto il lavoro della comunità. Perché non ci siano troppi fuchi, è necessario togliere a poco a poco vigore all’istinto del lavoro e dell’accumulazione nelle api, cosicché tutti siano costretti al lavoro e, assolto questo, possano intendere alla vita dell’animo.
Il discorso è irritante, perché mette a nudo il peccato che il medio inglese – ed oggi il medio inglese comprende anche gran parte del ceto lavoratore bene educato ed istruito – tra sé e sé è costretto a rimproverarsi. Che cosa va cianciando il Keynes di un’epoca futura felice in cui gli uomini non avranno più bisogno di abbrutirsi col lavoro ma, dopo breve fatica, potranno attendere alle cose dello spirito? Questo del lavorare poco e dell’attendere a cose superiori non è già l’ideale che gli inglesi degli ultimi cinquanta anni hanno sempre meglio cercato di attuare? L’allungamento progressivo della fine di settimana, e lo scorciamento della giornata di lavoro – orario unico, uffici deserti fino alle dieci e dopo le cinque pomeridiane, vacanze di banca, vacanze estive – non sono già da tempo l’orgoglio dell’isola, la marca distintiva della libertà britannica dall’abbrutimento continentale? Cuoce sentirsi additare questi sentimenti come ideali del futuro, quando in fondo all’animo si sente un vago rimorso di averli attuati troppo presto; quando va diffondendosi la concezione che gli inglesi abbiano già ecceduto nell’ozio, nelle vacanze nelle fini di settimana; quando i mercati del mondo sono conquistati dalle industrie e dai commerci di tedeschi e di americani, di italiani e di francesi più alacri, più laboriosi, più parsimoniosi degli inglesi. Cuoce sentirsi incoraggiati a guardar dall’alto al basso la virtù del risparmio, quando la coscienza segretamente rimorde per avere già fin troppo scemato il saggio di accumulazione di risparmi nuovi, quando per molti segni si comincia a dubitare che le cose non vadano bene, e la crisi si diffonda in tutto il mondo anche perché nella vecchia Inghilterra si risparmia troppo poco e non si formano capitali a bastanza da impiegare nello sviluppo dei paesi nuovi e questi perciò non fanno domanda di macchine e di tessuti e di carbone inglesi. Fa rabbia sentirsi invitare a dimenticare le bassure del denaro per la contemplazione della vita dello spirito quando, per salvare l’antico primato, la piazza di Londra, non trovando abbastanza risparmi nel paese, è indotta a prenderli a mutuo all’estero, per reimpiegarli medesimamente all’estero; e l’ufficio di mediatore, in un momento di panico, è occasione al crollo della sterlina. È stato l’ozio così bene impiegato da far prognosticare vantaggiosi risultati per il giorno in cui esso si estendesse e si generalizzasse assai più di quanto oggi non accada? Si è elevato il livello della cultura, è più profonda la vita morale in proporzione al crescere dell’ozio? O anche in Inghilterra l’imperversare dello sport nelle sue forme più grossolane, il successo dei quotidiani sensazionali, illustrati, privi di contenuto politico e culturale non rendono testimonianza di una diffusa tendenza nel popolo a dedicare, come fanno le classi alte, l’ozio guadagnato a futili fini?
Aristotele predisse che la schiavitù sarebbe stata abolita il giorno in cui la macchina avesse compiuto il lavoro dello schiavo. A quel giorno, vaticinato dal filosofo, noi ci stiamo avvicinando a grandi passi. Ma non perciò gli uomini saranno liberati dalla necessità di lavorare e di pensare all’avvenire. La fatica dello schiavo è lieve in confronto al rude lavoro necessario a serbare la libertà conquistata sulla materia bruta. Ricordate l’operaio di Ford, il quale era contento del lavoro monotono, sempre uguale, che egli compieva da anni, ogni giorno ed ogni ora dell’anno e rifiutò di passare ad un lavoro più arduo, il quale avrebbe richiesto uno sforzo di intelligenza? L’uomo il quale fatica col braccio giudica oziosi quelli che lavorano altrimenti e li invidia. Offritegli il posto ed egli indietreggerà spaventato. Keynes dice che i contemporanei corrono pericolo di un generale collasso nervoso dinnanzi alla scomparsa del problema economico ed alle necessità di abbandonare le abitudini e gli istinti della vita condotta per secoli e per millenni. Io credo invece che il passaggio dalla vita acquisitiva alla vita contemplativa avverrà lentamente, a gradi, e forse per alcuni uomini non avrà luogo mai. Se la macchina libererà gli uomini dalla fatica di produrre i beni usuali fondamentali della vita, ed arriverà a fornire senza costo o quasi senza costo il pane, il vitto, il vestito, la casa, altri beni saranno inventati dagli uomini e li indurranno alla fatica. Se tutti fossero come il filosofo, il quale è contento di meditare colla scorta dei libri dei saggi e forse cento volumi sono troppi per lui, il mondo diventerebbe presto estremamente noioso. Pochi essendo dotati dalla capacità di filosofare o d’inventare nuovi veri, un campo immenso, sconfinato si apre per l’operosità umana: apprendere ed insegnare. Già ora, l’industria dell’insegnamento è divenuta una delle più importanti nei paesi moderni; subito dopo, mi fu detto da un acuto osservatore, quella dell’agricoltura. Si pensi quanto pochi fossero i maestri di scuola ed i professori di umanità e di università prima della rivoluzione francese e quanto il loro numero sia cresciuto oggi, che nella sola Italia sono almeno 120 mila i maestri elementari nelle scuole pubbliche e private e il resto in proporzione. Si pensi ai maestri ed ai professori che mancano, alle meravigliose cose che si potrebbero fare se esistessero laboratori, gabinetti, assistenti quanti sarebbe desiderabile. Si rifletta alle biblioteche, generali e speciali, fisse e circolanti che sarebbe conveniente organizzare in ogni più piccolo villaggio; si rifletta agli archivi da ordinare, da illustrare, ai cataloghi da compilare e da stampare e si dica se sia più infondata la profezia del Keynes che fra cent’anni gli uomini dovranno porsi il problema del cosa fare del loro tempo quasi tutto libero o la mia secondo cui fra cent’anni nella sola Italia almeno un milione di uomini e donne saranno occupati nell’insegnare ad altri il modo di attendere alla vita dello spirito. Oggi mancano, si dice, all’uopo i mezzi. Le biblioteche non hanno personale, gli archivi non sono sfruttati a dovere, laboratori e cliniche e gabinetti non hanno dotazioni bastevoli, in certe scuole rurali una maestra insegna contemporaneamente a bambini di tre o quattro classi, perché i mezzi di provvedere a tutto non esistono. Che cosa vuol dire mancanza di mezzi? Che il lavoro degli uomini è dedicato a cose reputate più urgenti in confronto alla cultura dello spirito: al procacciamento del cibo, della bevanda, del vestito, della casa. Fate che la macchina provveda da sé o quasi a siffatte opere inferiori ed il lavoro diverrà libero per attendere ad opere più alte. Ho detto un milione e probabilmente ho detto poco; poiché il fare avanzare la scienza e l’apprenderla altrui e il tenere in ordine gli strumenti di essa è cosa assai più difficile e delicata del fabbricare pane o panni; e dalle macchine calcolatrici e scritturatrici potrà essere agevolata, non mai compiuta. La macchina consentirà che siano prodotti, a milioni di copie ed a costo infimo, i libri per le moltitudini. La macchina produrrà la carta da giornali e la carta ordinaria, stamperà, cucirà, legherà; sicché potremo procacciarci Dante ed i Promessi Sposi per il prezzo di cinquanta centesimi odierni invece che di cinque lire. Ma la macchina non correggerà gli errori di stampa; sicché il numero dei correttori e dei curatori di edizioni crescerà a dismisura. Né la macchina produrrà mai le edizioni fini, le pagine ben costrutte, le carte a mano, le legature di buon gusto, degne di rimanere nelle mani degli amatori. Oggi, i libri belli, tipograficamente belli, se ne producono pochi, perché gli uomini non hanno abbastanza mezzi da comperarli. Ma fate che la macchina liberi gli uomini dal grosso della fatica quotidiana per l’acquisto dei beni inerenti alla «bestia» che è nell’uomo ed essi, insofferenti dell’ozio, faticheranno più di prima per procacciarsi beni atti a soddisfare l’angelo che è anche parte della loro natura. Perché preoccuparci oggi di che cosa gli uomini faranno quando saranno forniti di ozio, ossia quando, per usare il linguaggio di Keynes, la macchina avrà risoluto il problema economico? Ogni uomo da sé risolverà il problema del proprio tempo disponibile. Non cesseremo mai di udire il rimpianto dell’uomo attivo per una giornata di quarant’otto ore invece delle ferree ventiquattro. Chi può porre un limite alla varietà delle cose belle, distinte, individuali, ai fiori stupendi, alle frutta atte a rallegrare l’occhio prima che a soddisfare il gusto, ai mobili artistici, alle stoffe, ai quadri, che la macchina cieca non sarà mai in grado di fabbricare, o, fabbricandoli, farà scemare di pregio ed uscire dal novero delle cose desiderate?
Il punto essenziale è del come conservare i sentimenti i quali fanno ripugnare all’uomo moderno l’ozio. Keynes ha quasi l’aria di lasciar credere che i meravigliosi incrementi nella massa di beni posti a disposizione degli uomini si siano verificati da sé dopo il ‘500, in virtù delle invenzioni tecniche e della accumulazione progressiva del capitale. La storia dell’arricchimento britannico si ridurrebbe a quella di certe 40.000 sterline che furono la quota della regina Elisabetta in una celebre campagna di pirateria condotta nel 1580 da Drake contro i galeoni spagnuoli carichi di oro e di argento. Impiegati dalla vergine regina nella compagnia del Levante e poi in quella delle Indie, quelle 40.000 sterline accumulate all’interesse composto del 3,5 per cento corrisponderebbero ai 4 miliardi di sterline di investimenti esteri ora posseduti dall’Inghilterra. Tutto ciò è pura fantasia. Le ricchezze non si acquistano colla pirateria e non si accumulano da sé; né le invenzioni saltano fuori ai cenni dei capitalisti. Questa è storia scritta da un Marx in ritardo, privo della fede che consentì al Marx di commuovere i popoli divulgando teorie economiche e sociologiche prive di senso comune.
La verità è che da qualche secolo soltanto, all’incirca dal secolo decimosesto, gli uomini, anzi gli europei, hanno cessato di considerare l’ozio, il riposo come il supremo bene ed hanno cercato l’ozio attraverso il lavoro; hanno trasformato la realtà in una chimera. Gli uomini, invece di considerare l’ozio come un ideale per se stesso e la fatica come cosa vile, ed invece di morire perciò di fame, di malattia e di carestia ricorrenti e di uccidersi in guerra per rubarsi a vicenda senza fatica il frutto della fatica, cominciarono a persuadersi che l’ozio più facilmente e più pianamente poteva raggiungersi faticando. L’ozio invece di essere il sostituto e l’alternativa della fatica, divenne lo scopo che si volle conseguire mercé la fatica. Come la rivoluzione nel modo di concepire il rapporto fra ozio e fatica sia accaduta è problema storico tra i più difficili; e, nonostante le indagini recenti sulle origini del capitalismo moderno, non del tutto risoluto. Certo è che nessun problema fu tra la fine del XVI e la metà del XVIII secolo tanto discusso dagli economisti e dai moralisti quanto quello del modo migliore di persuadere gli uomini a lavorare. Dopo, nel secolo XIX, si pose il problema del come salvarli dall’eccesso di lavoro. Oggi si discute della salvazione dall’abbondanza dell’ozio. Ricordiamoci che l’ozio non è una premessa; ma una conseguenza. Se fosse una premessa, se cioè gli uomini immaginassero di potere godere dell’ozio senza lavorare, ritorneremmo presto alla miseria. Le macchine non si inventano e non si fabbricano da sé, i capitali non si accumulano e sovratutto non durano da sé, automaticamente. Tutto è precario sulla terra senza il lavoro e senza il risparmio. Ogni tanto un pirata, come Drake, può portar via il frutto del lavoro altrui. Ma una società fondata sul latrocinio non dura. L’ozio è il premio del lavoro. Ciò che contraddistingue le società progressive, quelle in cui la fatica del lavoro diminuisce e cresce il premio del lavoro è la decrescente importanza relativa dell’ozio reso possibile dal lavoro altrui. Se nei quattromila anni trascorsi prima del 1700 il tenor di vita dell’uomo medio migliorò poco, la causa non è tanto nella mancanza di invenzioni tecniche e di accumulazione di capitale ad interesse composto quanto nella mancanza dello stimolo ad inventare e ad accumulare. Era radicata negli uomini l’idea che si potesse acquistare ricchezze solo a danno altrui. L’ozio era concepito come il frutto della preda. Che esso sia il frutto del lavoro proprio ed al più dei propri genitori ed avi, che si possa acquistare ricchezza accrescendo la ricchezza altrui, è idea moderna la quale ha prodotto risultati mirabili. Venga meno lo stimolo al lavoro; e in poche generazioni il livello di vita dell’uomo medio discenderà rapidamente, ben più rapidamente di come si è innalzato. Perciò reputo abbia ragione l’inglese medio se leggendo qualche pagina brillante di Keynes sente disgusto ed ira. Il disprezzo che da quelle pagine sprizza fuori verso coloro i quali lavorano ed accumulano è ingiusto moralmente e storicamente sbagliato. Il contrasto che egli pone fra «i pugnaci volontari fabbricanti di denaro i quali recano l’abbondanza al resto del mondo» e coloro i quali «sono capaci di tener viva e condurre a perfezione piena l’arte della vita» è sbagliato. Non è vita degna di essere vissuta quella di chi in una qualunque guisa non ha faticato o non fatica. L’ozio è lo scopo della vita se voluto e meritato. Solo chi sa può godere i suoi ozi. Chi sa condurre a perfezione l’arte della vita sa anche lavorare. Se la fatica degli avi gli ha consentito di condurre una vita scevra da preoccupazioni economiche, come quella che il Keynes reputa dover essere l’appannaggio di tutti gli uomini fra cento anni, egli si è reso degno dell’indipendenza ricevuta solo grazie ad una vita nobilitata dall’ansia spirituale o dalla consacrazione di sé alla cosa pubblica od a fini diversi dal grosso godimento egoistico.
L’uomo medio, che non ragiona troppo, sente istintivamente questa verità fondamentale; che il problema di una vita più alta, in un mondo sempre meglio fornito di beni materiali, sarà risoluto dagli uomini che tengano in onore il lavoro, che siano solleciti della famiglia, che pregino le tradizioni del passato e siano pronti a purificare se stessi a vantaggio delle generazioni future. Oggi o fra cent’anni, la vita sarà per essi una cosa seria, di cui seriamente risolveranno il problema.
Gli altri, chi sono? Domani saranno gli stessi di oggi; i furbi che vivono del lavoro altrui, coloro che non sanno trarre pro dalle ricchezze ereditate, od utilizzano il frutto delle fatiche proprie in basso modo, conforme alla loro natura bestiale. Certo, costoro sono malati, che occorrerebbe eliminare. Problema non di domani, ma di oggi, di ieri e di sempre. Qui sono da un lato più ottimista di Keynes; poiché esistono mezzi i quali eliminano in breve volgere di tempo i malati, riducendoli alla condizione servile, che essi meritano. La privazione a vantaggio altrui è la pena dell’avarizia e la rovina è la sanzione degli istinti grossolani. Da un altro lato sono più pessimista, poiché non immagino come l’avarizia e la sordidezza, la stupidità e la furbizia possono mai essere eliminate dal mondo. L’eliminazione ha un limite nella necessità di non dare altrui, fuor dei casi contemplati dai codici penali, il potere coattivo di individuare e di punire avarizia e sordidezza, stupidità e furbizia; ché il potere sarebbe usurpato dagli astuti ipocriti, pessimi fra tutti i cattivi.
Al Premio Pollini quattro furono i concorrenti: Edoardo Strumia, Giovanni De Maurizi, Carlo Benedetto e Guido Bustico.
Il dottor Edoardo Strumia presenta una Monografia a stampa: Lineamenti dello sviluppo economico della città di Fossano, ed un manoscritto dattilografato: Settecento Fossanese.
Non prive di qualche pregio per l’illustrazione di particolari aspetti della vita fossanese, le due Monografie tradiscono l’inesperienza dell’autore nel metodo storico e nell’ordinata esposizione della materia.
Il dott. Giovanni De Maurizi presenta a stampa un volume di Memorie storiche di Premia e dei Valvassori di Rodis-Baceno; ed il sac. Carlo Benedetto ha un volume intitolato: Tavagnasco. Storia civile e religiosa; i quali se possono essere considerati come lodevoli sforzi di illustrazione della vita locale, non hanno importanza bastevole a farli ritenere degni di essere contemplati per il premio.
Il solo meritevole di grande considerazione è il dott. Bustico, il quale presenta due serie di numerose pubblicazioni: l’una concernente Novara, e questa va esclusa in base alle condizioni del concorso, le quali escludono espressamente i capiluoghi di Provincia e di Circondario, ad eccezione di Domodossola e Pallanza, e l’altra concerne l’Ossolano e quindi rientra nei termini del concorso. I suoi contributi sono così cospicui per numero e per pregio da costituire e sostituire la richiesta Monografia complessiva ed organica, in quanto tutti si accentrano sulla Domodossola, preferita dal titolare, e ce ne offrono, ampiamente integrate, le storiche vicende.
La commissione è perciò unanime nel proporre che il Premio Pollini sia conferito all’attivissimo studioso dott. Bustico Guido, già altamente benemerito per indefessa e svariata attività di bibliografico e di storico.
Torino, 5 aprile 1932 – X.
La Commissione: C. F. Parona, Presidente, F. Ruffini, F. Patetta, A. Luzio, L. Einaudi, Relatore